Hebraica
La storia del coppiere

l modo in cui i rabbini leggono e interpretano con grande libertà testi che reputano dati da Dio ci dice molto di quei testi, ma ancora di più dei lettori vissuti tanti secoli dopo che sulla loro scorta si definiscono

Il midrash riflette sui libri biblici, scritti come noto con stile asciutto e conciso. Ne amplifica i racconti e riempie i silenzi, spesso collegando passi diversi sulla base di un possibile senso comune o della presenza di una medesima parola. Il midrash, espressione della stessa civiltà rabbinica che origina il Talmud – i cui trattati contengono d’altra parte molti midrashim – si sofferma non solo su episodi e personaggi fondamentali del Tanakh, ma anche su quelli apparentemente minori. Il modo in cui i rabbini leggono e interpretano con grande libertà testi che reputano dati da Dio ci dice molto di quei testi ma ancora di più dei lettori vissuti tanti secoli dopo che sulla loro scorta si definiscono. Prendiamo come esempio la storia del coppiere che Giuseppe incontra mentre è in prigione in Egitto, letta nelle sinagoghe in questo periodo dell’anno, per la quale la fonte principale di midrashim di cui disponiamo è la raccolta classica Bereshit Rabbà, un lungo midrash esegetico che commenta il libro di Bereshit/Genesi versetto dopo versetto (tranne negli ultimi capitoli, in cui procede più speditamente). Molto del materiale presente in Bereshit Rabbà è stato riutilizzato e incluso in raccolte successive e antologie medievali che non di rado presentano varianti.

Il punto di partenza della storia ci dà un esempio sul modo con cui il midrash si confronta con il testo biblico. La Torà annota con l’usuale sobrietà che “il coppiere e il panettiere del re d’Egitto mancarono verso il loro padrone”, il faraone, che li fa condurre in carcere. Il midrash non si accontenta e si chiede quale sia la colpa dei due caduti in disgrazia: “I nostri maestri dissero: si trovò una mosca nel bicchiere preparato dal coppiere, e una pietruzza nel pane preparato dal panettiere”. Ma come sempre capita esistono spiegazioni alternative, spesso introdotte dalla formula davar acher, “un’altra cosa”: “Rabbi Eviatar disse: cercarono di sedurre la figlia del re”, in parallelo all’analoga (falsa) accusa rivolta a Giuseppe. Fin qui le possibili cause occasionali. Ci sono poi cause profonde piuttosto differenti: “Il santo, sia benedetto, fece adirare i padroni con i servi per rendere grandi i giusti”. Vediamo qui sbiadire la responsabilità di coppiere e panettiere e invece in primo piano l’ira del faraone, a propria volta suscitata da Dio con l’obiettivo ben definito di rendere grande Giuseppe. In questa ottica i due malcapitati non sono altro che pedine, o se si preferisce vittime, di un gioco più grande di loro determinato dal modo in cui la divinità agisce nel mondo. Un tema, questo, che sembra già ben presente a Giuseppe Flavio, che nelle Antichità giudaiche sottolinea che Giuseppe non si preoccupa di difendersi dalle false accuse della moglie di Putifar perché nutre cieca fiducia nei confronti dell’operato divino. Per un’altra fonte midrashica Dio provoca l’ira del faraone contro i suoi due ministri con la precisa intenzione di distogliere l’opinione pubblica, intenta a spettegolare dello scandalo per (presunta) violenza sessuale che ha coinvolto Giuseppe.

Per rabbi Chiyà bar Abbà i due servitori prigionieri sognano non solo il proprio sogno, ma anche ciascuno l’interpretazione del sogno dell’altro che verrà data da Giuseppe. Soprattutto, l’interpretazione dei due sogni da parte di Giuseppe dà la possibilità al midrash, specie (ma non solo) in epoca postclassica e tarda, di proporre letture allegoriche e tipologiche. Nella Torà il coppiere racconta: “Sognavo che mi stava dinanzi una vite. Quella vite aveva tre tralci e, appena germogliava, fioriva, e i grappoli d’uva erano già maturi”. Per il midrash la vite si riferisce a Israele; i tre tralci sono Mosè, Aronne e Miriam; la repentina maturazione dell’uva indica la prossima liberazione del popolo di Israele. Per il Midrash Hagadol, che riprende e varia Bereshit Rabbà, i tre tralci sono i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe il cui popolo, prigioniero in Egitto, verrà liberato dalle tre guide Mosè, Aronne e Miriam; la coppa in mano al faraone è il calice amaro che alla fine dovrà sorbire con le dieci piaghe e l’esodo. Rabbi Shemuel ben Nachman aggiunge che la ripetizione quattro volte nell’arco di pochi versetti della parola kos (“coppa”, “bicchiere”) è il motivo per cui vengono versati quattro bicchieri di vino durante il seder di Pesach. L’allegoria ritorna nella lettura che il midrash dà del parallelo sogno del panettiere, in cui vediamo tre ceste di pane bianco e in quella superiore ogni sorta di cibo che viene divorato da un uccello. Per i maestri le tre ceste sono i tre regni di Babilonia, Media e Grecia; il cesto superiore si riferisce al quarto e ultimo regno, quello di Roma, “che esige tributi da tutte le nazioni del mondo”. L’uccello è la provvidenza divina o se si preferisce la teologia della storia oppure nella versione del Midrash Hagadol il messia, che provoca la distruzione dei regni uno dopo l’altro.

Nella Torà Giuseppe interpreta i sogni correttamente, il panettiere viene condannato e il coppiere prima promette che si ricorderà di menzionare l’interprete dei sogni al cospetto del faraone ma poi una volta ripristinato nel suo servizio, “invece di ricordarsi di Giuseppe lo dimenticò”. Nei due anni che seguono, in cui Giuseppe rimane in prigione, per il midrash ogni volta in cui al coppiere viene in mente la promessa fatta interviene un angelo a confondergli le idee. Allora il coppiere fa dei nodi come promemoria, ma l’angelo accorre nuovamente e in un attimo li scioglie. Dio stesso gli si rivolge dicendo: “Tu lo dimentichi ma io non lo dimentico”. Secondo questa lettura il coppiere non ha colpa alcuna. Al contrario, si sforza di mantenere la promessa ma viene sviato ogni volta da Dio e dal suo inviato. L’immagine del coppiere è insomma molto positiva, ma ci sono interpretazioni differenti dentro e fuori l’universo midrashico. Filone di Alessandria, che vive come Giuseppe Flavio alcuni secoli prima della redazione finale delle più antiche raccolte di midrashim (che però utilizzano certamente anche materiali precedenti), in un libro intitolato De Josepho ripercorre la storia di Giuseppe rendendone il protagonista emblema dell’ottimo uomo politico. Il testo di Filone è fortemente influenzato dalla filosofia greca, ricco di letture allegoriche e pieno di commenti con cui l’autore cerca di spiegare ogni cosa, accompagnando il lettore verso quella che reputa la giusta interpretazione. In questo modo il De Josepho perde l’asciuttezza della Torà e guadagna in impatto emotivo. È ciò che vediamo anche a proposito della dimenticanza del coppiere, per la quale vengono addotti due motivi. Innanzitutto, scrive Filone, ogni ingrato dimentica i propri benefattori. In secondo luogo Dio vuole che la buona sorte di Giuseppe sia dovuta a Lui solo, e non a un uomo. Così bisogna attendere i due sogni del faraone.

Nel frattempo la speranza della liberazione, per chi ha fede, non viene meno. Il midrash elenca una serie di eventi inattesi, per esempio chi si sarebbe aspettato che Abramo e Sara avessero un figlio ormai molto anziani? Oppure che un bambino abbandonato in una cesta sul Nilo avrebbe guidato fuori dalla schiavitù il popolo di Israele? Allo stesso modo la liberazione di Giuseppe arriva nel tempo stabilito da Dio quando ormai i più avrebbero perso la speranza. Ma come al solito c’è un’altra interpretazione, davar acher. I due anni supplementari di carcere sarebbero stati aggiunti perché Giuseppe per uscirne si è appellato a un uomo come il coppiere (“ricordati di me”) invece di abbandonarsi alla volontà di Dio. Questa lettura viene spiegata prendendo come appoggio un versetto dei Salmi che dice: “Beato l’uomo che ripone nel Signore la sua speranza”. Chi fa altrimenti, spiega rabbi Yudan, segue orgoglio e vanagloria, che precipitano verso la menzogna. C’è però ancora un’altra interpretazione: è Giuseppe l’uomo beato dei Salmi perché non segue il coppiere in nome del benessere immediato, preferendo attendere il momento della liberazione fissato da Dio.

Il faraone non trova interpreti in grado di spiegare i suoi due sogni. Allora, e solo allora, il coppiere si ricorda di Giuseppe. Per il midrash il coppiere si decide a parlare quando vede il faraone tanto angustiato da essere prossimo alla morte. Il servitore confessa al sovrano di avere due colpe, come si deduce dal fatto che il testo biblico utilizzi la parola al plurale. La prima colpa è verso Giuseppe, di cui il coppiere ammette di essersi dimenticato; la seconda verso lo stesso faraone, poiché quando il coppiere lo ha visto preoccupato per i sogni non lo ha subito soccorso facendogli il nome dell’abile interprete. In aggiunta secondo i maestri il servitore si dimostra un opportunista: aspetta fino a quando non vede il suo re in pericolo di vita e soltanto in quel momento interviene nel timore che la morte di lui provochi un avvicendamento al trono che potrebbe mettere in discussione la propria prestigiosa carica. Come se questo non bastasse, un ulteriore elemento conduce verso un’immagine a tinte fosche del coppiere. Il servitore infatti parla al suo padrone di un “giovane ebreo servo” conosciuto in prigione. “Giovane” significa non in pieno possesso dell’intelligenza, cioè idiota; “ebreo” significa diverso da noi; “servo” indica la naturale incapacità a governare. Per questo rabbi Shemuel ben Nachman (ripreso alla lettera secoli più tardi dal grande commentatore medievale Rashi) esclama: “Maledetti i malvagi, che anche quando fanno il bene non lo fanno in modo completo”. È anche plausibile che il coppiere veda in Giuseppe un potenziale concorrente e perciò cerchi di metterlo in cattiva luce.

Il coppiere è una vittima di un piano metastorico che lo trascende? Lo strumento inconsapevole della volontà divina? O una persona dotata delle intenzioni migliori che solo l’angelo inviato da Dio arresta? Oppure un ingrato? O addirittura un opportunista che agisce esclusivamente in vista del proprio personale interesse? Tutto questo e una cosa ancora. Infatti, nonostante i ritardi e le incertezze, alla fine decide di non rimanere in silenzio. È una scelta difficile che indica un’assunzione di responsabilità, come sottolinea rav Haim Cipriani (Voce di silenzio sottile. Letture bibliche, Giuntina), tanto più se consideriamo che il coppiere esordisce presso il faraone ricordando le proprie colpe. Più facile e molto più comodo sarebbe stato rimanere in silenzio, evitando di evocare presso il volubile sovrano l’accusa che due anni prima lo aveva portato in carcere. Tuttavia il servitore non sceglie l’indifferenza, senza che sia richiesto si fa avanti e parla.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.