Un rocambolesco viaggio nella storia guidato dal dubbio e dall’ironia. Con l’obiettivo di ritrovare l’autenticità
Il mese di settembre regala nuove, graditissime pubblicazioni ai lettori italiani appassionati di letteratura israeliana. Alcune coinvolgono nomi già noti al grande pubblico – Ayelet Gundar Goshen e Zeruya Shalev, ad esempio – altre, invece, sono ancora da scoprire. Tra queste Neshamot (“Anime”) di Roy Chen, un romanzo travolgente, vertiginoso, che in Israele è stato il successo letterario del 2020 e in Italia uscirà venerdì 9 settembre presso la casa editrice Giuntina. Con estrema probabilità l’autore sarà sconosciuto ai più. Roy Chen è, infatti, principalmente un uomo di teatro, drammaturgo stabile del Teatro Gesher – nel cuore di Giaffa, un luogo simbolo dell’immigrazione russa del 1991 – benché la sua prima prova narrativa Susey dio, “Cavalli d’inchiostro”, risalga al 2005, cui ha fatto seguito la raccolta di racconti Tel shel Aviv, “Storie di Tel Aviv”, nel 2011. La biografia di Roy Chen ci trasmette l’immagine di un’identità complessa, di una personalità dai tratti tumultuosi e risoluti: nato a Tel Aviv nel 1982, la sua famiglia paterna arrivò in Terra d’Israele nel 1492 a seguito dell’espulsione dalla Spagna, il ramo materno, invece, giunse dal Marocco dopo la fondazione dello Stato. In gioventù l’autore ha abbandonato presto la scuola, imparando da autodidatta varie lingue, tra cui l’inglese, il francese, l’italiano e soprattutto il russo, di cui nel corso degli anni è diventato un raffinato traduttore. Senza dubbio in Anime ritroviamo parte di questa poliedricità, di questa sensazione di disordine bellissimo.
Tutto ha inizio dalla parola ebraica hayim, “vita”, la cui forma unicamente plurale sembra promettere la possibilità non di una, ma di numerose esistenze. Ad averle vissute – forse: il condizionale è d’obbligo – è Grisha, il protagonista della narrazione. Grisha è l’emblema dell’antieroe: trentanove anni, disoccupato, grassoccio, fumatore incallito, vive con la madre, un’immigrata russa, in un alloggio modesto di Giaffa. Ciò nonostante, Grisha possiede un dono straordinario, che altri mortali possono solo sognare di avere. Egli, infatti, ha affrontato numerose tappe di quello che in ebraico si chiama gilgul neshamot (in italiano la “trasmigrazione delle anime”), delle sue vite-anime passate ricorda ogni dettaglio ed è smanioso di raccontare. Il viaggio nel mondo delle anime di Grisha ci conduce attraverso dimensioni spazio-temporali altamente simboliche per la storia ebraica. Il punto d’origine è il XVII secolo a Chorbitza, un piccolo centro tra la Polonia e la Lituania, che evoca l’atmosfera sospesa tra realtà e immaginazione dei racconti yiddish. Da qui il testo scivola verso l’incanto di Venezia nel 1720, per poi trasferirsi sulle sponde del Mediterraneo, a Fes nel 1856, in un capitolo che è presentato con una struttura drammaturgica, se non melodrammatica, fino ad approdare in Germania, a Dachau nel 1942, un’esperienza che si risolve in poche righe, potenti e stranianti. È vero ciò che hanno scritto alcuni critici in Israele che ogni sezione del romanzo, ogni anima, denota la capacità del narratore di confrontarsi con vari generi letterari. Domina, in ogni caso, l’influenza del teatro, nelle sue interpretazioni più differenti – il breve capitolo dedicato alla Shoah sembra, ad esempio, esprimersi nelle forme scarne del teatro dell’assurdo.
Con un impianto strutturale tanto sofisticato Roy Chen, come qualunque altro scrittore, avrebbe potuto facilmente correre il rischio di cadere in uno sterile esercizio di stile. Ciò che garantisce, invece, la freschezza della narrazione sono due elementi fondamentali, spesso intrecciati insieme in un connubio inestricabile: l’ironia – amara, nerissima, a tratti funesta – e il dubbio. Ben presto, infatti, sulle parole di Grisha cala l’ombra dell’incertezza: le sue storie, così convincenti ed elaborate, corrispondono al vero o sono piuttosto il frutto di una (troppo) fervida fantasia? È la madre stessa di Grisha a insinuare questa possibilità, inserendosi a tradimento nella narrazione nonostante l’ebraico stentato, con l’obiettivo di piegare le altre “anime” – i lettori – alla propria verità. Grisha e la madre, che sempre di più nel corso del romanzo ci appaiono come due vite/anime in cerca di autore gettate su un palcoscenico desolato, instaurano una dura lotta per accattivarsi il favore del pubblico e in questo modo svelano i retroscena dolorosi del racconto, ampliando inoltre le basi interpretative di una narrazione che può essere letta su vari livelli. Non è, infatti, solo l’anima più pura del protagonista a essere in discussione, un’anima smarrita nel reticolo dei vicoli chiassosi di Giaffa, tra il fumo dei narghilè e le vecchie botteghe. È piuttosto la neshamah ebraica a dover ritrovare se stessa a partire dal rinnovato centro della propria esistenza: Israele, con le proprie mille anime. Il personaggio di Grisha assume così un significato simbolico potente, che nella sua disperata ricerca di se stesso rasenta talvolta la schizofrenia identitaria. La madre, dal canto suo, rettifica con severità, spiega senza risparmiare i particolari più oscuri, subisce, ma al tempo stesso accoglie, abbraccia, incoraggia. La madre è il retaggio linguistico, affettivo, in lei si compie il destino del protagonista tra passato e futuro, si affina la sua identità. A lei appartiene l’ultima parola: la speranza in un ritorno all’autenticità.
Roy Chen, Anime, traduzione di Shulim Vogelmann e Bianca Ambrosio, pagine 336, 19 euro
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).
Molto interessante e invogliante. Grazie