Cultura
L’ebraismo dell’Europa orientale e i regimi comunisti. Spunti di riflessione #6

Nella Russia diStalin l’antisemitismo continuava ad essere severamente condannato dalle autorità. Non come delitto contro le vittime effettive, ma come lesione della potestà politica, istituzionale e culturale del socialismo di Stato

Le mutevoli politiche di Stalin nei confronti degli ebrei sovietici tra il 1929 e il 1953 non possono essere slegate dal complesso delle scelte praticate dal suo gruppo dirigente, così come dalla sua stessa composizione, laddove una nuova generazione di dirigenti si affiancò e poi, di fatto, annientò quella rivoluzionaria bolscevica della prima ora. In questo caso, più e meglio dei loro predecessori, Stalin e i suoi uomini si adoperarono per dare una nuova fisionomia alla società russa, superata la fase aurorale, conclusasi a metà degli anni Venti.

In buona sostanza, almeno fino alla Seconda guerra mondiale, gli obiettivi prioritari, tra di loro interconnessi (quindi non facilmente disgiungibili, non solo da un punto di vista politico ma anche sul piano dell’analisi a posteriori), ruotavano intorno al consolidamento di una fascia di consenso che puntellasse il regime e la sua crescente dimensione personalistica. Quindi, trasformazione della composizione economica e produttiva dell’Unione Sovietica; creazione di un apparato industriale competitivo, nell’ottica dell’autosufficienza in tutta una serie di settori considerati strategici, tanto più nella brutale competizione con l’Occidente; diffusione numerica e consolidamento quantitativo di un nuovo proletariato industriale, destinato ad essere l’ossatura del consenso allo stalinismo; ridimensionamento del ruolo delle campagne non solo nella creazione della ricchezza globale del Paese ma anche nell’influenza rispetto agli umori (e ai malumori) predominanti; ridefinizione e riconfigurazione della ramificazione dei poteri federali, statali, locali, delle amministrazioni pubbliche e di quelle di partito.

Il complesso delle politiche delle nazionalità, tra le quali quella irrisolta  – per il giudizio sulla natura del soggetto, gli ebrei medesimi, considerati come gruppo sociale ma non come vera nazione a sé stante – verso l’ebraismo sovietico, deve essere calato dentro una tale cornice. Dove, infine, a partire dai primi anni Trenta, entrano in gioco anche le feroci lotte intestine al Partito comunista, le purghe, le violenze di Stato, la distruzione del residuo (e già esangue) pluralismo non solo politico ma anche socioculturale. L’indirizzo della cosiddetta Korenizacija, il «mettere le radici», avviato già da Lenin e durato fino ai tempi Stalin, predicava l’indigenizzazione delle popolazioni non russe, ossia la costruzione di specifiche rappresentanze locali, inserendo le minoranze dentro gli apparati burocratici, partitici e della nomenclatura, affinché l’intelaiatura altrimenti fragile dell’Urss ne risultasse rafforzata. Per tutti gli anni Venti produsse spinte di de-russificazione. Basti pensare che con la Costituzione federale del 1936 (dove si incentivava il disegno di agevolare l’adesione “spontanea e volontaria” delle nazioni socialiste in un’unione armoniosa conosciuta, per l’appunto, come Unione delle repubbliche socialiste sovietiche), si riconosceva l’esistenza di undici repubbliche «indipendenti», di ventidue repubbliche «autonome», di nove regioni autonome e di altrettanti territori «nazionali». La distinzione, oltre a rivelarsi nei fatti capziosa, serviva tuttavia a favorire l’omologazioni dei gruppi dirigenti locali ad un’amministrazione federale e di partito sempre più centralizzata e, nei fatti, autocratica. Sia la nozione di indipendenza che di autonomia erano – quindi – in funzione di un processo di accentuata gerarchizzazione e verticalizzazione del concreto comando politico. Nel 1938, tale processo sarebbe giunto a termine, tuttavia non prima che la lunga stagione delle grandi purghe (avviate lentamente nel 1931 ma giunte al loro culmine tra il 1936 e i due anni successivi), destrutturasse completamente gli equilibri interni alla vecchia nomenclatura bolscevica.

La presenza ebraica dentro le strutture dello Stato sovietico si inscrive quindi anche all’interno di una tale logica, che valse fino alla seconda metà degli anni Trenta. Nel 1930, ad esempio, Stalin, oramai al vertice politico, poteva proclamare, nel corso del XVI congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (dal 1952 conosciuto infine come Pcus) che l’edificazione del socialismo si accompagnava alla fioritura delle culture nazionali. Non di meno, il passaggio successivo sarebbe stata la loro fusione in una sorta di abbraccio “internazionalista”, nel nome dell’unica appartenenza degna di essere considerata come imperitura, ossia quella classista. Peraltro, a partire dal varo del primo piano quinquennale sovietico, nel 1928, alla mobilitazione delle risorse si accompagnarono da subito una radicalizzazione politica ed una intransigenza ideologica che legittimarono l’acuirsi delle violenze proprio contro quei gruppi nazionali che venivano indicati come d’intralcio rispetto al raggiungimento degli obiettivi collettivisti. La vicenda dell’Holodomor ucraino si inscrive in questa traiettoria.

L’ebraismo, come tale, non fu direttamente colpito. L’antisemitismo continuava ad essere severamente condannato dalle autorità. Non come delitto contro le vittime effettive, singole persone o gruppi che fossero, ma come lesione della potestà politica, istituzionale e culturale del socialismo di Stato. In altre parole, a preoccupare non era la violenza contro le individualità ma la manifestazione di una posizione “arretrata”, quella degli antisemiti medesimi, che colpendo gli ebrei rivelavano di non avere capito quale fosse il nuovo orizzonte della lotta collettiva, quello di ordine classista, rappresentato dall’azione della stessa Unione Sovietica. Speculare a questa posizione, si accompagnavano le campagne contro il «sionismo», il «cosmopolitismo» e il ricorso all’ebraico come lingua vernacolare, indicati tutti come espressione di una vocazione borghese, quindi completamente estranei, se non pericolosamente avversi, al potere bolscevico.

L’yiddish, per un certo periodo di tempo inteso invece come lingua popolare (e quindi “proletaria”) fu agevolato nella sua diffusione. In Ucraina e nella Bielorussia, tra il 1924 e il 1931, le scuole dove si insegnava in quell’idioma di fatto triplicarono, raggiungendo il numero di 1.100 con almeno 130mila studenti. Così come larga diffusione ebbe il teatro yiddish. Il più noto di essi era il Teatro ebraico di Stato di Mosca (conosciuto con l’acronimo di Goset), istituito nel 1919 e chiuso d’autorità nel 1948. Sotto la direzione artistica di Alexander Granowsky (riparato nel 1928 in Occidente) e poi di Solomon Mikhoels (uomo di grande carisma, assassinato nel 1948), divenne uno dei capisaldi non solo della produzione artistica in yiddish ma, più in generale, della cultura prima d’avanguardia e poi creativa dell’Urss. A suggello di un sistema di rapporti non certo idilliaco ma nel quale non pochi ebrei erano personaggi attivamente coinvolti nelle attività pubbliche, al Primo congresso degli scrittori sovietici, nel 1934, Isaac Fefer (conosciuto anche come Itzik Feffer), responsabile della delegazione di lingua yiddish – il secondo gruppo nazionale, in ordine di grandezza, subito dopo i russi, contando ben 113 delegati – proclamò risolta la «questione ebraica». Nel mentre, peraltro, la Korenizacija, pur non essendo formalmente abbandonata, era in via di deperimento.

Secondo un modo di procedere al medesimo tempo erratico ed opportunista, in accomodamento alle circostanze date, prassi di cui lo stesso Lenin, dinanzi allo sfacelo generato dalla guerra civile tra «bianchi» e «rossi» tra il 1917 e il 1922 era già stato un propugnatore, il medesimo Stalin, avendo ad obiettivo il rafforzamento del potere moscovita, e con esso la sua personale dittatura, si era impegnato ad invertire gli indirizzi assunti precedentemente, spingendo al massimo sul pedale dell’accelerazione di un cambiamento radicale nella politica delle nazionalità. Negli anni della vasta repressione delle élite non omologabili ai disegni del Cremlino, i gruppi dirigenti nazionali furono quindi sempre più spesso indicati come agenti della causa antisovietica. Alla de-russificazione seguì quindi un percorso di segno inverso, anche se raramente si tentò di ricorrere all’assimilazione forzata delle minoranze nazionali, ben sapendo che le opposizioni che una tale opzione avrebbe incontrato, sarebbero state tali da vanificarne gli obiettivi. L’impietoso fallimento del progetto relativo al Birobidjan, nel caso degli ebrei, testimonia dell’impraticabilità della coazione sistematica nei confronti di larghe fette della popolazione. Semmai si trattava di privarne delle teste pensanti, ossia di coloro che avrebbero potuto fomentare rifiuti collettivi.

La grande cautela del gruppo dirigente moscovita, dal 1934 impegnato in una sistematica “ripulitura” (a limite del rastrellamento politico e poi penale) delle file del partito, dell’esercito e delle amministrazioni, fino alle deportazioni nei gulag e all’assassinio di un grande numero di comunisti (e non), era quella di non coalizzare eventuali oppositori, semmai dividendoli tra di loro prima di poterli colpire uno ad uno. La stampa di partito ed i maggiori organi di informazione dalla seconda metà degli anni Trenta iniziarono pertanto ad esaltare il valore unificante della lingua e della cultura russa (il cui insegnamento divenne obbligatorio nel 1938), intese non più come espressioni di una nazionalità bensì come il suggello di un’identità collettiva che si fondeva con la militanza patriottica. Le singole identità nazionali, invece, furono sempre più spesso identificate come un elemento residuale, pericolosamente estranee quand’esse avrebbero potuto alimentare le trame della «borghesia», ossia di quanti erano identificati, di volta in volta, come «nemici del popolo». In tale ottica, il nazionalismo russo-centrico (diverso dalla cultura russa come tale), fu riformulato come un fattore propulsivo, all’interno di una logica centralista, di taglio neoimperiale, dove i russi erano i fratelli maggiori della grande «famiglia socialista delle nazioni». Non si trattava di una reviviscenza culturale ma della sovietizzazione delle diverse appartenenze, usando non solo i codici dell’appartenenza politica ma sovrapponendo ad essi quelli del centro moscovita. Un segno di tale indirizzo fu l’introduzione sistematica dell’alfabeto cirillico per molti gruppi socioculturali ed etnici, che usavano idiomi diversi. 

L’insegnamento in lingua yiddish fu quindi prima attenuato e poi cancellato nella quasi totalità dei casi, nel mentre, tuttavia già nel 1932 il sistema dei passaporti interni, che era stato introdotto per regolare il transito della popolazione dentro i confini dell’Urss (riprendendo politiche dell’età zarista), al paragrafo cinque richiedeva che i figli di genitori ebrei fossero senz’altro registrati come tali, ancorché una tale attribuzione di identità non costituisse di per sé la formalizzazione di una nazionalità certa. Semmai, nel babelico sistema giuridico della cittadinanza sovietica, la trasmissione genitoriale dell’appartenenza ebraica (non più religione, non ancora nazione, per nulla cultura indipendente, ancor meno comunità sociale), si trasformava in un questione legale, sulla quale eventualmente intervenire politicamente quando se ne fossero create le necessità. Distinguendo le origini, si poteva essere maggiormente puntuali rispetto al trattamento degli individui qualora insorgessero tensioni o problemi legati alla sicurezza. L’unica deroga era offerta nel caso dei figli di matrimoni misti i quali, raggiunta l’età dei sedici anni, potevano optare per una delle due nazionalità genitoriali. Una volta attribuita la quale, tuttavia, essa diveniva definitiva e non modificabile giuridicamente (semmai, poteva intervenire la discrezionalità politica, quando si avessero avute le giuste entrature nelle amministrazioni; non era tuttavia nella possibilità della stragrande maggioranza delle persone). I passaporti, peraltro, in origine dovevano rispondere soprattutto al problema della penuria di abitazioni in ambito urbano e, con esso, all’eccessiva mobilità delle famiglie. La definizione di «ebreo», nel qual caso, non rispondeva ad un intendimento antisemitico. Ma si sarebbe potuta trasformare in un’arma nell’eventualità in cui fossero intervenute le necessità del momento.

Le deportazioni interne all’Urss, definite come «confinamenti speciali», furono comunque avviate già nel 1937, quando la componente coreana fu trasferita dall’Estremo Oriente nella repubblica del Kazhakistan, per poi proseguire, sotto l’incalzare della guerra, con gli estoni e i finlandesi di Leningrado, i tedeschi del Volga, continuando con i ceceni, i tatari, i gruppi di minoranza caucasici. La dispersione territoriale all’epoca rispondeva a più obiettivi, tra i quali prevalevano la volontà di frantumare potenziali intenzioni oppositive; colonizzare forzatamente territori da bonificare e mettere a frutto; punire la potenziale collaborazione con le autorità di occupazione quando i tedeschi entrarono nei territori sovietici. Rimane il fatto che le grandi purghe della seconda metà degli anni Trenta, pur non manifestando un tratto esplicitamente antiebraico, tuttavia raccoglievano alcune suggestioni in tale senso, soprattutto quando tra i capi d’accusa primeggiava quello di «trotzkismo», che tanto più in questo caso era indice non solo di tradimento dello Stato socialista ma di intendimenti cosmopoliti, ossia di collusione con i nemici di classe presenti in Occidente. Poiché le purghe avrebbero dovuto rafforzare la componente russa nella direzione degli affari pubblici, l’essere ebrei non costituiva un elemento di favore.

Peraltro, la classe dirigente dell’Unione Sovietica doveva interrogarsi in quegli anni sulla virulenta ripresa dell’antisemitismo un po’ in tutta l’Europa. I sovietici, così come i partiti comunisti all’estero, non avevano una precisa posizione politico-ideologica al riguardo. Una parte di essi coglieva la potenziale pericolosità dell’uso, da parte nazista, fascista e nazionalista, di un tale strumento. Ne denunciava gli aspetti disgregativi non solo nei confronti della minoranza vittimizzata ma anche rispetto alla coesione sociale dei singoli paesi che ne erano investiti. La stessa Internazionale comunista, in ipotesi l’organismo che avrebbe dovuto più e meglio di altri coordinare gli sforzi di tutti i comunisti nel mondo, non si era dotata di una dottrina al riguardo. In altre parole, faticava a cogliere la potenza propulsiva che l’antisemitismo offriva non solo ad un generico “razzismo” ma, soprattutto, alla riorganizzazione in chiave imperialista dell’Europa.

Due tendenze si confrontavano al riguardo. La prima di esse, ancora legata ad aspetti della lezione leninista, che attribuiva al pregiudizio antiebraico un significato regressivo, avrebbe voluto recuperare l’ispirazione originaria, per lanciare una durissima lotta al fascismo continentale anche attraverso la denuncia dell’inedita pericolosità dell’antisemitismo. Non era un esercizio di filosemitismo ma la comprensione che la definizione di prammatica del fascismo medesimo, adottata dalla Terza Internazionale, per cui esso è «una dittatura apertamente terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario», da sé non bastava. L’antisemitismo, da questo punto di vista, prefigurava un orizzonte nuovo, dove l’obiettivo sarebbe stato il riassetto sociale e demografico di tutta l’Europa. La seconda tendenza, invece, non cogliendo la tragica novità rappresentata dall’hitlerismo e dai suo velenosi cascami, continuava a negare la specificità della presenza ebraica, non solo in Unione Sovietica, e con essa, quindi, anche la rigenerazione dei motivi antisemitici. Contro i quali riproponeva pedissequamente l’assimilazione come soluzione. Nei riguardi della minaccia nazifascista, riteneva che la politica di contenimento sarebbe bastata quel tanto da rendere l’Urss capace, eventualmente, di rispondere con la sua forza ad eventuali aggressioni.

Con l’età delle grandi purghe, a fronte di una politica oramai di dichiarata “desemitizzazione” dell’ebraismo, che avrebbe dovuto farsi assorbire nella “grande patria sovietica”, quella parte dell’intellettualità ebraica che aveva continuato a coltivare la propria specificità culturale, sempre più spesso venne quindi assimilata a quei soggetti che erano denunciati come «nazionalisti» e «reazionari». Anche le maniacali persecuzioni contro gli esponenti del movimento rivoluzionario russo che non si erano del tutto adagiati passivamente alla linea stalinista, divennero ben presto una delle ragione del tramonto dell’ebraismo sovietico di quegli anni, visto l’elevata adesione e partecipazione di ebrei all’azione politica prima dei menscevichi, poi di quei gruppi che, pur informalmente, avevano cercato di alimentare un dibattito pluralistico all’interno del partito comunista. Stalin, per parte sua, a lungo cercò di evitare lo scontro frontale con Hitler. Benché dal 1935 iniziasse a cogliere la crescente pericolosità geopolitica della Germania nazificata, ritenne che la strada da percorrere fosse quella di minimizzare il significato dell’antisemitismo apocalittico del Terzo Reich. Era bene a conoscenza che nella dottrina nazista la formulazione della “teoria” del «giudeobolscevismo» (il comunismo come creazione dell’«ebraismo mondiale» per giungere al dominio del mondo) fosse uno dei più importanti strumenti per arrivare a scardinare gli equilibri continentali. Ma non intendeva riconoscere la drastica novità del razzismo nazifascista, semmai continuando a battere i chiodi della lotta di classe, del rifiuto dell’«imperialismo», dell’unità proletaria (l’unione dei lavoratori, di contro alle derive dei regimi politici europei e allo sfiancamento delle democrazie liberali) e così via. Prescrisse a sé e per l’Unione Sovietica un indirizzo di massima duttilità, che portò alla firma del patto Molotov-Ribbentrop nell’agosto del 1939. Si stava aprendo un abisso, nel quale molti sarebbero precipitati velocemente. Il tornante bellico, infatti, avrebbe squarciato l’Occidente sovietico ma avrebbe anche e soprattutto disintegrato una buona parte dell’ebraismo dell’Europa orientale.

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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