Il monumentale lavoro di Mayer Modena e Rosenzweig in un preziosissimo dizionario
Vi sono libri che gli autori scrivono in un mese e libri che richiedono anni, anzi decenni di lavoro: una sistematica e meticolosa raccolta di dati letterari ed empirici, catalogazione e sinossi, verifica continua delle fonti scritte e orali, precise corrispondenze e aggiornamenti, assoluto rigore storico-filologico ma anche consapevolezza che la linguistica non è una ‘scienza esatta’ ed esige flessibilità diacronica e sincronica… insomma, stiamo parando un un’opera complessa, perché complesso è l’oggetto al centro di tale ricerca. Il suo titolo non è dei più facili: Vena hebraica nel giudeo-italiano. Il sottotitolo è più esplicito: Dizionario dell’elemento ebraico negli idiomi degli Ebrei d’Italia. Il volume, coraggiosamente pubblicato dalle Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto [LED] di Milano (420 dense pagine, 59 euro), è il frutto di una vita di studi, ricerche e insegnamento della professoressa Maria Luisa Mayer Modena, ben nota nella comunità ebraica milanese, docente (ora a riposo) di Ebraico e Lingue semitiche comparate all’Università degli Studi di Milano, la Statale, ‘maestra’ di molte generazioni di studiosi e cultori della lingua ebraica nonché instancabile animatrice dell’Associazione Amici dell’Università ebraica di Gerusalemme e dei rapporti tra accademie, l’italiana e l’israeliana. Quest’opera, a lungo attesa, è il coronamento di tale intensa carriera, anzi di una vocazione scientifica di cui l’ebraismo italiano dovrebbe andare molto fiero, dimenticando per un momento beghe interne e scontri politici e onorando in vita i suoi esponenti più insigni, appunto come la prof.ssa Mayer Modena.
In materia di meriti, occorre dire che questo volume non sarebbe apparso ora senza la collaborazione altrettanto scientificamente accurata e defatigante di Claudia Rosenzweig, docente di Letteratura yiddish antica all’Università di Bar-Ilan, a Ramat-Gan in Israele, che nei suoi anni milanesi fu allieva di Mayer Modena. Questo Dizionario può ben dirsi, comunque, il frutto di una cooperazione scientifica comunitaria che, in quasi sessant’anni, ha coinvolto testimoni e protagonisti della cultura ebraica italiana che oggi non ci sono più e che vengono tutti e tutte debitamente ricordati/e nella prefazione. Insomma, un’opera corale seria, importante e destinata a restare nella bibliografie di ebraistica molto a lungo.
Ciò premesso, il Dizionario è strutturato come ogni buon dizionario, anzi come ogni buon lessico: raccoglie e articola i lessemi, i termini ebraici presenti nelle diverse parlate idiomatiche degli ebrei sparsi nella penisola del Belpaese. I problemi metodologici di una tale impresa sono evidenti. Diacronicamente gli ebrei vivono nella nostra penisola dal II secolo avanti l’era comune/corrente, dapprima concentrati a Roma e nelle principali città dell’impero. Che lingue parlavano? Il greco e il latino? Certamente, e certamente mantennero espressioni e termini ebraici e/o aramaici della loro cultura religiosa. Poi ci fu il lento declino della koinè tardo-antica e l’altrettanto lento emergere di un giudeo-italiano che ebbe, come suggerisce Mayer Modena, “presumibilmente gli stessi tempi e le stesse modalità dell’evoluzione dal latino all’italiano”. Un giudeo-italiano vero e proprio si attesta solo a partire dal XIII-XIV secolo, indebitato con le prime traduzioni della Bibbia e con il mai cessato uso dei testi liturgici.
Nel frattempo il baricentro della vita ebraica si era stabilizzato nel meridione d’Italia, con comunità sparse da Palermo e Reggio a Bari e Otranto: come non immaginare quali e quante tipologie di dialetti giudaici fossero in uso quotidiano. Poi, dopo il gerush ovvero la cacciata dai domini spagnoli, agli inizi del XVI secolo, la vita ebraica si spostò sempre più verso il nord, nel settentrione d’Italia: nuove migrazioni e altri influssi, nuove parlate locali con inedite contaminazioni… Quanto permase dell’elemento ebraico, specificamente preso dall’antica lingua sacra?
Ancora, l’incontro del mondo sefardita con il mondo ashkenazita, nel contesto della componente italiana, portò certamente a infiniti scambi e adattamenti linguistici. Quando si dice ‘idioma giudeo-italiano’ si dice un astratto per una varietà quasi inimmaginabile di parlate ebraiche, che anche considerate in modo sincronico, rendono impervio uno sguardo indagatore unitario, sintetico e onnicomprensivo. Cosa ha in comune il bagitto di Livorno con la parlata giudeo-romanesca o con quella degli ebrei veneto-veneziani o con quella giudeo-piemontese (di cui parlò Primo Levi in “Argon”, nel suo Sistema periodico), per non citare che le maggiori di queste parlate? Domanda retorica, ma che questo Dizionario non lascia più nel vago e ci aiuta, per chi sa come si manovra un tale strumento linguistico, a orientarci. A Roma si continua a dire ‘fare minian’ per parlare di un bar mitzwà, e si dice talled e non tallit, come si sente ancora oggi sciabbad o sciabbadde per shabbat, e trefà per taref, ‘andare a ghinnam’ per andare al diavolo, ‘essere in ghenizà’ per andar sprecato, e via spigolando.
Ci si divertirà, anche, a spulciare quest’opera-monumento che dà credito a tutte le fonti, anche orali, in voce per voce. Come accennato, essa nasce nella scia di un’immesa ricerca avviata all’Università ebraica di Gerusalemme verso la fine degli anni Cinquanta, da Shlomo Morag z”l, sulle tradizioni delle diverse comunità ebraiche mediterranee e orientali, e proseguita dal linguista Aharon Maman, che negli ultimi anni ha, a sua volta, raccolto l’eredità di Morag pubblicando un Dizionario sinottico della componente ebraica nelle lingue parlate dagli ebrei, in tempi e luoghi diversi, ovviamente scritto in ebraico (prima edizione 2013; seconda edizione rivista 2019). Molto del materiale accumulato e schedato nelle sue ricerche da Mayer Modena è confluito in tale sinossi linguistica, così che il vissuto ebraico-italiano, attraverso questa documentazione, è potenzialmente conoscibile a livello mondiale.
In Italia è stato importante il giudizio e il lavoro di Umberto Cassuto, che per primo si rese conto di come l’abbandono delle parlate dialettali degli ebrei – a favore di un italiano standard in omaggio all’emancipazione sabauda tesa all’assimilazione culturale (almeno fino al ’38!) – significasse anche una parziale perdita di identità e di specificità, appunto la specificità ebraica, quella ‘cosa’ che oggi in molti cercano, non di rado forzatamente e con innesti alieni, di rivitalizzare come priorità affinché il ‘giudaismo italiano’ non scompaia. A prescindere, questo Dizionario – che potremmo anche chiamare il Mayer-Rosenweig (sul calco del Devoto-Oli, da poco riedito con 500 neologismi) – è ora uno strumento formidabile per la memoria della lunga storia degli ebrei in Italia, ma forse anche per gli stimoli che può offrire a essere ebraicamente più creativi, affinché questo immenso lavoro non sia solo ‘a imperitura memoria’.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma
Che lavoro! Fatico a immaginare come si faccia a trovare elementi di antichi dialetti.
Sarebbe bello leggere qualche altro esempio.