Cultura
Libertà religiosa, i dati del rapporto del Pew Research Center

Gli stati garantiscono all’individuo la possibilità di professare la propria fede religiosa? Una geografia dell’intolleranza

Smartphone per tutti, informazioni infinite, connessione istantanea con ogni angolo della Terra. Ma quanto siamo liberi davvero, in questo primo scorcio di Ventunesimo secolo? Domanda con la D maiuscola, di risposta alquanto problematica. Alcuni dati, e fatti, possono però aiutare a dare una valutazione d’insieme. Come quelli raccolti e messi a sistema dal Pew Research Center nell’ultimo rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, pubblicato poche settimane fa.
La risposta, secondo i ricercatori americani, è tutt’altro che incoraggiante: in tutto il mondo, nell’ultima decade, le limitazioni e aggressioni di varia natura alla libera espressione della fede sono aumentate. Con punte particolarmente inquietanti in Paesi con una familiarità evidentemente problematica con la democrazia, come Cina, Russia o Arabia Saudita, ma in modo preoccupante un po’ a tutte le latitudini.
Già, perché se tra il 2007 e il 2017 sono saliti nel complesso da 40 a 52 i Paesi con elevate costrizioni pubbliche e da 39 a 56 quelli in cui la vita religiosa è a rischio di pesanti ostilità sociali, il maggior “degrado” della situazione sotto entrambi i punti di vista si osserva – sorpresa – proprio in Europa. Possibile? Che cosa c’è sotto? Il rapporto del Pew Center, basato soprattutto sulle rilevazioni annuali del Dipartimento di Stato e della Commissione USA per la Libertà Religiosa, riunisce e dà conto di molti e diversi fenomeni, certamente non tutti assimilabili. Non è detto, insomma, che qualsiasi forma di limitazione dell’espressione di una fede sia necessariamente da condannare. Ma alcuni segnali sono certamente allarmanti e danno l’idea di una tendenza storica decisamente regressiva.

Restrizioni costituzionali
La prima categoria di “offese” alla vita religiosa riguarda quelle di cui è responsabile direttamente lo Stato, o le sue propaggini locali. Quelle più classiche, anche storicamente, hanno a che fare con restrizioni “costituzionali” (formalmente o de facto) alla scelta e all’esercizio della fede preferita: l’inammissibilità di alcuni culti, e/o il favoritismo statale per uno determinato di essi. Qui, come in tutte le questioni di libertà religiosa, a svettare in negativo sono soprattutto i Paesi dell’area del Nord Africa e Medio Oriente. Tutti i Paesi di quest’ultimo in particolare prevedono una religione favorita o ufficiale, con le ovvie conseguenze dal punto di vista di finanziamenti e diritti correlati. In 19 casi, la religione in oggetto è l’Islam; in uno, l’ebraismo. Ma chi pensa che la questione non riguardi anche l’Europa sbaglia: simili prerogative riservate vigono in Grecia – dove la Chiesa Ortodossa è riconosciuta come “religione prevalente” – e in Islanda, dove solo alla Chiesa Evangelica Luterana sono garantiti sostegno finanziario ed altri benefici. E la stessa patria della democrazia liberale, pure ultimamente in lieve subbuglio, il Regno Unito, prevede ancora un legame Stato-Chiesa “di vertice”: il monarca è anche il governatore supremo della Chiesa Anglicana, di cui deve essere membro.
La situazione si complica quando all’esclusione dai benefici di un inquadramento legale si accompagnano vere e proprie azioni statali di aggressione o intimidazione contro gruppi religiosi minoritari. Anche in questo caso la peggior regione al mondo è certamente quella del Medio Oriente e Nord Africa, ma in vista degli equilibri mondiali emergenti non sarà incoraggiante notare che la nuova super-potenza – la Cina – ha pessimi standard sotto questo punto di vista: le informazioni che filtrano sul trattamento della minoranza uigura (musulmana) riferiscono di una persecuzione impietosa di centinaia di migliaia di persone, con annessa rete di campi di rieducazione.

La strada dell’Europa
Per restringere la sfera delle libertà, tuttavia, non è necessario impedire con la legge o con la forza l’esercizio di una religione tout court. Una strada più “moderna” è quella di vietare alcune specifiche attività considerate, a torto o a ragione, problematiche. È qui che l’Europa si distingue sempre più per attivismo, nell’evidente tentativo di “domare” le insidie della convivenza multiculturale. Con strumenti ed esiti che ciascuno potrà valutare. Esemplare è l’aumento dei Paesi che hanno introdotto restrizioni all’abbigliamento di tipo religioso – il velo islamico, ma perché no anche la kippà – in determinati luoghi pubblici o, più modestamente, nelle fotografie per i documenti di riconoscimento: da 5 a 20 nazioni in un decennio. Lo stesso arco temporale in cui è finita sotto attacco in più di un Paese – dalla Germania alla Slovenia – la pratica della circoncisione rituale, o sono state ristrette le libertà di preghiera e proselitismo a gruppi come Mormoni e Testimoni di Geova in Spagna o Scientology nel Regno Unito.
A dare l’idea di un clima preoccupante nel Vecchio Continente è però ancor più l’aumento dei casi riferibili alla seconda macro-categoria: le ostilità sociali d’impronta religiosa. Certo l’Europa non è in preda alle tensioni inter-religiose “collettive” che l’hanno dilaniata per secoli, e che sembrano anzi declinare, fortunatamente, un po’ in tutto il mondo. Ma se si considerano i registri di aggressioni contro l’altrui identità religiosa, la situazione risulta in grave deterioramento. Attacchi individuali deliberati, come quelli antisemiti e islamofobi, si sono verificati in almeno 25 Paesi d’Europa, più del quadruplo rispetto al 2007. Ma in anni recenti si sono verificati anche episodi più subdoli: come le migliaia di conversioni al cristianesimo che, secondo fonti accreditate dal Dipartimento di Stato, alcuni gruppi religiosi avrebbero “promosso” nei confronti di neo-rifugiati in Germania sfruttando la loro debolezza e bisogno di protezione. Un fenomeno sommerso che fa schizzare il Paese addirittura al primo posto in questa triste classifica mondiale di ostilità sociale contro altre religioni (al quinto c’è Israele).
In questa macro-categoria, per completare il panorama, rientrano poi naturalmente anche gli atti di violenza di matrice religiosa di gruppi organizzata. Leggi, prima di tutto, le azioni terroristiche: arrivate a insanguinare nell’ultimo decennio, come tristemente noto, il suolo di diversi Paesi europei – oltre che a uccidere e destabilizzare l’arco mediorientale e nordafricano. Ma accanto al terrorismo islamista, come ricorda il rapporto, non si può dimenticare l’ascesa allarmante di gruppi “autoctoni” sempre più assertivi nell’intimidire le minoranze religiose. Eclatante, fra i tanti, l’esempio del Movimento Nordico di Resistenza, un gruppo scandinavo neo-nazista impegnato nel propagandare le proprie tesi anti-islamiche e anti-ebraiche non solo a parole: nel settembre 2017, 500 suoi attivisti hanno sconfinato dalla natia Finlandia sino a Göteborg in Svezia per una marcia intimidatoria nel giorno di Kippur.
Tensioni tra gruppi etnici, intolleranza, indumenti e pratiche controverse: la gestione della diversità religiosa in Europa torna a diventare una patata bollente per i governi. E le loro soluzioni non sempre convincono, e a tratti contribuiscono perfino a peggiorare le cose.
L’unica consolazione? L’Italia, una volta tanto, non sfigura, e nonostante i rischi e le tensioni offre un quadro ben meno preoccupante dei principali partner europei. Ma che fatica difendere la libertà dai suoi tanti odiatori.

Simone Disegni
Collaboratore

Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.


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