Joi in
Marjorie Agosín: scrittura ed esilio, dialoghi veneziani

L’autrice cileno-americana, ultima “artista in residenza” ospite dell’associazione Beit Venezia, si racconta a JOIMag

Venerdì 17 maggio: contro il nostro incontro remano lo sciopero dei treni, il mio perdermi almeno tre volte tra la stazione e il luogo dell’appuntamento, l’agenda fitta di Marjorie, insomma il venerdì 17 così come ha da essere, ma alla fine ce la facciamo. Marjorie Agosín, cresciuta in Cile e oggi cittadina degli Stati Uniti, è l’ultima artista ospite dell’associazione culturale Beit Venezia in residenza “Napoleone Jesurum”. Autrice di racconti, poetessa, saggista, docente di studi latino-americani e di letteratura spagnola al Wellesley College (Massachussets), la sua opera parla di radici, diritti umani, impegno civile, soprattutto dalla parte delle donne. Alla fine del soggiorno veneziano, Marjorie scriverà un testo ispirato alla sua esperienza nel Ghetto, che quest’anno compie 503 anni.

Ci presentiamo, ordiniamo il pranzo, Marjorie mi racconta di qualche qui pro quo organizzativo che le è capitato con alcuni appuntamenti dei giorni scorsi – caso tipico o isolato? Parte un confronto sulla cultura del tempo e della pianificazione in Italia, Cile, Stati Uniti – io rispondo alle sue molte curiosità su JOIMag, su Milano, sul mio essere dentro l’ebraismo senza essere ebrea, fino a che, a piatto già mezzo vuoto, mi ricordo che il piano di partenza era che l’intervista la facessi io.

“Credo che sarei interessata all’ebraismo anche se non fossi nata ebrea”, mi risponde, quando le chiedo del legame con la sua identità. “Quella della mia famiglia è una storia di sopravvivenza. Di radici laiche, non religiose, ma profondamente ebraiche. Le origini di mia madre sono a Vienna, quelle di mio padre a Marsiglia, una vita nuova in Cile per scampare alla Shoah. E dopo ancora la fuga, per scampare alla dittatura. Sono tutti fili collegati. Come potrebbero non interessarmi, come potrei non scriverne?”.

Marjorie ha raccontato la sua infanzia in A Cross and a Star: Memoirs of a Jewish Girl in Chile. Alla mia preghiera di parlarmene, si illumina. “Un’infanzia meravigliosa, felice. Ho frequentato la scuola ebraica, ero inserita in una bella comunità. Pablo Neruda viveva poco distante”.

“Lo conoscevi, intendo di persona?”

“Sì, sapevo chi era, ma ero una bambina”, sorride. “Dopo tanti anni vissuti all’estero, il mio Paese rimane il Cile. Mi trovo bene negli Stati Uniti, è il luogo che ha accolto me e la mia famiglia e che ha tanti lati positivi, ma non lo sento dentro come sento il Cile”.

Interviene John, il marito di Marjorie, a tavola con noi: “Quello che sta cercando di dirti è che ha nostalgia di quella bambina super coccolata”. “Forse”, ride lei. “Sì, sono stata molto coccolata, ero il centro del mio piccolo mondo. I bambini in Cile ricevono tantissimo affetto. Succede così anche in Italia, vero? Io credo sia una buona cosa, crescere sentendosi amati”.

E poi cos’è successo?

“Con l’acuirsi delle tensioni politiche, la vita era diventata difficile,  il Cile non era più il luogo sicuro e felice che eravamo abituati a conoscere. Mio padre, soprattutto, [la sua storia è raccontata in Always from Somewhere Else] era in una posizione complicata. Biochimico, ricercatore, aveva una cattedra all’Università del Cile, a Santiago. Era perseguitato da destra perché socialista, e dall’Opus Dei e dalla sinistra perché ebreo. Un ebreo con una posizione di prestigio nel mondo accademico dava fastidio. Come se non bastasse, la sua ricerca era sostenuta da una borsa di studio della Rockfeller Foundation e da altri fondi provenienti dagli Stati Uniti. In nessun modo la sua ricerca aveva scopi militari, figurati, faceva esperimenti con le mosche, ma non contava, erano anni in cui l’antiamericanismo e l’antimperialismo sconfinavano facilmente nella paranoia. Mio padre fu minacciato ripetutamente, il suo laboratorio vandalizzato e distrutto. Ce ne andammo nel 1972, un anno prima del colpo di stato di Pinochet”.

La conversazione si sposta sugli Uniti, su Israele, inevitabilmente su attualità e politica.

“Adoro Israele, ci ho vissuto per un anno, in kibbutz, quando avevo 18 anni, ci vado spesso. Un luogo speciale, pieno di vita, una democrazia da difendere”.

L’impegno di Marjorie nel campo dei diritti umani, soprattutto in difesa delle donne cilene, le è valso diversi riconoscimenti, da parte delle Nazioni Unite, del governo cileno (medaglia Gabriela Mistral nel 2000) e di altre istituzioni. Le chiedo se il suo attaccamento a Israele sia mai stato un problema.

“Lo è, lavorare nel campo dei diritti umani ed essere pro-Israele non è facile, perché ti confronti continuamente con persone che fanno uso di doppi standard. Non solo nel lavoro, anche nelle situazioni private. Non molto tempo fa, per dire, ero in visita al Memoriale della Shoah di Berlino, c’era una mostra sulle leggi di Norimberga, fatta molto bene. Ero in compagnia di un’amica, che si è commossa e ha pianto molto, però dopo mi ha detto: “Sì, però a me non piace la politica d’Israele”. Perché uscirsene con una frase del genere in un momento simile? Era fuori posto”.

La politica israeliana? “Non sono sempre d’accordo con le scelte di Netanyahu, ma credo di capire il punto di vista degli israeliani che l’hanno rivotato. È un bisogno di sicurezza quando tutto appare instabile”.

Torniamo agli Stati Uniti.

“Un Paese di accoglienza e opportunità, con una vita ebraica vibrante, che fa parte a pieno titolo della società. È bello poter essere apertamente ebrei, senza paura. Anche se forse, dopo gli attentati, le cose stanno cambiando. Trump? Non credo, come sostengono alcuni, che sia un antisemita, ma rimane il fatto che non è un buon leader. Credo abbia molte responsabilità nello sdoganamento dei discorsi d’odio nella società americana. Questa volta però non me ne vado, rimango a lottare. Quando sono scappata dal Cile non avevo scelta, ora invece posso scegliere. È questa la grande differenza tra una dittatura e una democrazia, sia pure sempre imperfetta“.

America casa d’elezione, dunque?

“No, non mi sento a casa in America, quel posto nel cuore è occupato dal Cile. Ci vivo bene, è un Paese a cui sono grata, ma non lo sento come casa. Quando scrivo, in spagnolo ma anche in inglese, non ne parlo mai. All’America avrò dedicato una o due poesie al massimo, anzi, forse nemmeno quelle”.

A proposito di scrittura. Ma qualche accenno al testo veneziano in elaborazione si può avere?, chiedo. “Ho le idee più o meno chiare, so di cosa voglio scrivere, ma per farlo devo rientrare. È sempre così, prendo l’ispirazione dai viaggi all’estero, ma per metterla giù mi serve la quiete della mia casa a Boston”.

Quindi, dico a Marjorie, mi stai dicendo che l’America è il luogo che non riesci a chiamare casa, ma anche quello in cui si deve restare e lottare, e quello senza il quale non puoi scrivere. Contraddizione o coerenza perfetta di un’identità multipla?

Di nuovo a Venezia. Immagino, le dico, che tu l’avessi già visitata in passato. Come è cambiata la tua prospettiva questa volta, in questo soggiorno da “residente” e non più da turista?

“È cambiata completamente, vivere Venezia così è del tutto diverso dall’esperienza turistica. Riconoscere i luoghi, la quotidianità. L’altro giorno eravamo sul vaporetto, io e John, ed ecco, abbiamo incontrato Shaul [il presidente di Beit Venezia]! Cosa c’è di meglio che incontrare per caso una persona che conosci in mezzo alla città? Ti fa sentire a casa. Tornando al testo che sto preparando, Venezia è stata la casa temporanea ma fondamentale di moltissimi artisti, scrittori e poeti, che vi hanno soggiornato e vi hanno trovato ispirazione. Io sento il mio soggiorno come un punto di continuità di questa tradizione. Scriverò del Ghetto, della sua storia, ma non voglio restituirne un’immagine angosciosa. Voglio parlare di tutta la vita che ci brulicava dentro, di come sia sempre possibile, anche dentro confini stretti come quelli, sognare e pensare in grande”.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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