Hebraica Nizozot/Scintille
Scetticismo ebraico? Forse…

Per il filosofo franco-israeliano André Neher, “forse” è la parola chiave del pensiero ebraico. Una disamina del dubbio e della sospensione del giudizio dal Talmud a oggi

Ci sono due modi per dire ‘scettico’ in ebraico: cheser emunà, ossia ‘colui che manca di fede’, di fiducia; e safqan, che viene da una radice trilittera polisemica, che veicola anche il concetto di dubbio, safeq. Di primo acchito sembrerebbe che un buon ebreo non possa essere uno scettico, perché la fiducia sta alla base del patto tra Qadosh Barukh Hu e Israele, e se si dubitasse della Sua esistenza o della Sua rivelazione si sarebbe tentati di ‘tagliare i germogli’, espressione rabbinica per dire l’abbandono di ogni pratica religiosa. Eppure, se si va a fondo nelle fonti del giudaismo, viene più di un dubbio: la fede ebraica non pare affatto espressione di un atteggiamento dogmatico, anzi è costellata di domande la cui risposta non è mai scontata e di interrogativi che, se non sono scetticismo, ci vanno assai vicini.

“Nel giudaismo – scrive l’accademico Giuseppe Veltri, che ha approfondito la questione se esista o no uno scetticismo di marca ebraica – l’arte di studiare implica il saper porre di continuo dubbi a riguardo di quel che il maestro pensa e dice. Inoltre lo studio della Torà non ha al suo centro una dottrina teologica, né può essere uno studio meramente mnemonico o basato sulla pura ripetizione di quel che si è udito”. Senza cadere ovviamente negli stereotipi (che svuoterebbero il senso di questo approccio critico incline allo scavo per una migliore comprensione dei testi), si tratta di un’attitudine, quasi una middà o virtù, che lascia spazio anche alla mancanza di risposte definitive, almeno sul piano intellettuale, e alla sospensione del giudizio, a fronte di questioni complesse che vanno oltre i proverbiali ‘quattro cubiti di halakhà’. Del resto, c’è chi vede già nella meghillà di Qohelet il paradigma della propensione allo scetticismo sulle cose del mondo. E nel Talmud, trattato Berakhot 4a, leggiamo: “Un maestro afferma: insegna alla tua lingua a dire ‘non so’, per non essere considerato un mentitore”. Impossibile non vedere la vicinanza di quest’ammonimento, o ammissione di ignoranza, con il famoso adagio di Socrate: ‘So di non sapere’, nel solco del quale sorsero le scuole scettiche dell’antichità, prima quella di Pirrone, tra IV e III secolo a.e.c., e poi quella di Sesto Empirico, tra II e III secolo della nostra èra.

Allorché nel medioevo sefardita si sviluppò una vera e propria filosofia ebraica di impronta razionalista, gli ebrei tradizionalisti accusarono spesso i filosofi correligionari di scetticismo, quando non di aperta eresia, come se il dubbio o il senso critico su alcuni aspetti della tradizione fosse la porta, o il pretesto, per ogni forma di contestazione e devianza religiosa, inclusi ateismo, immoralità e persino apostasia. L’accusa di essere scettico venne rivolta anche a Maimonide, il maggior esponente di quel razionalismo ebraico di matrice aristotelica (più precisamente fu accusato di non credere alla risurrezione dei morti, e per smentire i suoi accusatori dovette, negli ultimi anni della sua vita, scrivere un trattato sul quel tema). Non è un caso poi che un audace ebreo tendente allo scetticismo in materia di conoscenza ossia Salomon Maimon, profondo estimatore di Kant, abbia adottato come patronimico filosofico proprio quello del grande sefardita aristotelico. Ora, costoro non sono i due soli rappresentanti di una corrente di pensiero ebraico più o meno espressamente scettica. Il già citato Veltri ne elenca altri: il più che ortodosso ‘Ovadià Sforno, per il suo saggio filosofico ‘Or ammim del 1537, nel quale il dubbio ha una funzione di motore dialettico (egli è noto soprattutto per i suoi commenti alla Torà); ancor più significativo il nome di Azarià de’ Rossi, che nella seconda metà del XVI secolo solleva perplessità sulla veridicità storica della letteratura aggadica, aprendo la questione modernissima di come coniugare storia e memoria culturale, e di come interpretare i testi sacri senza rinunciare al senso critico e agli strumenti dell’indagine naturale; anche il Maharal di Praga, pur indignandosi dei dubbi dell’eretico rabbino mantovano (il de’ Rossi, appunto), scrive pagine piene di tensione dialettica che lasciano spazio alla verifica filologica dei testi; a costoro Veltri associa pure il rabbino Judah Moscato, altro mantovano del XVI secolo, che incarnerebbe appieno la figura dello ‘scettico religioso’, come se questo non fosse affatto un ossimoro ma una felice coincidentia oppositorum.
Ma la palma dello scetticismo ebraico, in pieno XVII secolo, spetta al rabbino veneziano Simone Luzzatto, autore del famoso Discorso circa lo stato de gl’hebrei, del 1638, e un trattato intitolato emblematicamente Socrate ovvero dell’humano sapere, del 1651, la cui tesi – tra il serio e il faceto – sta tutta nel prosieguo del titolo: opera nella quale si dimostra quanto sia imbecile l’humano intendimento, mentre non è diretto dalla divina rivelazione. Solo in anni recenti quest’opera di scetticismo sulla possibilità di conoscere il vero con la sola ragione è stata sottratta alla polvere delle biblioteche e rimessa in circolazione dallo stesso Giuseppe Veltri, che ha provveduto a contestualizzarla alla luce del dibattito dei circoli intellettuali – accademici nel senso secentesco del termine – della Venezia del suo tempo. Si pensi in particolare al gruppo animato da Sara Copio Sullam, la prima letterata e filosofa ebrea dell’età moderna (forse la prima della storia ebraica tout court), capace di difendere non solo la sua fede – rifiutando ogni profferta di conversione al cattolicesimo – ma anche la dottrina tradizionale dell’immortalità dell’anima; ma si pensi soprattutto all’esistenza a Venezia, già a metà del XVI secolo, di un’Accademia dei dubbiosi, che ebbe sì vita breve ma lasciò il segno in una società che ben conosceva la distinzione tra autorità politica e autorità religiosa, e che amava l’arte di ‘dissimularsi’ (leggi: ‘mascherarsi’) per tutelare le proprie libertà (e, per alcuni, il proprio libertinaggio).

Nell’ambito delle scienze umane, e qui sta la modernità di Simone Luzzatto, un sano scetticismo non è solo utile ma persino necessario affinché le acquisizioni non diventino dogmi e i dogmi non atrofizzino la ricerca. Persino in ambito religioso, come insegna non di rado il Talmud, sorgono questioni di non facile soluzione, che restano aperte anche dopo lunghe disamine e discussioni tra i maestri. La conclusione momentanea di tali discussioni è riassunta nell’acrostico Teyku, che sta per Tishbì yetarètz qushyòt u-va’ayot e che significa: Il Tishbita [ossia il profeta Elia verrà e] risolverà difficoltà e problemi”. Ma fino a quando Elia non viene, occorre sospendere il giudizio. Anche questa è una forma di scetticismo, non passivo ma attivo, ispirato a non voler chiudere il cerchio prima del tempo messianico, che stimola una forma mentis aperta alla possibilità, anzi al dovere che noi si discuta ancora e si cerchi di più e meglio. Teyku è parente prossimo di ‘ulaj, del ‘forse’, che secondo il filosofo francese-israeliano André Neher è la parola chiave del pensiero ebraico. Non c’è sapienza senza un po’ di scetticismo.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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