Cultura
“Shttl”: il film sull’attacco nazista alle comunità ebraiche della Russia

I tragici fatti del 1941 raccontati attraverso le vite di tre ragazzi sconvolte dall’arrivo delle truppe del Terzo Reich

Questa estate, nei boschi vicini al villaggio di Rovzhi, in Ucraina, in cinquanta giorni è sorto uno shtetl. Uno dei tipici insediamenti ebraici che prima dell’Olocausto punteggiavano l’Europa Orientale ha preso vita come per magia dal lavoro di una troupe cinematografica. Gli operatori erano al lavoro su Shttl (senza la “e”), un film storico che, nelle intenzioni del regista e sceneggiatore di origini argentine Edi Walter, fin dal titolo vuole comunicare un senso di mancanza. Si tratta del vuoto abissale lasciato dalle comunità ebraiche con l’invasione nazista della Russia. La trama del film punta a cogliere proprio quel momento, in piena Operazione Barbarossa, trasportando lo spettatore nel villaggio di Sokal il 21 luglio 1941, nelle 24 ore che hanno preceduto l’arrivo dei tedeschi.

Girato in un unico, ambiziosissimo piano sequenza allo scopo di essere ancora più realistico, il lungometraggio mostra le vicende storiche attraverso quelle personali di tre ragazzi: l’ebreo Mendel, tornato dai suoi per annunciare di volersi trasferire in città per dedicarsi al cinema, il suo amico ucraino Demyan, che lo accompagna, e Yuna, la figlia del rabbino, che sta per sposarsi con il figlio del macellaio ma che da sempre ama riamata Mendel. Decisi a fuggire dalle nozze così come dalla comunità, i tre ragazzi stanno quasi per raggiungere la libertà tanto sospirata quando scoprono che i nazisti stanno arrivando al villaggio. Rinunciano così alla fuga per tornare sui propri passi e avvertire gli altri.

Come dichiarato dal regista al sito ucraino KP, «questa è la storia delle avventure e dell’amore dei giovani immersi nella vita tradizionale dello shtetl fino a quando questo non viene distrutto dagli squadroni della morte nazisti il ​​giorno successivo». La protagonista che interpreta Yuna, Anisiya Stasevich, ha dichiarato a KP che il momento in cui i tre ragazzi fuggono al mattino dal villaggio, convinti di poter dare le spalle a una vita che va loro stretta, è una delle sue scene preferite: «Un inno alla libertà tra la vita e la morte». Il passaggio drammatico è quello tra l’illusione di un’esistenza felice da una parte e la comprensione che c’è una minaccia ben più grave che li aspetta dall’altra. Per entrare perfettamente nel ruolo, Anisiya ha imparato l’yiddish, lingua condivisa con gran parte dei personaggi del film. «La mia eroina parla praticamente solo l’yiddish», ha raccontato l’attrice, che come gli altri interpreti ha dovuto studiare per due mesi ed è stata affiancata in questo da Eli Rosen, già consulente culturale per la serie Unorthodox. Per lei si è trattato anche di un’occasione per riscoprire qualcosa di se stessa: «Mio ​​nonno è di famiglia ebraica, io sono di Odessa, la mia bisnonna, da cui ho preso il nome, parlava yiddish. Quindi questa è anche la mia storia personale. Penso che sarebbero molto felici di vedere e sentire che sono tornata alle origini».

Cardine del racconto e non solo semplice location, era essenziale che lo shtetl fosse ricostruito nel modo più realistico possibile. «Voglio che gli spettatori camminino nei vicoli insieme agli attori e sentano tutto», ha dichiarato il regista a KP. Nonostante un budget milionario insolitamente alto a disposizione, la ricostruzione ex novo del villaggio sarebbe stata comunque proibitiva. Gran parte delle case sono state dunque acquistate, trasportate e rimontate dalle regioni vicine. Nell’intervista uscita su KP, lo scenografo Ivan Levchenko racconta così l’impresa: «Ho mandato un messaggero nelle zone vicine per comprare vecchie case in modo che potessero essere trasportate e ricostruite. Perché invecchiare il legno nuovo è sia più costoso sia tecnologicamente più difficile». Tra l’altro, pare che dall’inizio delle riprese il costo dei materiali fosse triplicato…

«Con il nuovo costosissimo legname abbiamo costruito solo una scuola, una sinagoga e una biblioteca. Tutto il resto è stato trasportato e rimontato. Le vecchie case degli anni Trenta sono state portate dalle regioni di Zhytomyr e Chernigov», racconta lo scenografo. Quello che non era di legno è stato invece costruito in un super realistico polistirolo, come alcune abitazioni in mattoni e le lapidi del cimitero, ma il grande orgoglio del team di scenografi resta la sinagoga. «Non ci sono più sinagoghe di legno dipinto» dice Levchenko. «Abbiamo decorato la nostra in due settimane. Di conseguenza, ci è voluto circa un mese per realizzarla. È la più complessa nel design. Mentre la scuola e la biblioteca sono filmate solo all’esterno, cioè senza gli interni, la sinagoga viene ripresa sia all’esterno sia all’interno. Qui anche i decoratori hanno dato il loro meglio. Ad esempio, contiene vecchi lampadari austro-ungarici originali – le cosiddette lampade a ragno – che aggiungono un’atmosfera speciale».

Prodotto dalla società ucraina Star Media in collaborazione con la francese Forecast Pictures, il film dovrebbe essere pronto per il 2022 e, secondo il sito JTP, potrebbe generare qualche polemica dalle parti di Kiev. Il set ha già attirato l’attenzione dei media ucraini per l’insolito tentativo di ricreare un’istituzione che esisteva da secoli nell’Europa orientale. Ma, come si ricorda nell’articolo dedicato a Shttl, l’operazione rischia di toccare ben altri nervi scoperti. Specialmente nell’Ucraina occidentale, infatti, i locali avrebbero partecipato alla liquidazione degli ebrei della zona, a volte con notevole crudeltà. Lo stesso servizio ricorda anche come il paese sia oggi alle prese con un acceso dibattito tra la glorificazione di alcuni di quegli autori in mezzo a un’ondata di nazionalismo e antipatia verso la Russia che i collaboratori nazisti stavano combattendo durante la seconda guerra mondiale.

Con questi presupposti e in una nazione in cui, al pari di tutta l’Europa Orientale, i resti degli shtetl si possono vedere solo in una manciata di luoghi, acquistano ancora più valore le intenzioni della società di produzione. Come riporta KP, si vorrebbe infatti trasformare il set in un museo e in un monumento commemorativo per le centinaia di altri villaggi devastati dai nazisti e dai loro collaboratori. «Il problema principale è lasciarlo in buone mani», avrebbe dichiarato il regista.

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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