Cultura
Trump e i giorni più bui della democrazia americana

Il bilancio del triste ed inquietante assalto a Capitol Hill che il presidente uscente ha istigato per molto tempo, divenendone poi il grande sacerdote nel momento in cui è stato messo in scena

Alla fine l’ha fatto: ha trasformato una crisi politica (la vittoria del suo avversario e le tensioni che da ciò ne sono derivate) in un lungo, profondo vulnus istituzionale. Qualcosa di incerto soprattutto nei suoi effetti. Così un Donald Trump oramai completamente incontrollabile (e fino ad oggi incontrollato), nel più triste giorno della febbricitante democrazia americana dal primo Novecento ad oggi. Prima di allora, le immagini di tal genere consegnateci dal secolo precedente rimandavano semmai ad un’unica e terribile premessa, quella della guerra civile che, per anni, attraversò la giovane nazione americana, dividendola nel profondo e generando ferite non ancora sanate in tempi a noi più prossimi. Oggi ci ritroviamo travolti dalle immagini della follia dell’occupazione in diretta televisiva di una parte del compound di Capitol Hill, quella del Senato, da parte di un’improbabile truppa assortita e raccogliticcia di militanti filotrumpiani, inebriati da una sorta di eccitazione plebea, dove gli insulti più scomposti si mischiano alla rivendicazione di un presunto diritto di sopraffazione, la violenza squadrista si mescola all’aggressione deliberata contro le forze dell’ordine, in una sorta di vorticoso sabba della degenerazione e dell’incoscienza. Una triste ed inquietante carnascialata che il presidente uscente ha istigato per molto tempo, divenendone poi il grande sacerdote nel momento in cui è stata messa in scena. Poiché è per l’appunto lui a portare, in tutto ciò, le maggiori responsabilità.

La deliberata, consapevole, irresponsabile strategia di confondere i dati di fatto con le proprie mistificazioni, l’appello al risentimento, la delegittimazione sfrenata di tutti quanti non si fossero allineati, proni e chini, alla sua volontà, che coincide sempre e comunque con i suoi stretti interessi personali, non datano peraltro a questi giorni. Al netto di qualsiasi valutazione di merito rispetto ai singoli capitoli dell’esercizio del mandato politico da parte dell’Amministrazione uscente, in un poco felice quadriennio, laddove ci si è trovati dinanzi ad un percorso costellato peraltro da dimissioni, incidenti, improvvisi cambi di rotta, opportunismi e cos’altro, ciò che ad oggi ce ne viene restituito, come primo lascito, è la sua cupa dissolvenza sulle gradinate di Capitol Hill. Con il vicepresidente Mike Pence, che invece non ha demorso dal suo ruolo istituzionale, costretto ad abbandonare precipitosamente l’aula, insieme ai senatori e quindi, nel corso della notte, dopo il primo ristabilimento di un minimo di ordine e agibilità democratica, impegnato, in condizioni del tutto eccezionali, a ratificare l’ovvietà della vittoria di Joe Biden.

Rimangono gli uffici vandalizzati, le sale occupate da una marmaglia eccitata, gli scranni del potere legittimo e legale ridicolizzati, le armi esibite, gli insulti ripetuti, le ringhiose promesse di una sopraffazione collettiva che viene gabellata come «riscatto». L’orda che divelle qualsiasi cordone di sicurezza non rappresenta il «popolo» ma l’accozzaglia che disintegra quella sacralità dei luoghi e delle persone nei quali si incarna l’unità di una nazione. Senza la quale non c’è futuro. Non sono, per l’appunto, «nazione» ma disintegrazione; non rivendicano diritti e interessi ma prevaricazione, tumulto e degenerazione. Non è «rivoluzione» (peraltro, quale e per cosa?) ma regressione collettiva. I militanti del disordine programmatico ripetono, in una antica e rodata miscela che solo gli idioti di turno fingono di non potere o volere riconoscere, quella commistione tra goliardia e violenza che fu alle origini del fascismo in Italia ed in Europa. Non in altri paesi, come gli stessi Stati Uniti, dove pure albergò senza tuttavia trovare accrediti e sponde istituzionali.

Le tristi ed angoscianti immagini di una sorta di nuovo 11 settembre inside, per fortuna meno calamitoso di quello di vent’anni fa, tale poiché con “soli” quattro morti, ma celebrato dall’interno del corpo afflitto e diviso della nazione americana, una parte della quale eccitata ai peggiori propositi da un mestatore che ha gettato la maschera in pubblico, sono quindi uno schiaffo per tutti. I doppiopesisti di turno si sono già incaricati un po’ ovunque, e quindi anche in Italia, di introdurre i falsi distinguo che, fingendo di cercare di comprendere, in realtà si stanno adoperando per mitigare e, quindi, non solo condonare ma soprattutto far accettare l’inaccettabile. Sono i professionisti mediatici del «sì, ma», del «però anche gli altri» e così via. Sono gli astanti di una surreale messinscena, fungendo da complici dell’unico inganno che si sta per davvero consumando, e da tempo, ovvero quello contro la stessa democrazia. Al pari dei negazionisti, si attribuiscono sia la parte di vittime così come quella di avvocati difensori di una lesione inesistente, ribaltando, in un contraddittorio infinito, l’evidenza dei fatti e trasformandola in una sorta di marmellata saccarinica nella quale tutto e tutti rimangono invischiati. Il loro è il classico esercizio dei servi interessati, quelli che traducono la sociologia in sociologismi, l’analisi impegnata in polemica senza sbocco, a modo proprio replicando le tattiche di quanti da sempre, in una gigantesca battaglia politica, si impegnano a confondere e distrarre. Sono per l’appunto gli avvocati difensori di un colpevole conclamato, dediti a nascondere la polvere sotto il tappeto, possibilmente ad alterare le prove. Se scoperti, reclamano l’unica giustizia che conoscano, quella della loro presunta verginità d’intenti, che non hanno mai avuto non riconoscendo cosa sia la responsabilità civile e morale. Non rispondono a coscienza ma a compiacenza, quella richiestagli dal mestatore capo, dal grande cialtrone di turno.

La loro parola magica che, se ne può stare certi, ripeteranno nel tempo a venire, è «broglio». Serve per alimentare all’infinito quella fiaba nera di cui tutti i radicalismi da sempre si nutrono: la «vittoria mutilata», la «coltellata alle spalle», il «tradimento del vero popolo» sono il fermento degenerativo dell’eversione. Coloro che cercano ancora di vanificare la legittimità della vittoria di Biden, oggi, dopo un’infinità di verifiche e riscontri, quasi sempre del tutto superflui, non si collocano sul piano della polemica politica ma del groviglio banditesco, del coacervo istintuale, del conato feroce e criminaloide. Sono i prezzolati corifei, gli scribacchini, gli scritturali, gli agitatori da salotto, i cagnolini ringhianti della vera crisi in atto nell’Occidente, di quel vero «scontro di civiltà» in corso, che non arriva da fuori, per via dell’azione di forze estranee, ma germina dentro, all’interno di un circuito politico ed istituzionale che rischia di saltare per sempre sotto la pressione di una globalizzazione non governata, di cui i sovranisti, fingendosi vittime, ne sono invece gli autentici beneficiari. Il loro è quindi il pianto delle prefiche che da sempre fa da corredo al declino della giustizia e delle libertà. I barbari non sono alle porte, semmai albergano negli anfratti di società in grave affaticamento che, a breve, dovranno confrontarsi ancora di più di quanto non sia già successo, con gli effetti pesantissimi che la pandemia in corso ci sta consegnando.

L’ordine a Washington, adesso, è stato temporaneamente ristabilito. Temporaneamente, per l’appunto. Non finirà tuttavia così: si è aperto un lungo travaglio dagli esiti imprevedibili. Poiché negli Stati Uniti, così come in altri paesi a sviluppo avanzato, la posta in gioco, negli anni a venire, saranno i complessi ma imprescindibili equilibri propri alle democrazie avanzate. Se questi si inceppano, si arrestano prima le libertà e poi le stesse persone. Joe Biden entrerà ora in carica ma sarà un presidente delegittimato: non dalla falsità delle accuse di inesistenti brogli elettorali bensì da un clima avvelenato di cui le violenze di questi giorni sono solo la punta del grande iceberg. Trump ne è l’ispiratore e porta con sé una responsabilità inemendabile. Non le ha generate ma le ha istigate e poi, con un linguaggio volutamente compromissorio e collusivo, fatto di mediocri richiami ad un cialtronesco “patriottismo”, le ha quindi sostenute nel mentre si consumavano. Non ha un progetto politico che non coincida con la valorizzazione di se stesso, tuttavia vellicando quella parte degli umori comuni il cui unico tessuto connettivo è un radicalismo sempre più esasperato. In una condotta irresponsabile che porta al continuo rialzo della posta, senza volere sapere quale potrebbe esserne l’esito finale, ossia lo sfarinamento del consenso democratico e i fantasmi di una nuova guerra civile.

Non è il gioco, ancorché durissimo, della «destra» contro la «sinistra», come gli striduli vassalli del presidente uscente, cantori dell’insurrezionalismo, fingono di potere mettere in scena: è il picconaggio delle istituzioni collettive, nella segreta convinzione che dalle rovine  dei molti possano derivare i migliori benefici per sé e la propria parte. Un partito repubblicano frantumato e afasico si trova ora a raccogliere i cocci nei quali si è disintegrato, rinculando nella sua insipienza, come già si era capito dal momento in cui aveva delegato al tycoon la sua rappresentanza istituzionale. C’è poco di cui compiacersi, al riguardo. Trump, per l’appunto, è il sacerdote di un tale rito di degradazione. Da tempo coltivava la delegittimazione di qualsiasi elemento della vita associata che non fosse coincidente con il suo interesse. Ma le cose non finiscono con lui, ammesso e non concesso che lo stato delle cose possa permettere di dire che la slavina sia stata fermata. Il trumpismo potrà vivere, nell’eventualità, anche senza Trump, in quanto ha raccolto e cristallizzato l’ossatura di un atteggiamento deliberatamente eversivo. Quello che dichiara manipolate, e quindi non credibili aprioristicamente, le stesse regole del gioco quando il giocatore non è gratificato dai suoi esiti. Un po’ come colui che, dinanzi alla sconfitta nella mano a poker o al tavolo del blackjack, tira fuori la rivoltella e la poggia davanti a tutti.

Trump non fa politica; semmai distrugge il tessuto connettivo della coesione civile. Non è interessato a qualsivoglia progetto, cerca piuttosto di disintegrare quelle capacità di mediazione che sono invece alla base di ogni istituzione comune. Ha raccolto e coalizzato un seguito, anche robusto. Non il «popolo» ma coloro che sono caratterizzati da un pensare plebeo. I voti li  ha quindi avuti e potrebbe ancora riceverli. Non tutti i suoi elettori sono sulla sua lunghezza d’onda ma, se ne può stare certi, una parte di essi si è compromessa con quel risentimento che porta a cercare nello stravolgimento della vita democratica la ragione per giustificare il senso del proprio vuoto di prospettive e speranze. Questa cosa, che non rompe un galateo ma frantuma il medesimo accordo su cui si rigenera la coesione civile, non è per nulla finita. Anzi, in tutta probabilità è solo agli esordi. Troveremo, ed anche a breve, il tempo per entrare ancora nel merito dei processi e dei meccanismi della degenerazione che hanno portato a questo clamoroso esito. La feroce tracotanza di un’anatra eversiva, lo sbeffeggiamento degli avversari che si è consumato in questi tempi in America, ricorda molto il vuoto che altri fecero, a suo tempo, nei confronti di un Yitzhak Rabin raffigurato come traditore quando invece si era posto al servizio del suo Paese, pagando con la vita il suo impegno. La fetida cloaca, al pari di un vaso di Pandora, quando viene scoperchiata produce i suoi miasmi. Ovunque e comunque.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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