Cultura
Trump exit: il ruolo del tycoon e del Grand Old Party nei prossimi quattro anni

Il “trumpismo” non è per nulla consegnato al passato e si candida ad essere l’antagonista della nuova presidenza, della quale, per l’appunto, ha già dichiarato l’«illegittimità». Presente e a venire

Dopo cinque lunghe settimane di offensive legali promosse soprattutto da Rudolph Giuliani, l’avvocato di fiducia di Donald Trump, uno degli uomini che gli è più vicino, l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti da parte del Collegio elettorale federale è pressoché certa. Seguirà la proclamazione definitiva da parte del Congresso il 6 gennaio 2021. Nonostante l’esito del voto a favore del suo avversario (306 grandi elettori, di contro ai 232 conquistati dal candidato repubblicano), la sfibrante guerra di posizione condotta nel corso di un mese e mezzo per confutarne gli esiti non ha prodotto i risultati sperati dallo sconfitto. Il quale ha da poco dichiarato che «l’America rischia di avere un presidente illegittimo, ma la battaglia non è ancora finita».

Trump non pensa a ribaltare i risultati – se mai l’ha fatto – ma a costruire un ponte di qui ai tempi a venire, coltivando la sua immagine di combattente indomito, pronto a tornare in campo (peraltro non avendolo mai abbandonato) o a fare sì che qualche membro della sua famiglia e del più ristretto entourage si incarichi di una tale lotta. L’intenzione è evidente: dettare condizionalità ai repubblicani, di fatto mantenendo sul partito e sul suo grande seguito elettorale una sorta di offerta di pubblico acquisto.

Che cosa per davvero resterà della presidenza Trump è tuttavia difficile dirlo. Ovvero, è ancora troppo presto. Adesso che gli ultimi riscorsi su presunti brogli elettorali, così come su conteggi errati, si esauriscono nel vuoto, se la pressione legale dell’inquilino uscente della Casa Bianca va attenuandosi invece continua quella politica. L’obiettivo è stato chiaro fin dalla notte dello spoglio elettorale, quando iniziò a delinearsi una vittoria del suo avversario: dichiarare  dinanzi al proprio pubblico, ossia ai sostenitori di sempre, che Joe Biden è per l’appunto un presidente abusivo.

Questa strategia di condotta, ancorché severamente rifiutata dalla parte restante dell’elettorato, così come dalle stesse istituzioni federali (e statali), ha tuttavia una sua razionalità. Tale poiché mette in relazioni i mezzi (usare la grancassa della comunicazione mediatica come strumento di costante autopromozione) con i fini (non solo delegittimare pubblicamente l’avversario vincitore ma anche porre le premesse, tra quattro anni, per una nuova presidenza repubblicana, avendo però definitivamente conquistato il cuore di un partito e di un elettorato altrimenti smarriti). Non è quindi l’esercizio retorico di uno sconfitto bensì una vera e propria professione di imprenditoria politica che guarda – ben consapevole che Biden abbia per davvero vinto e che quindi la partita, al momento, sia definitivamente chiusa – al dopo.

Donald Trump ha capito una cosa, che quasi trent’anni fa aveva inteso, in Italia, lo stesso Silvio Berlusconi: esiste un paese “profondo”, animato da un’anima conservatrice, che avendo perso una parte dei suoi riferimenti abituali cerca una nuova rappresentanza politica e istituzionale.

I democratici, anch’essi in affanno dopo lo “spegnersi” dei due mandati di Barack Obama, hanno trovato in Joe Biden una figura di transizione, che proprio come tale garantirà il perdurare di alcuni equilibri. Tra di essi, la proiezione degli Stati Uniti sullo scenario internazionale, sia pure con molti vincoli e limiti; il ritorno ad un moderato multilateralismo (ovvero, accordi e alleanze tra più partner); un’agenda, rispetto all’Asia – quello che è il dossier al momento più importante – attenta a non favorire l’ingresso di altri competitori nella sfera di influenza contesa alla Cina; il prosieguo della Special Partnership con Israele, evitando tuttavia di identificare in tutto e per tutto il paese con la figura del suo attuale premier; una maggiore attenzione al rapporto con l’Unione europea, nei confronti della quale non si caldeggerà lo “spacchettamento”, ossia la sua frantumazione, semmai cercando linee di dialogo e scambio in funzione di contenimento di tre ingombranti attori internazionali come la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan e l’Iran “rivoluzionario”; una diversa – e quindi maggiore – disposizione d’animo verso i mutamenti che stanno coinvolgendo il Mediterraneo e così via.

Plausibile comunque che anche per Biden (così come già in Trump, del pari alle presidenze antecedenti) il manifesto idealista (invero assai povero di rimandi a programmi concreti ed invece molto più ricco di rinvii a immagini di “grandezza” o di “rigore” da ripristinare) si coniughi da subito al pragmatismo delle necessità e delle opportunità. Poiché negli Stati Uniti la piattaforma che vince tra gli elettori non è quella che rimanda alla politica internazionale bensì alle questioni interne, che oggi legano il problema dell’uscita dalla pandemia al rilancio economico. Un problema che riguarda anche gli altri paesi a sviluppo avanzato e sul quale si misurerà, di qui in avanti, la credibilità del presidente entrante.

Rimane il fatto che quest’ultimo, in campo democratico, costituisca il vero artefice del “dopo-Obama”. Può apparire quasi una forzatura, dopo che per un lungo periodo – durato per ben quasi nove anni, ovvero tra il 2009 e il 2017 – Biden sia stato in rigoroso ticket, nella qualità di suo vice, con la presidenza Obama. Ma in quel contesto, già allora, il trascorso senatore del Delaware rappresentava il garante delle famiglie democratiche più legate alla tradizione del partito. Parliamo, tra le diverse, dei Clinton che – di fatto – sono oggi i veri patrocinatori di Biden (soprattutto dopo la sconfitta di Hillary nel 2015). Tuttavia, sempre insieme a quelle roccaforti di notabilato elettorale che ruotano intorno a figure chiave del calibro di Nancy Pelosi, Elisabeth Warren, Bill Richardson, Mark Warner, Tim Kaine, Jim Webb, Alan Grayson, Dennis Kucinich, Al Franken, Ed Rendell ed alla stessa sinistra di Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez (AOC), Bill de Blasio, Jesse Jackson, Dianne Feinstein. Così come all’ala più moderata, se non intimamente conservatrice (leggasi: quella vincolata alla limitazione del diritto di abortire, alla difesa del possesso di armi a titolo personale, alla propensione per il protezionismo in materia di dazi, al liberismo economico), quest’ultima composta da Ben Nelson, Bob Casey Jr., Mary Landrieu, Loretta Sanchez.

Da tempo, durante la battaglia per la nomination in campo democratico, una rilevante parte di tali personalità, con il loro seguito elettorale nei singoli Stati, avevano optato per una figura “mediana”, ossia un uomo in grado di conoscere e quindi garantire pressoché tutti i meccanismi del governo federale, vicino quindi alla concentrazione lobbistica di interessi che ruotano intorno a Washington e, non di meno, non troppo giovane per potere ambire a futuri incarichi dopo un intero mandato presidenziale. «Sleepy Joe», come con tagliente sarcasmo lo aveva ribattezzato il team elettorale di Trump, costituiva il candidato adatto per le stesse ragioni in virtù delle quali il suo avversario repubblicano invece lo contrastava: propensione alla mediazione, carisma contenuto, senso della misura e delle proporzioni, rappresentanza di una coalizione (quella democratica) in affanno ma ancora capace di ricomporsi dietro una candidatura di “bandiera” accettabile.

La vicepresidenza offerta a Kamala Harris ha completato il pacchetto elettorale. Trattandosi del tandem con una donna, di colore (ancorché non quello che possa rimandare ad una qualche forma di «Black Power», semmai richiamando alcuni aspetti, piuttosto mitigati, del «Black Lives Matter», benché lei stessa sia di origine indo-americana), nonché di ancora “giovane” età; soprattutto, sospesa tra precedenti in puro stile «Law and Order» ai quali si è poi alternata un’accentuata attenzione per il voto progressista (necessario per non disperdere il robusto seguito di Sanders e del «socialismo democratico» di AOC).

I repubblicani, a tale riguardo, si sono invece presentati da subito come disarmati, avendo già da diversi anni consegnato la rappresentanza della propria unità di formazione politica ad un uomo che rimane essenzialmente un tycoon ed un immobiliarista. Un passo pieno di conseguenze, conseguente al declino della famiglia Bush (solidamente innervata nel sistema di interessi costituito dalle imprese di idrocarburi e all’industria energetica), che ne aveva rappresentato invece a lungo il nuovo orizzonte. Non è un caso, a latere di queste considerazioni, che lo stesso George W. Bush avesse lasciato intendere della preferibilità di Biden, piuttosto che un secondo mandato conferibile al presidente uscente.

Donald Trump, peraltro, aveva manifestato già cinque anni fa un’abilità di cui intende fare tesoro ancora per i tempi a venire. Si tratta del comprendere che l’esaurimento della progettualità politica in campo repubblicano, se sbarra  a tutt’oggi il passo agli accordi tra il suo notabilato interno, è invece lo spazio dentro il quale un outsider, che altrimenti non avrebbe avuto futuro, può di nuovo inserirsi. Volgendo a proprio favore lo sfiancamento altrui. Non a caso le sue condotte, come presidente in carica, sono state lette perlopiù come intemperanze, da ascriversi ad un carattere discontinuo e abrasivo. Quasi che lo stile, le prassi e le scelte di una qualsivoglia Amministrazione potessero essere ricondotte solo al carisma del suo titolare. In realtà, senza per questo dotarsi di una particolare intelligenza politica, Trump ha percepito la profonda crisi nella quale i repubblicani erano precipitati dopo le presidenze della famiglia Bush. Il programma interventista dei neoconservatori, che aveva ispirato le campagne militari in Medio Oriente e il ruolo degli Usa come «gendarmi del mondo», si era esaurito con un nulla di fatto, perdendo qualsiasi residua spinta propulsiva. La riconfigurazione degli assetti di potere in regioni dove la democrazia, ma anche e soprattutto la libertà e la giustizia, rimangono un’assoluta chimera, nel nome di un nuovo equilibrio internazionale che avrebbe invece ridato agli Stati Uniti una primazia altrimenti perduta, si è trovata dinanzi al grave limite della mancanza di risorse per proseguire in una politica interventista tradizionalmente guardata con sospetto da molti elettori.

Non di meno, già dopo la tragedia delle Twin Towers dell’11 settembre 2001, a parziale riequilibrio dell’attivismo della componente neoconservatrice,  che aveva ispirato le scelte di Bush Jr., era intervenuta quella destra sovranista riorganizzatasi sotto le insegne del Tea Party e poi dell’Alternative Right. Della radicalità di essa Trump si è legittimato, non solo per solo calco ideologico ma anche e soprattutto per stile di condotta. Ne è derivata, come estrema sintesi, l’estrema visibilità del presidente repubblicano. La sua mediaticità – giocata volutamente su rozze ma anche immediate e facili identificazioni, sulla divisività al limite dell’aggressione verbale, sul ricorso ossessivo a slogan di facile ripetibilità, sull’appello all’«uomo bianco» (non solo Wasp ma anche latino-americano), su una misoginia che è ancora oggi un capitale politico, nonché sul sospetto, implicitamente adombrato, di mancanza di piena lealtà da parte delle “minoranze” nazionali – ha di fatto riallineato l’elettorato conservatore, offrendogli un piattaforma sulla quale fare confluire le angosce da retrocessione sociale dei ceti medi con l’aggressività espressa dalle componenti marginalizzate della società, quelle che più e peggio stanno pagando i costi della globalizzazione.

Il risultato certificato, in un’elezione che ha visto una grande partecipazione collettiva (pari al 66,9% degli aventi diritto), ha consegnato 74.216.747 voti validi a Trump (di contro agli 81.268.867 del suo avversario). È comunque un capitale dal quale ripartire, trattandosi del risultato di un vero e proprio referendum su due diverse, se non antitetiche, personalità pubbliche.  Così come della cernita e quindi della conta tra due Americhe molto diverse: la prima – quella che ha scelto i democratici – cosmopolita, legata all’economia digitale, interessata ai diritti civili e disponibile ad un interventismo sia pure mitigato; la seconda – ben presente tra le fila dei repubblicani – nazionalista (anche se negli Stati Uniti il termine più appropriato sarebbe “territorialista”, riferendosi alle tradizione dei singoli Stati se non addirittura delle stesse Contee e dei distretti locali), depositaria del profondo ruralismo così di molti aspetti della subcultura dei Blue Collars, industrialista e disponibile a concedere maggiori diritti sociali a patto che introducano distinzioni di destinazione su base etnica nonché insolazioni sui temi della politica internazionale.

Attualmente il Grand Old Party è composto da diverse correnti, perlopiù non organizzate o strutturate in modo continuativo. La transitività e le contaminazioni di pensiero e militanza tra di esse è quindi una prerogativa diffusa. Al tradizionale conservatorismo (dove si incrociano le posizioni che perorano la riduzione della spesa pubblica con quelle che rimandano all’universo di valori e significati strettamente tradizionalisti: rifiuto del multiculturalismo, rimando all’autonomia individuale, centralità dell’impresa, enfatizzazione del localismo), si affianca, e a volte si contrappone, il radicalismo populistico del Tea Party, che si è spinto a raccogliere alcune delle posizioni tradizionalmente diffidenti nei confronti dell’amministrazione federale; all’ideologia teocon (contrazione di «Theoconservative», quindi anche Theocon), che identifica nella religiosità il fondamento dell’agire politico (quindi i movimenti di radice evangelica, il mormonismo, il cattolicesimo preconciliare ma anche alcune componenti ultraortodosse dell’ebraismo) si appoggiano i gruppi delle destra militante, quella nazionalpatriottica, che rivendica il diritto alla sovranità territoriale sulla base dell’auto-organizzazione armata (come nel caso delle milizie presenti in alcuni Stati) e sul rifiuto di ogni forma di integrazione degli immigrati; ai libertari, di fatto anarchici di destra che cercano una rappresentanza politica che li svincoli dal potere federale e statale, rifacendosi quindi alla centralità del mercato, si incrociano i comunitaristi (che esaltano le virtù delle società locali), i nativisti (che riconoscono la sola cittadinanza dello ius soli), i naturalisti (legati ad una lettura teologica che si rifà alla centralità della «famiglia naturale») ed infine il vecchio conservatorismo, che invece si riconosce in programmi che coniugano ciò che resta della politica di potenza mondiale con un isolazionismo di ritorno sempre più accentuato.

I neoconservatori, in più di un caso ex liberali di sinistra che hanno dato corpo all’interventismo repubblicano dopo l’11 settembre, è forse il gruppo che, a partire dalla presidenza Obama, con il significativo prosieguo di quella Trump, ha subito i maggiori contraccolpi, esprimendosi peraltro apertamente contro l’Amministrazione uscente. Detto questo, la lista di gruppi, sensibilità e aggregazioni – in realtà – è molto più lunga. Rimane esclusa, infatti, una grande parte del corpo elettorale repubblicano, il quale non si riconosce nelle posizioni più estreme, puntando invece ad un ipotetico centro. Si tratta di un ampio ventaglio di posizioni che trovano il loro punto di equilibrio coniugando le collocazioni tradizionalmente più diffidenti verso l’intervento pubblico (riconoscendosi quindi in posizioni a favore del taglio delle tasse e per la riduzione del budget federale) con atteggiamenti maggiormente aperti al riconoscimento dei diritti civili e al pluralismo socioculturale. Su tutti gli altri gruppi di questo vasto arcipelago aleggia ancora un notevole conservatorismo sociale, che continua a conferire alla cosiddetta «destra cristiana»(sostanzialmente omofoba, antiabortista, fondata su una visione rigidamente morale dell’azione politica nella sfera pubblica e sulla diffidenza nei confronti di chiunque non condivida una tale piattaforma) una rilevante primazia di rappresentanza. Donald Trump, rispetto a questo variegato coacervo di idee, posizioni ma anche atteggiamenti e stili di condotta, è intervenuto con la potenza dell’attore politico vitalista. Tale poiché in grado di piegare qualsiasi discorso pubblico alla sua figura personale, spesso controversa e, come tale, apprezzata da quanti riconoscono nel suo modo disinvolto non un limite alla democrazia rappresentativa ma, piuttosto, un suo superamento attraverso il rapporto di identificazione diretta tra collettività e leadership carismatica. In questo, il “trumpismo” non è per nulla consegnato al passato, candidandosi semmai ad essere l’antagonista della nuova presidenza, della quale, per l’appunto, ha già dichiarato l’«illegittimità». Presente e a venire.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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