Cultura
Un romanzo israeliano in lingua italiana: “Resta ancora un po’” di Ghila Piattelli

Al centro della scena c’è la famiglia. Una famiglia apparentemente modello, genitori di successo, più che benestanti, tre figli, ma in realtà disfunzionale, attraversata da segreti e da silenzi laceranti…

Si può scrivere un perfetto romanzo israeliano in una lingua che non sia l’ebraico? Sembrerebbe impensabile, data l’assoluta centralità che l’esperienza anche linguistica riveste nella narrazione di Israele e della sua storia. Eppure col suo romanzo d’esordio, Resta ancora un po’ (casa editrice La Giuntina), Ghila Piattelli ci è riuscita.

Ghila Piattelli è nata a Roma nel 1973, si è trasferita nello Stato ebraico nel 1992 e là è ritornata in maniera definitiva nel 2009, dopo alcune parentesi italiane. Oggi lavora come traduttrice e insegnante d’italiano. In effetti, in questo sorprendente romanzo c’è molto dell’Italia, soprattutto nell’incantevole personaggio della nonna Giuditta, ebrea fiorentina trapiantata nella Terra dei Padri per amore, ma soprattutto c’è Israele, con la sua vitalità inebriante. E con le sue tragedie.

Come in ogni romanzo israeliano che si rispetti, al centro della scena c’è la famiglia. Una famiglia apparentemente modello – genitori di successo, più che benestanti, tre figli – ma in realtà disfunzionale, attraversata da segreti e da silenzi laceranti. Che cosa nasconde Ahuva, la madre, nella distanza che si ostina a porre tra se stessa e il mondo che la circonda? Che cosa cela il freddo che la divora, ormai da decenni? Ne cogliamo i riverberi già dall’esergo iniziale, una citazione dal lamento del re Davide in morte del re Saul e di Yonatan, un testo poetico che nella cultura israeliana è parte dei rituali del lutto e della commemorazione dei soldati morti in guerra: “Come sono caduti i prodi sul campo di battaglia! Yonatan caduto sulle tue alture”. La chiave delle vite dei protagonisti sta tutta in questo nome: Yonatan. C’è stato uno Yonatan nella vita di Ahuva, un primo amore travolto dalla crudeltà della storia e mai dimenticato. Ma la condizione di Ahuva travalica l’esperienza della semplice memoria. Se, infatti, nella giornata del ricordo dei caduti di Tzahal la sirena che risuona per le strade di Israele arresta il traffico e le vite dei cittadini per due minuti, il dolore della perdita congela Ahuva in ogni istante, da quel profumato pomeriggio di ottobre del 1973, quando il suo Yonatan ha dovuto partire in fretta, lasciando le loro vite a metà.

E poi c’è un altro Yonatan o, meglio, c’è uno Yoni, il figlio di Ahuva, una sorta di candela della memoria inconsapevole, che porta il peso dell’estraneità materna. Yoni è un ragazzo confuso in molti ambiti della sua esistenza, vive con un coinquilino, Ittai, e ha una fidanzata, Noga. Ma è soprattutto con la nonna, Giuditta appunto, che intrattiene il rapporto di maggiore vicinanza. Giuditta, che sul nipote riversa quell’amore di cui Ahuva non è stata capace, in una maniera che il ragazzo, però, percepisce come ingombrante. “Se avessi potuto scegliere fra tutti i bambini del mondo, sempre, ovunque e comunque, avrei scelto te”. Yoni cresce con il faticoso mantra dell’elezione, non comprendendo probabilmente che la nonna cerca di colmare così le voragini affettive lasciate dalla figlia sul proprio cammino. Tra tutti gli Yonatan del mondo quale avrebbe scelto Ahuva? Forse, dolorosamente, non il figlio.

Giuditta, che nell’aspetto assai curato e nelle abitudini evoca a ogni passo le origini italiane, costringe Yoni ad accompagnarla in un tour dei cimiteri d’Israele, con la scusa di scegliere la propria dimora eterna. Un’altra volta, però, è l’amore che genera in Giuditta questa bizzarra idea, insieme al desiderio di “restare ancora un po’” – parafrasando il titolo del romanzo – accanto a Yoni, della cui vita conosce le molte ombre. Grazie alla vivacità di Giuditta, il viaggio assume tratti spesso comici, in particolare quando alla coppia nonna-nipote si aggiungono Ittai e Noga, creando una strampalata carovana di voci e di storie. Tra la generazione dei fondatori dello Stato, incarnata ovviamente da Giuditta, e quella dei più giovani si crea un legame solido, autentico, laddove i genitori si perdono nei labirinti delle rispettive infelicità. Ciò non è vero soltanto per Ahuva, ma anche per il marito, Zvika, che ama la moglie in modo profondo, quasi infantile, pur sapendosi non ricambiato.

Al termine del cammino, Resta ancora un po’ è soprattutto un romanzo sull’amore, che ha il pregio straordinario di non essere mai sentimentale. Con una scrittura garbata e ironica Ghila Piattelli riesce a raccontarci i mille volti dell’amore. Quello puro, che si sceglie perché si riconosce nell’altro una parte di stessi, come avviene tra Giuditta e Yoni. Quello che si nutre di sorrisi e di sguardi rubati. Quello che ci forgiamo come eterno, cui ci aggrappiamo per rabbia, per paura o per disperazione. Del resto, qualunque forma abbia l’amore che ci troviamo tra le mani, la preghiera che sale alle nostre labbra è soltanto una. Ed è una preghiera fatta di poche parole, semplici come il pane di ogni giorno: “resta ancora un po’”.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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