Hebraica
Che significa essere ebrei #5

Sette voci concludono la nostra indagine identitaria a puntate

Ultimo atto di un’inchiesta che forse potrebbe andare avanti all’infinito: cosa significa essere ebrei? Le risposte sono delle più varie, tutte decisamente interessanti per chi prova a indagare le questioni identitarie. Ne faremo altre, magari per parlare di identità, senza altre declinazioni: l’argomento è attuale e molto importante: pro o contro lo statuto dell’identità?

Nel frattempo, però, ecco le risposte di sette persone. Molto diverse tra loro…

Cosa significa essere ebreo?

Stefano Jesurum: Ho passato buona parte della mia esistenza a cercare questa risposta e a tentare – temo invano – di farmi comprendere e far comprendere la complessità della questione agli altri. Ho scritto articoli, ho letto moltissimo, ho intervistato e interrogato, prodotto qualche libro, parlato, studiato, discusso quasi all’infinito. Restano indelebili nel mio cuore e nel mio profondo due episodi che probabilmente aiutano se non a capire almeno a rendere l’idea. Un giorno di parecchi anni fa, il caro amico e per certi versi bussola di letture Guido Lopez, mi propose un “gioco”. «Prendi un grande foglio bianco» disse «e adesso scrivi, così come ti vengono in mente, tutte le cose che “ti senti”…». Ero giovane e iniziai a buttar giù, sotto il suo sguardo furbo, disincantato, intelligente, ironico, una serie di dati (il più possibile sinceri e di conseguenza tra loro a volte contrastanti): italiano, ebreo, milanese, milanista, comunista, timido, testone, pigro, curioso, indelebilmente figlio della Shoah, un poco “fighetto”, piuttosto basso, fumantino, non brutto anzi abbastanza bellino, coraggioso, fumatore, per nulla sportivo. Alla fine il foglio era praticamente ricoperto di definizioni. «Bene», disse Guido sorridendo, «adesso cancella con calma, senza fretta, ciò che ti pare meno importante di altro». Righe di matita tracciate, pensandoci bene, su una parola, su un’altra, qualche ripensamento, e ancora cancellature. Che fatica! Alla fine, ne rimase una. «Ecco, vedi?», sentenziò Guido, «tu sei visceralmente, irrimediabilmente, profondissimamente ebreo. D’altronde lo sapevo». Il secondo ricordo è dell’età matura. La notte prima di un importante passaggio in sala operatoria. È vero: rivedi un po’ l’intera vita. Tentazione di recitare lo Shemà Israèl. «Ma no, dai, non preghi mai, è irrispettoso verso l’Onnipotente se esiste». E a darmi forza e serenità scorrono inattese quanto improvvise le immagini delle schiene e delle nuche di chi sta davanti al mio posto al Tempio. La mia gente. Il mio popolo. I miei ebrei. Ebrei come me.

Raymond Shama: Essere ebreo significa condividere un patrimonio culturale e di tradizioni comune a qualsiasi ebreo nel mondo in cui la religione è parte della nostra identità; non importa quanto distanti siano gli spettri religiosi e politici, condividiamo un legame comune che ci unisce in termini di come ci relazioniamo tra di noi e verso il mondo esterno. I momenti di conferma della mia identità avvengono quando incontro un altro ebreo che viene dal paese più remoto del mondo, ma con il quale condivido la maggior parte delle nostre storie famigliari e le vicissitudini quotidiane come se venissimo dallo stesso quartiere.

Silvia Godelli: Io mi sento ebrea. Da sempre. E cioè sento che le mie radici, quelle più profonde, quelle costitutive del mio essere, derivano da un passaggio intergenerazionale di valori, di cultura, di etica, di sentimenti e di giustizia che sono quelli dell’ebraismo. E questo patrimonio mi aiuta anche a sopportare e ad elaborare la trasmissione emozionale dei traumi che hanno segnato la mia famiglia di origine. Sono orgogliosa del mio ebraismo e mi sento vicina a Israele, dove ho vissuto e lavorato per alcuni periodi della mia vita e dove ho tutti i miei parenti di parte paterna.

Thomas Lay: Sono molto orgoglioso di essere ebreo, almeno per due motivi. Primo, perché questa appartenenza determina le mie scelte quotidiane. Gli ebrei hanno un ruolo: sono obbligati a combattere l’antisemitismo e io, da ebreo e creativo, ho scelto di farlo con la mia arte: disegno manga ebraici. La scelta di un linguaggio così stereotipato, semplice e ultra pop unito alla simbologia ebraica è un modo per mostrare ai giovanissimi cosa sia l’ebraismo, è un avvicinamento che può stimolarli alla conoscenza. A livello umano, penso di essere fortunato: non avrei mai avuto accesso a una parte di storia umana così interessante, altrimenti.

Bianca Ambrosio: L’essere ebrea è per me una componente imprescindibile e “naturale” della mia persona. Così come sono donna, italiana, con gli occhi castani e i capelli bruni, così sono ebrea. Sono ebrea perché sono nata e cresciuta in una famiglia ebraica, la cui storia, tradizioni, valori e umorismo sono legati alla cultura ebraica dell’est Europa.

Federica Astrologo: Essere ebrea per me è passare il venerdì sera in famiglia e andare al tempio per le feste, ma è soprattutto cercare di essere una brava persona nelle mie azioni quotidiane, seguendo i principi etici trasmessi dalla mia famiglia. Credo in Dio, ma ciò che mi smuove dentro e che mi fa dire con felicità e orgoglio di essere ebrea è il fatto di avere delle tradizioni di famiglia molto forti e radicate da generazioni.

Eva Mangialajo Rantzer: In generale è un dato di fatto, determinato da norme condivise e che comporta il legame con la Torà, il popolo ebraico, la sua storia, e la Terra di Israele. Sul piano personale è la sensazione di pienezza nel constatare di appartenere ad una tradizione ricca ed articolata da cui trarre insegnamento, guida e nutrimento. Essere ebrea è il legame che mi è stato tramandato da una parte della mia famiglia, con racconti e ricette, insegnamenti e aspirazioni. Essere ebrea è anche una sfida che ho scelto e scelgo ogni giorno, un percorso per mezzo di studio e discussione, osservanza e domande. Nella partecipazione alla vita della mia comunità ma anche operando nel più vasto mondo.

Una questione identitaria. Fondata su che cosa?

Stefano Jesurum: Su tutto e su niente. Famiglia, famiglie, tradizioni, storia, storie. Parole, amiche e sentinelle della continuità ebraica, anzi dell’unicità ebraica. Una sorta di DNA psicofisico. Quello per cui in sinagoga il giorno di Kippùr o a tavola al seder di Pesach, senti di avere accanto, letteralmente vicini, i tuoi cari che non ci sono più, e anche quelli che non hai conosciuto ma di cui ti hanno raccontato. Per esempio quando cantiamo Neilà o ascoltiamo la Bircàt Cohanìm, chi hai amato e non c’è più è lì, in un grande cerchio sotto un enorme tallèt, e ti stringi a chi hai conosciuto da bambino e poi è scomparso, a chi è stato cancellato dalla Shoah e di cui ti è stato narrato, agli avi di cui magari hai soltanto letto in qualche libro. A coloro di cui non sai nulla eppure sono te, parte di te. Proprio come ha scritto la studiosa Anne Ancelin Schützenberger, in La sindrome degli antenati – Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico: il mistero-che-mistero-non-è; cioè che siamo semplici anelli in una catena di generazioni. Midòr ledòr.

Raymond Shama: Non è solo una questione identitaria ma anche religiosa, due aspetti che si muovono insieme e si supportano come i remi di una canoa. Per andare avanti bisogna muovere entrambi i remi; esistono persone che muovono più un remo che l’altro e così facendo non riescono davvero ad andare avanti e solo con la consapevolezza ed il rispetto verso questi due aspetti che si può pensare di navigare il fiume.

Silvia Godelli: L’identità ebraica è complessa: tradizione religiosa, valori laici, cultura, sentimento di appartenenza, memoria delle persecuzioni, amore per Israele si intrecciano in modo inestricabile, e danno fondamento a un sentire comune che lega gli ebrei ovunque essi siano, nonostante le tante differenze storiche, sociali e culturali.

Thomas Lay: Per me, l’identità ebraica è la normalità. Una normalità che mi sostiene e con cui mi confronto nel mio essere ebreo nelle azioni con gli altri. Credo in un’ebraicità vissuta in maniera naturale, sapendo che non siamo conosciuti da chi ebreo non è. La mia è una battaglia contro l’antisemitismo che a livello filosofico diventa salvaguardia di una cultura straordinaria. E questo, per me, è uno stimolo molto interessante.

Bianca Ambrosio: Da un punto di vista identitario, il mio essere ebrea si manifesta tramite l’osservanza, seppur laica, delle feste ebraiche secondo le tradizioni della mia famiglia e più in generale tramite interessi culturali, quali ad esempio la conoscenza e l’amore per la lingua ebraica, piccoli aneddoti, storielle e modi di fare che fanno parte della storia dei miei antenati, il desiderio di approfondire determinati temi storici, politici e culturali e non ultimo il legame profondo, seppur complesso, con Israele. D’altra parte credo che sia proprio l’identità ebraica che caratterizzi il mio senso di “non appartenenza” ad alcuna nazione, dovuto alla natura errante del nostro popolo, e al misto di tradizioni e culture che si intersecano nella storia della mia famiglia e di tutto il nostro popolo.

Federica Astrologo: L’ebraismo è una questione identitaria perché pur essendo una semplice parte di ciò che si è, questa influenza tutta il resto, i rapporti con le altre persone, le abitudini alimentari, il modo di pensare. È parte della mia identità perché non potrei immaginarmi non ebrea, questo è ciò che caratterizza il mio essere. Inoltre, credo che rientrino nell’identità  di ogni persona la storia della propria famiglia e quella degli antenati. Quindi, l’aspetto storico, millenario, del popolo ebraico non è da sottovalutare.

Eva Mangialajo Rantzer: La questione identitaria si articola su vari livelli, e si manifesta poi sul piano dell’agire tenendo conto anche di elementi variabili. Mi riconosco come ebrea in virtù di una tradizione familiare, di un’educazione all’osservanza, gestualità e narrazione, nelle modalità di studio, nell’etica, e nella cultura, attraverso il pormi continuamente domande più che darmi risposte e nel cercare di agire in conformità a dei princìpi.

Dentro o fuori dalla comunità e perché? Ovvero, il senso di appartenenza serve a costruire l’identità ebraica?

Stefano Jesurum: Di una cosa sono assolutamente certo: senza kehillà non esiste ebraismo. O meglio: può anche esistere, però avrà vita brevissima. Poi si può discutere – e lo facciamo, direi – su quale comunità, quali regole, quali rapporti tra ebraismi. A mio avviso, gli unici veri, reali, non mitologici pilastri della nostra identità sono la sinagoga (per chi ha fede), la scuola, una dose di vita comunitaria, l’osservanza di una quota grande o piccola che sia di mitzvòt (ma che testimoni rigidamente a se stessi la propria appartenenza). E, alla fine, la Casa dei Vivi, il cimitero.

Raymond Shama: Dentro la comunità. Per quanto ci troviamo in disaccordo su tanti aspetti di quest’ultima, non si può negare che essere cresciuto in una comunità ebraica mi ha consentito di espandere e fortificare le mie radici ebraiche, grazie al continuo confronto con varie realtà all’interno di essa. Il senso di appartenenza serve a far sentire che non siamo soli in questo mondo ma che ci sono altre persone che condividono determinati valori ed esperienze. L’uomo è un animale sociale e, da sempre, sentirsi parte di un gruppo rafforza il proprio Io e quello degli altri membri del gruppo.

Silvia Godelli: Non sono iscritta a nessuna Comunità perché sono di madre cattolica. Ma ho assai spesso collaborato con l’UCEI per iniziative culturali e istituzionali e cerco di mantenere tutti i contatti possibili.

Thomas Lay: Sono cresciuto a Cagliari dove non c’era vita comunitaria. Io e mio fratello studiavamo per corrispondenza: la Comunità di Roma ci mandava libri e compiti per posta e noi facevamo altrettanto aspettando le correzioni… Il nostro ebraismo si declinava in maniera libera (e anche un po’ selvaggia). Poi, da adulto, ho scelto di essere reform. Sono contrario a qualsiasi imposizione obbligatoria. Sono di sinistra, gay e ebreo. Sono per la lotta, ma non per l’invasione. Sono per il pride perché dobbiamo far sentire la nostra voce, ma sono contrario a qualsiasi crociata…

Bianca Ambrosio: Penso che ogni ebreo debba essere libero di scegliere se e in che modalità far parte di una comunità senza che questo influisca sulla sua identità ebraica. Ci sono individui che definiscono la propria identità ebraica tramite la partecipazione attiva alla vita comunitaria, altri che mantengono viva la propria ebraicità senza bisogno di relazionarsi con la comunità. Credo che sia anche questo ibrido tra senso comunitario e desiderio di mescolarsi alla cultura circostante che abbia caratterizzato negli anni l’identità ebraica. Per quanto mi riguarda, direi che mi colloco sulla soglia della comunità, nel senso che non mi trovo né dentro né fuori. Riconosco il valore e l’importanza dell’esistenza di una comunità che porti avanti, conservi e alimenti la nostra identità collettiva e allo stesso tempo mi piace pensare che l’ebraicità sia solo uno dei vari aspetti della mia identità ed è importante per me mantenere la libertà di guardare e relazionarmi al mondo anche al di fuori di essa.

Federica Astrologo: Il senso di appartenenza sicuramente serve a costruire l’identità ebraica, ma per me si tratta di più di un’appartenenza a qualcosa di molto grande, e non alla comunità dove si risiede. Circa 6 anni fa partecipai ad un seminario europeo dell’Hashomer Hatzair in Bulgaria, ricordo che lì una sera capii cosa significasse per me essere ebrea. Eravamo più di 150 persone in cerchio a cantare, uniti solo dal fatto di essere ebrei. Mi resi conto di far parte di qualcosa, e che condividevo tanto con persone che però erano sconosciute, ma legate perché ebree. È la sensazione di incontrare un estraneo nel mondo, sapere che è ebreo e sentire una connessione. Un filo che ti lega.

Eva Mangialajo Rantzer: Essere ebrei in relazione agli altri, al popolo, alla terra, alla Torà, determina variabili che per intensità e modalità portano a varie tipologie di organizzazione. Tuttavia la comunità, cui dedico tempo ed energia, mi definisce solo in parte, o meglio, la comunità non è il solo ambito in cui vivo il mio essere ebrea.

Ci si può sentire ebrei senza esserlo?

Stefano Jesurum: Ovviamente non lo so, io sono ebreo. E la mia risposta nasce per forza da esperienze personali e quindi non generalizzabili. Conosco donne e uomini che hanno sposato o comunque deciso di condividere la propria vita con ebrei/ebree. Spesso hanno anche procreato e, quasi sempre i figli, si è o si sarebbe voluto fossero ebrei. Senza dare alcun giudizio per ogni singola decisione (davvero!), ammetto di avere una stima immensa per mogli/mariti che non si sono convertiti, che non hanno fatto il ghiùr, considerandolo un atto che deve dipendere da una reale fede, che loro non hanno. Queste “eroine” e “eroi” hanno in sostanza allevato i figli ebraicamente (certo, in una visione generalmente “laica” del termine), spesso hanno studiato a lungo, hanno condiviso gioie e dolori di un essere “a parte” e talvolta in pericolo. Non di rado (se donne) conservano gelosamente tradizioni e abitudini ereditate dalle proprie suocere, “si sentono” ebree ed ebrei nei fatti, ma difficilmente ti diranno che è come se lo fossero. Perché, proprio avendo “capito” a fondo, sanno di non esserlo e non ci tengono a spacciarsi o a passare per tali. Gli “basta” che lo siano i figli.
Insomma, ci si può sentire ebrei senza esserlo? Mi riesce ostico pensarlo, ma veramente non lo so. E, come mia abitudine, diffido da chi abbia risposte immarcescibili. Chissà…

Raymond Shama: Ci si può sentire ebrei? E’ una domanda con troppe sfaccettature. Ebrei come tradizioni? Credenza nelle mitzvot? Appartenenza ad un popolo? Qualsiasi sia la risposta credo che uno degli aspetti che mi affascina di più dell’ebraismo sia la contrapposizione tra una visione astratta, mistica ed una visione concreta dettata da leggi e regole normative contenute ad esempio nel Shulchan Arukh. La libertà non deriva dal poter far tutto ma dalla scelta di privarsi di qualcosa. Credo che ognuno possa sentirsi come desidera e debba aver la possibilità di scegliere il proprio percorso, ma rispettando le regole che ci rendono Uomini.

Silvia Godelli: Ci si può sentire pienamente ebrei pur avendo una madre non ebrea oppure, in altri casi, avendo una ascendenza marrana. Sentirsi ebrei vuol dire essere profondamente attraversati da un inconfondibile, e irrinunciabile, sentimento di appartenenza.

Bianca Ambrosio: Immagino di sì, che ci si possa riconoscere in dei “valori ebraici” o in un certo modo di pensare e comportarsi, ma è una domanda a cui faccio fatica a rispondere in quanto è una realtà che conosco poco.

Federica Astrologo: Come dicevo, il mio sentirmi ebrea è fortemente legato alle tradizioni di famiglia ed ai principi ebraici che mi sono stati trasmessi dai miei nonni e dai miei genitori. Quindi, sotto questo punto di vista è difficile pensare di sentirsi ebrei anche senza esserlo. Possono esserci delle particolari situazioni in cui non è possibile definire una persona ebrea perché la mamma non lo è, ma è comunque cresciuta secondo valori ebraici, quindi in quel caso è come se lo fosse.

Eva Mangialajo Rantzer: Certo, ci sono persone che dicono di sentirsi ebrei pur non essendolo, ma a me sembra un punto di partenza, in genere poi si arriva ad un momento in cui serve una spinta ulteriore, un cambio di passo e una scelta di campo. Perché essere ebrei implica anche e soprattutto il fare.


3 Commenti:

  1. Buongiorno,

    mi permetto di intervenire riportando la mia esperienza.
    Sono di origini ebraiche da parte di nonna materna, anche se tali origini sono remote e ormai rare le fonti a cui attingere per poterle approfondire.
    Anche prima di venire a conoscenza di tale fatto, fin da piccola, in cuor mio, mi sono sempre sentita ebrea e attratta dal mondo e dalla cultura ebraica.
    Quando sono venuta a conoscenza di tali origini, ho ricevuto una conferma del mio innato senso di appartenenza.
    Sta di fatto che “mi sento ebrea” pur non essendolo in modo ufficiale.
    Ho conosciuto anche altre persone che vivevano lo stesso sentimento, una delle quali si è convertita.
    Vi ringrazio dell’attenzione.
    RV

  2. Essere Ebreo vuole dire fare parte del popolo ebraico. E per me si riassume così:
    1- Conoscere le sue tradizione, la sua storia i suoi libri.
    2- sentirsi ebreo, con il cuore, con la pancia. Sentire le gioia e le tristezza del nostro popolo
    come se fosse capitato a te.
    3- trasmettere ai tuoi figli, alla prossima generazione le tue conoscenze sul nostro popolo e il tuo amore per lui.

    Quindi per me, È EBREO CHI HA UN FIGLIO EBREO, Perché significa che le conoscenze (1) amore del Nostro popolo (2) et la volontà di trasmettere (3) per perpetuare la vita ebraica.

  3. Essere Ebreo vuole dire fare parte del popolo ebraico. E per me si riassume così:
    1- Conoscere le sue tradizione, la sua storia i suoi libri.
    2- sentirsi ebreo, con il cuore, con la pancia. Sentire le gioia e le tristezza del nostro popolo
    come se fosse capitato a te.
    3- trasmettere ai tuoi figli, alla prossima generazione le tue conoscenze sul nostro popolo e il tuo amore per lui.

    Quindi per me, È EBREO CHI HA UN FIGLIO EBREO, Perché significa che ha le conoscenze (1) , L amore del Nostro popolo (2) et la volontà di trasmettere (3) per perpetuare la vita ebraica.


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