Cultura
Chi era Martin Walser? Un ritratto dello scrittore davanti alla Shoah

La Germania, la memoria e una questione aperta: cosa significa non dimenticare?

È scomparso recentemente Martin Walser. Era considerato uno dei maggiori romanzieri tedeschi del dopoguerra alla stregua di Gunter Grass o Heinrich Boll. “Geniale e provocatorio”, secondo i media del suo paese, fece scandalo alla fine degli anni ’90 quando ammise di averne abbastanza della “rappresentazione permanente” del passato nazista, innescando un enorme dibattito in merito agli orrori della memoria del Terzo Reich. In particolare, Walser aveva dichiarato di “distogliere lo sguardo” quando i crimini nazisti venivano trasmessi in televisione e denunciava una “strumentalizzazione di Auschwitz per scopi attuali”, una “mazza morale” che sarebbe stata costantemente brandita contro la Germania. Accusato di voler reprimere il passato nazista, cercò di minimizzare le sue affermazioni pur continuando a sostenere che una ripetizione costante della visione di questi crimini ne banalizzava l’orrore.

Nel 2002, tornò di nuovo al centro di un nuovo scandalo quando in Morte di un critico, attaccò il critico letterario più famoso della Germania, Marcel Reich-Ranicki, ebreo sopravvissuto al ghetto di Varsavia, con dichiarazioni che lo fecero sospettare di antisemitismo. Dai documenti dell’archivio centrale del partito nazista nel frattempo era risultato che entrò a far parte di quest’ultimo nel gennaio 1944, fu di fatto un soldato dell’esercito tedesco. Il capo della comunità ebraica berlinese all’epoca, Ignatz Bubis, all’uscita del libro, lo definì un “piromane intellettuale”. In realtà queste sono notizie che non fanno più scalpore e non ci stupiscono ormai più di tanto. Non è un mistero che molti uomini di cultura tedeschi abbiano avuto un passato oscuro, siano stati affascinati dall’idea, a loro dire, anti-borghese, espressa dal nazionalsocialismo. Gunther Grass ad esempio si arruolò nelle SS; molti politici che dopo la guerra ottennero cariche in parlamento avevano alle spalle una connivenza con il nazismo, solo che furono attenti a occultarla. Gli scheletri nell’armadio erano conservati in files criptati negli archivi della Berlino est. Fino agli anni ’70 la Germania non affrontò collettivamente, a livello di nazione, la propria responsabilità nel genocidio. Ci vollero una serie televisiva “Holocaust” e molti processi pubblici a criminali della Wermacht perché il popolo prendesse coscienza delle atrocità commesse e iniziasse un processo di vera elaborazione.

Casomai è interessante sottolineare come il modo in cui in Germania si guarda la Shoah stia progressivamente cambiando. L’antico senso di colpa, la tarda consapevolezza raggiunta dal paese, il tentativo di ricostruire faticosamente un’immagine e una nuova identità agli occhi dell’Europa ora sembrano fatti passati.
Intanto viene usata la parola olocausto per descrivere qualunque genocidio; la Shoah ha perso il primato, la sua unicità. La parola può riguardare le stragi in Ruanda come l’uccisioni di specie animali in Alaska o la distruzione delle foreste in Brasile. Stragi umane, ma anche legate all’ambiente. Soprattutto le generazioni più giovani vogliono marcare il concetto che anche i tedeschi hanno sofferto per la guerra in quanto vittime civili, con milioni di case distrutte dai bombardamenti alleati. Non hanno forse perso la vita tra le macerie molte donne e bambini innocenti? (Si potrebbe loro obbiettare che lo stesso è avvenuto ad Auschwitz). Con il passare del tempo, dalla fine degli anni ’ 90 in poi,  è permesso dire in pubblico cose che prima sarebbero state censurate. Assistiamo a una riscoperta di scrittori oscurati e appaiono  molte serie tv, libri e articoli dove i tedeschi sono presentati come vittime o comunque sono costretti a pagare il prezzo di un senso di colpa eccessivo e lacerante, arrivando perfino all’intenzione di farsi impiantare un membro maschile “ebraico” per completare la loro trasformazione e redenzione, come nel recente “L’appuntamento” della giovane Katharina Volckmer. Al contrario dell’Austria che ha sempre sostenuto di essere soltanto un paese occupato eludendo quindi qualsiasi responsabilità diretta, la Germania non si è mai tirata indietro rispetto alla sua eredità morale e sostegno del Terzo Reich. Ma in tanti sono sempre più favorevoli a quello che scrive Martin Walser: perchè non ci lasciano in pace una buona volta?

La questione è complessa e riguarda tutti noi: dobbiamo voltare pagina o corriamo il rischio di dimenticare? La Germania riuscirà mai ad affrancarsi dal suo passato, per quanto formalmente abbia fatto ammenda, nonostante i documentari educativi che Walser tanto disprezzava mandati a ciclo continuo in televisione, il Memoriale della Shoah e le commemorazioni ufficiali?
Amos Oz in un’intervista affermò che gli autori tedeschi che aveva letto lo avevano stimolato a mettersi nelle loro scarpe, perché è questo che deve fare uno scrittore ed è questo che la scrittura deve essere: un forte antidoto al fanatismo e all’odio, di qualunque tipo.
Nello stesso tempo non negava il disagio di visitare la Germania e parlava del fastidio che lo portava a evitare con lo sguardo le persone di ottant’anni a meno che non fossero state dei socialisti: ma come si fa a riconoscere un socialista dalla faccia? obbiettava poi immediatamente dopo.
Un altro scrittore e drammaturgo, George Tabori, nonostante il padre morto ad Auschwitz, decise di andare a vivere e lavorare in Germania dove i suoi testi incontrarono molti successi teatrali  A chi gli chiedeva come facesse ad abitare nella stessa patria  di persone che avevano deciso il genocidio degli ebrei, compresi i suoi familiari, rispondeva che tali generalizzazioni potevano solo condurre a una china pericolosa, alla stessa filosofia che aveva portato a Auschwitz e Hiroshima: considerare le persone non nella loro unicità e differenza ma come massa anonima, numeri. Però, quando chiesero agli intellettuali che vivevano a Berlino di dare il loro sostegno per la costruzione di un museo della Shoah, lui non firmò. Sostenne che i tedeschi non avevano bisogno di ulteriori pietre e monumenti per ricordare, ma di una lunga digestione del male nelle loro budella, confrontandosi con i loro demoni visceralmente. E fu proprio questo il lavoro che intraprese con gli attori e il pubblico  nelle messinscene dei suoi testi, conducendoli gentilmente ma con fermezza in un processo di masticamento e di incontro con “il Fuhrer che è dentro di noi”. In uno dei suoi testi più famosi, Mein Kampf, analizza proprio il rapporto ambiguo, morboso, che ha sempre legato tedeschi e ebrei. “Hitler e il suo ebreo: una storia d’amore” si leggeva come sottotitolo nel programma di sala. Un amore che ovviamente non può sfociare nell’odio e nella distruzione dell’oggetto del desiderio, come avviene infatti nell’opera citata.
Tabori divenne un guru, ancora oggi ricordato e celebrato, molti anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2007, dal Berliner Ensemble e dalle massime istituzioni in Germania. Eppure, tuttavia, era solito ripetere, con il suo solito umorismo caustico, una frase piuttosto indicativa quando veniva interrogato sulla questione della memoria: “I tedeschi non hanno mai perdonato noi ebrei per la Shoah”.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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