Cultura
Come si misura l’identità del popolo ebraico nella globalizzazione

Gli ebrei, nel loro essere un «popolo mondo», in grado di preservare un proprio nocciolo profondo, costituiscono la conferma che muoversi, insediarsi, relazionarsi, conoscersi e rapportarsi gli uni agli altri sono il fuoco dell’esperienza umana

Partiamo dai dati che, a loro volta, non sempre sono così certi. Quanti sono gli ebrei nel mondo? Per il 2020 il numero complessivo stimato si aggirava intorno ai 15,2 milioni di individui, con un aumento di 100mila persone rispetto all’anno precedente.

Attualmente, 8,2 milioni di ebrei vivono fuori da Israele, perlopiù negli Stati Uniti (6 milioni complessivi). Gli altri paesi con un elevato numero di ebrei sono la Francia (446.000), il Canada (393.500), la Gran Bretagna (292.000), l’Argentina (175.000), la Russia (150.000), la Germania (118.000) e l’Australia (118.000). Negli Stati arabi e musulmani attualmente ne vivono 27mila, la maggioranza dei quali in Turchia (14.500), in Iran (9.500), in Marocco (2mila) e in Tunisia (un migliaio circa).  A sua volta, l’Israel Central Bureau of Statistics (ICBS), l’istituzione che elabora ed aggiorna i dati in materia per Israele, indica per la fine del 2021 la presenza di una popolazione nazionale stimata in 9.391mila individui, con un aumento rispetto all’anno precedente dell’1,6%. I 10 milioni dovrebbero essere superati entro la fine del 2024. Attualmente il Paese raccoglie il 45,3% dell’ebraismo mondiale.

Nell’ultimo anno ebraico vi sono nati 172mila bambini e sono decedute 48mila persone, di cui 5.800 per il Covid. La popolazione d’Israele comprende 6,94 milioni di ebrei, quasi due milioni di arabi e 466mila persone appartenenti ad altri gruppi. Le cifre assolute variano tuttavia in base al modo in cui si fanno i calcoli rispetto alla territorialità : dovrebbero infatti comprendere almeno 200mila israeliani residenti a Gerusalemme Est, calcolati nelle sue indagini demografiche dall’ICBS ma non in altre serie statistiche, insieme ad altri 421.400 elementi insediatisi nei Territori. Di questi ultimi, sono computati quanti vivono nella cosiddetta area C della Cisgiordania,  quella sotto il controllo israeliano.

Rispetto al 1950, quando gli israeliani erano 1.370mila, già nel 2018 la popolazione era aumentata di almeno sei volte e mezza. Il tasso di crescita annua è oggi del 2%, quello delle nascite del 2,15% mentre l’aspettativa di durata media della vita è di 83,5 anni (80,7 anni per gli uomini e 84,9 per le donne, ponendo il Paese all’ottavo posto nel mondo). Statisticamente ogni donna ha tre figli mentre si registrano quattro decessi ogni mille nascite. Il tasso di fertilità è tuttavia differenziato: del 2,9 punti per gli ebrei, del 3,73 per gli arabi e di quasi 6 punti per i beduini del Sud. La composizione dell’età indica che il gruppo che va dagli 0 ai 14 anni costituisce il 27,3% della popolazione (17% per la media europea), quello che raccoglie gli israeliani tra i 15 e i 64 anni è del 62,2% mentre per le classi d’età più anziane si arriva al 10,5% (il 15% in Europa). L’età media degli israeliani ebrei è di 31,6 anni, quella degli israeliani arabi è di 21,1 anni. Il tasso di urbanizzazione è del 93,2%. Israele, tradizionale paese di stabile immigrazione ebraica (dal 1948 ad oggi sono entrate almeno 3,3 milioni di persone), nel 2020 ha registrato anche su questo piano gli effetti della pandemia, con 19.676 ingressi di contro ai 33mila dell’anno precedente. Rimane significativa anche l’origine dei migranti: poco più della metà di coloro che sono arrivati, ossia il 56%, provenivano dall’ex Unione Sovietica, principalmente Ucraina e Russia. L’immigrazione dalla Francia ha invece rappresentato il 12,2% e dagli Stati Uniti l’11,7%.

Parlare d’Israele è necessario poiché l’identificazione tra lo Stato nazionale e l’ebraismo, ancorché in linea di principio per più aspetti impropria (cittadinanza, tradizione, cultura e confessione non sono la medesima cosa), nel corso di questi ultimi settant’anni ha tuttavia assunto uno spessore crescente nei fatti. La presenza di quasi la metà della popolazione ebraica mondiale dentro i confini del Paese costituisce, insieme all’altro grande insediamento esistente, quello statunitense, l’elemento di quadro più significativo nel secolo che stiamo vivendo. Rispetto al Novecento, quando l’evoluzione della popolazione ebraica mondiale aveva raggiunto gli oltre sedici milioni, per poi drasticamente crollare a causa della Shoah, la ripartizione territoriale è inoltre risultata completamente sconvolta. Gli Stati Uniti ed Israele si sono sostituiti pressoché completamente all’Europa nel costituire i bacini demografici più importanti. Per molti aspetti l’ebraismo europeo è declinato, assottigliandosi fino quasi a scomparire in quei luoghi che, invece, ancora alla fine dell’Ottocento erano invece i suoi insediamenti elettivi, a partire dall’Europa orientale.

Mentre si è rigenerato in quelle società che hanno guidato i processi di cambiamento nel XX secolo, spesso assumendo in esse anche un ruolo rilevante, soprattutto dal punto di vista culturale. Un aspetto, quest’ultimo, per nulla secondario poiché il modo in cui viene vissuto il proprio tempo non è tanto il risultato di una passiva introiezione di immagini e raffigurazioni preesistenti ma deriva soprattutto dalla capacità di dare forma e significati al mutamento medesimo. L’identità ebraica, da questo punto di vista, è tanto pervicace nel ricordare a se stessa i suoi caratteri quanto disposta a confrontarsi con le trasformazioni delle società di cui è parte. Concorrendo a raccontarle. Quindi anche a modellarle. Se così non fosse stato, d’altro canto, forse da tempo si sarebbe già estinta, tra persecuzioni, assimilazioni e contaminazioni di vario genere e specie.

Questo fenomeno di transizione geografica e demografica, che ha rivoluzionato la composizione e la distribuzione degli ebrei nel mondo, si confronta a tutt’oggi con i nuovi cambiamenti che il mondo sta conoscendo in maniera sempre più radicale e accelerata. Nessuna collettività può peraltro dichiararsi estranea agli effetti del mutamento sistemico quand’esso investe i modi stessi di mettersi in relazione gli uni con gli altri. Varrà inoltre la pena il ricordare che quelle astrazioni con le quali definiamo insiemi di individui e relazioni – come avviene quando per l’appunto utilizziamo parole come «ebrei» ed «ebraismo» – se funzionano nel momento in cui debbono restituirci il senso di un’appartenenza condivisa da persone tra di loro anche molto diverse, tuttavia non possono dare conto, sempre e comunque, di un quadro che sia sufficientemente unitario di atteggiamenti, pensieri e condotte. L’ebraismo contemporaneo è infatti caratterizzato da un intrinseco pluralismo di storie, esperienze e prospettive. Anche per una tale ragione costituisce un ricalco del modo in cui l’umanità vive se stessa, condividendone speranze ed aspettative come anche delusioni e defraudamenti. Per più aspetti a volte anticipa le une come le altre. Cercare di racchiudere dentro un’unica definizione ciò che per sua natura sfugge a qualsiasi incapsulamento, è allora un’impresa non solo vana ma controproducente. In altre parole, non esiste un’«identità ebraica» intesa come una sorta di essenza astorica, fuori dai contesti in cui l’essere ebrei si manifesta. Mentre invece sussiste un’appartenenza ebraica, che si manifesta in molti modi ma che riproduce una radice di antica data, che si ripete e si rinnova nel tempo.

Dopo di che, se si vuole mettere in relazione l’ebraismo con l’età della globalizzazione nella quale stiamo vivendo, allora il primo punto da cui partire è quello dell’esperienza diasporica. Le dispersioni susseguitesi nel corso dei secoli hanno in buona parte sradicato gli insediamenti ebraici originari, con una significativa perdita di quei caratteri che erano legati alle lunghe stanzialità, ma al medesimo tempo hanno agevolato quelle competenze che si legano all’adattamento. Si tratta di un complesso di qualità estremamente preziose, che si rinnovano nel presente, e di cui Israele, la cui capacità di attrarre uomini e risorse è abbondantemente riconosciuta, costituisce un’espressione pressoché unica. La forza di una comunità umana risiede non nella ripetizione di standard e cliché consolidati ma nel sapere rispondere alle sollecitazioni ambientali con risorse culturali in grado di farne avanzare il livello di sviluppo complessivo. Si tratta della vera sfida ecologica: se l’ambiente non è solo un insieme di cose ma anche e soprattutto di persone (e scambi tra di esse), il saperlo rimodellare almeno in parte quando, al medesimo tempo, ci si riesce anche ad adattarsi ad esso, è una competenza strategica. Senza la quale nessuna comunità, popolo o nazione può confidare di avere un qualche futuro.

Un secondo elemento è quello per cui ogni esperienza di globalizzazione porta inesorabilmente con sé la ridefinizione dei confini, spesso letteralmente divelti dai cambiamenti, così come la trasformazione dell’esperienza che si fa dello spazio. Al nocciolo di questa condizione vi sono le migrazioni. Il racconto del mutamento delle società è infatti il riscontro anche e soprattutto di come queste si muovano. Gli ebrei, nel loro essere un «popolo mondo», inserito nei flussi globali ma anche in grado di preservare un proprio nocciolo profondo, costituiscono la conferma di un tale assunto: muoversi, insediarsi, relazionarsi, conoscersi e rapportarsi gli uni agli altri sono il fuoco dell’esperienza umana. Non insidiamo le radici, semmai le irrorano di nuova linfa. Illusorie sono quelle pratiche che, condannando il meticciato universale come una perversione di una qualche tradizione non meglio identificata, non si avvedono che la terra sta mutando sotto i loro stessi piedi, quand’anche essi intendano tenerli ben saldi.

Un terzo aspetto ci dice che la società mondiale nella quali siamo calati è basata sull’economia dell’informazione e della conoscenza. Non esiste identità collettiva che non si alimenti del sapere. Le forme che quest’ultimo assume sono tanto mutevoli quanto si rivelano essere diversi i tempi in cui la conoscenza si manifesta, ma hanno come comune indice l’alfabetizzazione civile. Che è non solo il sapere leggere e scrivere, così come il “far di conto” delle epoche trascorse, bensì l’intelligenza operativa, che costruisce codici di comprensione dei significati da attribuire agli eventi collettivi. L’identità coincide allora con la capacità di interpretare il tracciato della storia. Il riferimento alla memoria si inscrive quindi in questo percorso. Non è solo uno sguardo profondo rivolto al passato ma la ricerca di segnavia per il futuro. Nessuna licenza poetica, beninteso, ma piuttosto la necessità di allargare il proprio sguardo verso un orizzonte che per non generare angoscia necessita, oggi più che mai, di essere interpretato.

Si potrebbe poi aggiungere, con una nota di sarcasmo, che non tutto il male viene per nuocere. Se gli antisemiti di ogni risma da sempre attribuiscono agli ebrei la “mancanza di patria” (sostituita dalla comunione del denaro, ovvero dal riconoscersi in questo solo “valore” monetario) adesso – nell’età della globalizzazione – oltre alle identità di gruppo, ad essere messe in discussione sono le idee stesse di territorialità per come le abbiamo conosciute e praticate negli ultimi due secoli. Tutto ciò non implica l’obsolescenza di nazioni e Stati ma appella e richiama lo spirito critico alla comprensione del fatto che ai luoghi geografici, amministrativi e politici tradizionali si sovrappongono ora altre concezioni degli spazi. A comunità fisiche corrispondono oramai comunità virtuali. Le une non negano le altre. Piuttosto si integrano vicendevolmente. La sfida dell’identità si gioca anche su questo piano, dove il ruolo dell’immaginazione è strategico, contribuendo a generare sapere e, con esso, anche potere. È sapere, in questo caso, il riuscire ad orientarsi collettivamente nel cambiamento. È potere, quindi, il trasformare una tale competenza in una bussola che permetta di affrontare il tempo presente e quello a venire, laddove il vero rischio che i più corrono è quello dell’indistinzione e dell’intercambiabilità, dove poiché tutto si equivale allora nulla ha reale valore in sé. Avere una identità ebraica nell’età della globalizzazione comporta anche questa consapevolezza.           

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


2 Commenti:

  1. Secondo Itzhak Shamir è Ebreo chiunque legge la Bibbia ebraica ( Tanakh ) cercandovi ispirazione e guida. Secondo il cabalista Leon ( mio alter ego ) invece è Ebreo chiunque legge il Tanakh in lingua originale, cercando di scoprire i trucchi del Grande Mago con l’aiuto di Spinoza e di Einstein, i due nuovi profeti moderni. https://www.academia.edu/55072598/Zero_Fisico
    Buona Giornata, shalom…


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