Un’interpretazione filosofica del passaggio del tempo. Tra Pesach e Shavuot
L’ebraismo ci insegna a contare. A contare i giorni, le ore, i momenti. Contiamo i giorni della settimana per lo Shabbat, contiamo i giorni della gioia matrimoniale, i setti giorni delle Sheva Berachot, contiamo i giorni del lutto, la settimana della Shiva, contiamo le ore tra un pasto di carne ed un pasto di latte, contiamo i giorni della nascita fino all’ottavo per il Brit Milà. E contiamo i giorni tra Pesach e Shavuot, i giorni tra una festa che rappresenta il legame trascendentale con Dio ed un festa, Shavuot, che richiama all’offerte di frutti e primizie, un legame con la terra ed uno sguardo con il Sinai ed i Dieci Comandamenti.
Proprio a questo conteggio tra elementi così diversi tra i giorni dell’Omer dovremmo prestare più attenzione. Pesach è la festa dove la presenza dell’ebreo è semplicemente quella di uno spettatore di fronte alla rivelazione divina. È Dio che interviene nella storia, è Dio che invia le piaghe, è Dio che chiama il popolo ebraico all’uscita dalla schiavitù ed è Dio che apre il mare per salvare gli ebrei. Come insegna Rav Yosef Dov Soleveitchik questa dimensione di protezione trascendentale termina ed è quello stesso Dio che impone all’uomo di cominciare a vivere, di uscire non solo dalla schiavitù, ma di prendere anche la propria responsabilità ed uscire verso il mondo. Contando i giorni l’uomo comincia a relazionarsi con una realtà che è diventata sua e non è più realtà solo di Dio, è il passaggio di giorni umani ai quali dare significato.
L’Omer ci impone il conteggio del giorno, del momento, in questo cammino tra ciò che fu e ciò che non è ancora.
L’ebraismo è quindi un tentativo, il più riuscito, di interpretazione filosofica del tempo. Un’interpretazione che proprio perché passa per un “conteggio di giorni” ci insegna non solo a conoscere la storia, bensì anche a viverla. I giorni, i tempi, gli eventi del passato sono vicini al popolo ebraico, persino gli eventi biblici, con una consapevolezza che non è conosciuta né condivisa dal resto del mondo. È la stessa halakhà che ci insegna e ci impone atti ed azioni che significhino la capacità di comprendere e vivere il tempo e che trasforma una notte di cena in un seder di Pesach legando in questo modo passato, presente e futuro.
Il conteggio dell’Omer partendo da quella notte e legando i due eventi storici e religiosi di Pesach e Shavuot è come se ci ponesse al centro di un crocevia tra passato e futuro: questo elemento può essere anche molto pericoloso perché ci pone in una dimensione extratemporale tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, ma che ancora non è.
L’Omer ci impone il conteggio del giorno, del momento, in questo cammino tra ciò che fu e ciò che non è ancora, l’Omer ci impone la consapevolezza dell’oggi ed il suo conteggio come impegno di dar significato al tempo e di dare a noi stessi un ruolo all’interno del tempo.
Una vecchia e popolare canzone yiddish ricorda che haynt is du, l’oggi è qui. Teologicamente, religiosamente, moralmente ed ebraicamente l’oggi è qui, tra Pesach e Shavuot, tra coscienza storica e futuro, tra radici ed ali, che hanno il loro senso in un impegno e per un conteggio con l’oggi. Quando una persona conta, insegna Kant nella Critica alla ragion pura, deve essere consapevole dell’esistenza di due elementi distinti: gli eventi che sono avvenuti e quelli che avverranno.
Insegna Rav Yosef Dov Solovietchik (Zman Cherutenu) che quando, per esempio, contiamo il 33° giorno dell’Omer, questo evento è stato formato dal passare di 32 elementi, che stiamo vivendo il 33° e che, sopra ogni cosa, questo non è l’ultima tappa del nostro cammino e che ci sono giorni a venire da contare. L’ebraismo non ha paura del futuro e dell’incognita, anzi si prepara al futuro contando il presente, dando un senso al crocevia dei giorni tra passato e futuro facendo in modo che gli uni non siano uno retaggio pesante per il cammino e gli altri non siano una vana e lontana speranza, ma incontrandosi entrambi nel presente, nell’oggi che contiamo, prendono il loro senso vitale e quotidiano.
Nato a Napoli nel 1977, affianca agli studi universitari presso l’Istituto Universitario Orientale gli studi rabbinici con Rav Giuseppe Laras z.tz.l. e presso istituti rabbinici israeliani tra i quali il Beit Midrash Sefardi di Gerusalemme e la Yeshivat Hamivtar di Efrat, sotto la guida di una delle voci leader del mondo ebraico ortodosso moderno, Rav Shlomo Riskin. Ha servito come rabbino la comunità ebraica di Napoli, ha lavorato come educatore presso numerosi progetti in Israele, in Italia meridionale e in altri Paesi europei. Appena diventato coordinatore studi ebraici Colegio Ibn Gabirol-Estrella Toledano, Madrid. Collabora con numerosi giornali italiani e ha pubblicato nel 2018 “Napoli via Cappella Vecchia 31” per Belforte editore (Livorno) e nel 2012 un saggio per Luciano Editore (Napoli) : “Una donna ebrea, Hannah Arendt”. Studioso di identità di confine e di cripto ebraismo.
Rav Punturello è una delle voci dell’ebraismo Italiano che amo più ascoltare, con le sue parole profonde e semplici allo stesso tempo.
Grazie Rav Punturello … certo però andrebbe sempre citato l’autore delle immagini … e il titolo
Tobia Ravà 1369 “Azione – permutazione”
2015 acrilici su tavola 39 x 49
Buongiorno Sig. Ravà,
la dimenticanza è tutta nostra e ce ne scusiamo davvero. Abbiamo aggiunto la didascalia sotto l’immagine. Shavua Tov,
Redazione JOIMag