Cultura
Ebrei in Olanda: una storia per immagini

Una selezione di 300 scatti in mostra fino a settembre 2022 racconta per la prima volta la storia degli ebrei olandesi

I venditori di pesce al mercato (inclusi quelli che, come Rachel Moffie, avevano fama di gonfiare i pesci di acqua per guadagnare sul peso); i ritratti con la stella gialla cucita sul petto; i volti segnati dalla fame durante l’ultimo lungo inverno di guerra. Ma anche la ripresa delle celebrazioni nelle sinagoghe, il dialogo non sempre facile tra generazioni, il rapporto tra modi diversi di vivere l’ebraismo all’interno delle medesime famiglie. Il museo ebraico di Amsterdam ha una collezione di oltre 70000 fotografie che raccontano la storia degli ebrei in Olanda dalla metà del XIX secolo a oggi. Una selezione di 300 scatti per la prima volta in mostra fino a settembre 2022 racconta per la prima volta la storia degli ebrei olandesi attingendo a questo vasto patrimonio in continuo ampliamento grazie ad acquisti, lasciti e commissioni.

Rivierenbuurt e WaterloopleinNelle prime sezioni della mostra vediamo documentata la vita nei quartieri di Amsterdam a grande componente ebraica tra le due guerre, la persecuzione che ha colpito più che in qualsiasi altro paese dell’Europa occidentale e la ripresa difficile nel dopoguerra. L’intento principale è quasi sempre la documentazione sociale. Migliaia di ebrei emigrati da Germania e Austria negli anni dell’ascesa del nazismo (come la stessa famiglia di Anne Frank) trovano rifugio nel quartiere allora periferico di Rivierenbuurt, a sud del centro, ancora oggi il luogo dove si contano più numerosi i negozi kasher e le sinagoghe. Tra gli emigrati c’è anche il viennese Wolf Suschitzky, che fotografa il quartiere ebraico, soffermandosi sulla povera gente che affolla il mercato di Waterlooplein (che è invece il quartiere ebraico storico, periferico nel Seicento ma oggi centrale, dove sorge la sinagoga portoghese e il museo), i venditori, le bancarelle, le strade.

Bambini a Westerbork – Gli 80000 ebrei di Amsterdam (e i 140000 dell’intera Olanda) alla vigilia della seconda guerra mondiale costituiscono infatti una massa critica in cui sono rappresentati tutti gli ambienti sociali. L’occupazione nazista segnerà in pochi anni la fine di questo mondo. Rudolf Werner Breslauer, ebreo proveniente dalla Germania, nel 1943 e 1944 fotografa i bambini ebrei deportati nel campo di transito di Westerbork, nell’Olanda orientale, per ordine dello stesso comando tedesco interessato a confezionare un documentario di propaganda. Troviamo così bambini occupati in attività di bricolage in contrasto stridente con quello che sappiamo toccherà loro. Lo stesso Breslauer morirà ad Auschwitz poche settimane dopo la liberazione. Allo stesso tempo abbiamo fotografie di famiglia che documentano la vita ebraica anche negli anni dell’occupazione. Sem Presser nel giugno 1942 fotografa il matrimonio di un cugino in sinagoga. Di tutte le persone ritratte (non senza la stella gialla cucita sul petto), ha raccontato Presser dopo la fine della guerra, soltanto una è sopravvissuta. Tutti gli altri, inclusi i due sposi e il rabbino, sono stati assassinati dai nazisti. Un’altra emigrata è Maria Austria (Marie Oestreicher all’anagrafe), che durante la guerra si nasconde e partecipa alla resistenza falsificando documenti e carte di identità che poi consegna personalmente con la sua bicicletta. Suo è uno degli scatti iconici della Amsterdam occupata. Nascosta in un attico nel bel quartiere residenziale prossimo a Vondelpark, il più noto parco cittadino, la fotografa raffigura dall’alto una colonna di soldati tedeschi in marcia.

Strade silenziose – Alcuni dei reduci che tornano dai campi di sterminio nella loro città vengono colti in pochi scatti preziosi. Boris Kowadlo raffigura ciò che rimane del quartiere ebraico al momento della liberazione, che per l’Olanda arriva tardissimo, nel maggio del 1945, soltanto al momento della resa tedesca. Tra le sue istantanee quella alla sinagoga portoghese in cui il 9 maggio, giorno successivo all’ingresso degli Alleati in città, si radunano circa mille ebrei. Pochi anni più tardi il fotografo di origine polacca, che aderisce al sionismo, raffigurerà le celebrazioni per la fondazione dello stato di Israele. Ed van der Elsken e Jan Cremer fotografano invece i vuoti nel quartiere di Waterlooplein, vuoti che rimandano ai 60000 ebrei della capitale olandese assassinati, un numero tre volte superiore a quello dei sopravvissuti. Muri nudi e strade silenziose e deserte dopo la distruzione sono gli unici testimoni della demolizione di antiche attività senza più clienti come il negozio di sandwich kasher di Sal Meijer. A breve distanza nel 2021 ha aperto il magnifico memoriale della Shoah progettato da Daniel Libeskind in cui tutti i nomi degli oltre 100000 ebrei olandesi assassinati trovano posto all’interno di una struttura che, vista dall’alto, compone la scritta לזכר (lizkhor, in memoria di).

La cappa di piombo – La ripresa della vita ebraica negli anni cinquanta, di cui vediamo esempi nelle fotografie dell’americano Leonard Freed, è inevitabilmente lenta e difficile. Cerimonie, funzioni, matrimoni, ma anche i parnassim della comunità portoghese con il classico cilindro e la coda di fronte alla panetteria kasher la domenica mattina, quando le attività concorrenti sono chiuse. I silenzi su un passato recente che ha colpito indistintamente poveri e benestanti, assimilati, progressivi e tradizionalisti sembrano coprire la scena come una cappa di piombo che il bianco e nero aiuta a sottolineare.

Identità e memoria – Per giungere alla riscoperta identitaria occorre attendere gli anni ottanta e il colore, a cui si uniscono la nuova tecnologia digitale e una fotografia meno documentaristica e sempre più spesso concettuale e personale. Le riflessioni degli artisti su identità, appartenenza, diritti, memoria, discriminazione si coniugano alla scoperta, riscoperta e valorizzazione della cultura ebraica. In un processo che sembra tutt’altro che esaurito oggi, in Olanda come in Italia e altrove cresce l’attenzione per l’ebraismo seguendo un duplice canale. All’interesse che proviene dalla società prevalentemente non ebraica si somma infatti quello di numerosi ebrei che tornano a quelle sorgenti ebraiche che i genitori hanno trascurato. La riscoperta dell’identità ebraica è contemporanea al fiorire degli studi e al dialogo con i testimoni della Shoah che per decenni sono rimasti prevalentemente inascoltati o in silenzio. Due esempi sul nuovo modo con cui giovani artisti trattano il tema della memoria della Shoah. Leo Divendal scatta fotografie del campo di concentramento e smistamento di Theresienstadt, dove quattro sue zie sono state deportate. Un letto, l’angolo di un tavolo, la doccia in un gioco quasi caravaggesco di luci e ombre. L’immaginazione completa questo mondo minimo in cui i vuoti prevalgono sui pieni evocando la presenza di chi è stato e non è più. Con un lavoro composto di ventuno scatti e intitolato Kaddish la fotografa Jenny Wesly accosta paesaggi a uccelli morti. Come i campi della morte sorgevano spesso presso foreste magnifiche e luoghi incontaminati, così anche nei paesaggi olandesi di Wesly si nasconde la presenza inquietante della morte. Fotografare quello che resta degli uccelli, spiega l’artista, è un modo per renderli immortali.

Famiglia – La fotografia concettuale rappresenta bene i cambiamenti sociali e il rapidissimo movimento di persone, informazioni, idee e merci che caratterizza il mondo attuale. In essa trovano visibilità gruppi ebraici femministi e attivi per la difesa dei diritti. Oppure la disgregazione e delocalizzazione della famiglia, altra questione oggi all’ordine del giorno. Janneke Aronson nel 2011 ha pubblicato la serie ‘Am (popolo), in cui si interroga sulle molte declinazioni possibili dell’identità ebraica attraverso una serie di ritratti di famiglia. Su un tema analogo lavora Vardi Kahana nel progetto One Family, in cui ritrae i parenti anziani sopravvissuti alla Shoah con i numeri tatuati sul braccio e tutti i loro numerosi discendenti che vivono in Danimarca e soprattutto in Israele chi nella comunità ultraortodossa, chi tra i coloni nazionalreligiosi dei territori oltre la linea verde, chi nei kibbutzim o infine nei quartieri più moderni. Cappelli scuri di pelliccia, kippot fatte all’uncinetto e jeans strappati possono trovarsi accostati in un medesimo nucleo famigliare? Kahana raffigura la dimensione composita della famiglia in Israele ma non soltanto, con la sua ricca pluralità ma anche le divisioni e le crescenti incomprensioni interne tra chi sceglie di vivere vite diverse.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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