Hebraica Nizozot/Scintille
Esilio e/o diaspora. Ovvero, i due modi di scrivere la storia ebraica

Storiografia e storiosofia: analisi di due visioni del mondo

Al Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis) di Ferrara, in collaborazione con la locale università e l’Istituto di Storia Contemporanea (Isco), è in corso un ciclo di tavole rotonde sul tema dell’esilio, in ebraico galut. In questo termine infatti convergono fenomeni diversi come l’emigrazione, l’espatrio, l’asilo politico inteso come rifugio a perseguiti e/o fuggiaschi per le più diverse ragioni. Insomma, quello di esilio è una grande categoria-ombrello, da sempre oggetto di riflessione a più livelli. Ne trattavano già Cicerone e Seneca, che di esilio per motivi politici se ne intendevano. Ma il tema dell’esilio è tra i più centrali della cultura ebraica. Se ancora la discesa della famiglia di Giacobbe in Egitto può essere letta come una normale migrazione familiare per ragioni economiche – quante ne ha conosciute l’Italia del XIX secolo: da quella (dimenticata) verso la Tunisia a quella massiccia verso le due Americhe – quella a Babilonia, invece, è da subito elevata a paradigma di ogni vero esilio, galut in senso forte, un esilio che verrà per secoli elaborato come uno ‘status d’attesa’ nel quale la nostalgica fedeltà alla patria, la terra di Israele, diviene la cifra più profonda della propria identità teologico-politica. Interpretare la galut e viverci in fedeltà alla Torà saranno, dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 per mano dei romani, l’obiettivo dell’esistenza ebraica nelle diverse terre della dispersione o diaspora. Il Talmud, in un certo senso, costituirà il principale strumento per raggiungere quell’obiettivo.

Arriviamo così al punto: l’essere-fuori-patria, una condizione durata per il popolo ebraico quasi 19 secoli (fino alla realizzazione del sogno sionista), è stata un’esperienza di galut o di diaspora? Qual è la differenza tra i due concetti? Ne parlò da queste colonne, oltre due anni fa, lo storico sociale delle idee David Bidussa, e io vorrei inserirmi nel solco di quel dibattito sempre aperto, rivistando il momento in cui, nel giudaismo, è nata la consapevolezza della differenza tra esilio e condizione diasporica. Infatti galut è categoria eminentemente religiosa: alla luce delle Scritture e dell’interpretazione dei profeti, l’esilio è in essenza comprensibile come un castigo divino per i peccati dei figli e delle figlie di Israele, che verranno fatti ‘tornare’ nella loro terra quando avranno, a loro volta, fatto ‘ritorno’ (teshuvà) a Dio. La storia ebraica in questa prospettiva è tutta teologica: siamo dinanzi a quella che Aviezer Ravitzky chiama una ‘storiosofia’, ovvero il pensare gli eventi storici come fatti aventi precisi significati religiosi ispirati dalla fede in un patto tra Dio e il Suo popolo. Nessuno storico, ebreo o non ebreo, che abbracci il rigore della ricerca su documenti e vestigia (ad es. archeologiche) può accettare un simile approccio; l’alternativa è ciò che si suole chiamare ‘storiografia’, che emerge davvero come tale solo nella modernità quando si mettono a fuoco i presupposti e le implicazioni del metodo storico-critico nel narrare i fatti del passato. Chiediamoci allora quali sono state le tappe intellettuali che hanno portato al forgiarsi, dentro il pensiero ebraico, del moderno paradigma storiografico e che hanno segnato la profonda revisione, se non la fine, della categoria religiosa di galut o, se si preferisce, della storiosofia. Si tratta infatti di due modi antitetici di pensare e scrivere la storia ebraica, sebbene di fatto coesistano nel mondo ebraico fino ad oggi.

Come detto, una storiografia ebraica emerge solo con l’avvento della modernità. Dove si situa tale avvento? Stabilire quando nasca la storiografia è già… un problema storiografico. In questa ricerca è di aiuto lo storico tedesco-israeliano Yitzchaq Baer (1888-1980), autore di un volume intitolato Galut, scritto nel 1936. Proprio perché non è un testo di ‘storia ebraica’ ma di ‘storiografia della storia ebraica’, l’opera non ha perso brillantezza e cogenza a distanza di quasi 90 anni: essa ripercorre la storia del concetto di galut/esilio dalla tarda antichità (corrispondente all’epoca della Mishnà e dei Padri della Chiesa) fino agli albori del sionismo e documenta come vi sia stata, nel tempo, una pluralità di interpretrazioni di questa realtà esistenziale che è l’esilio ebraico; pertanto esso non può essere appiattito su una lettura religiosa e teologica, né può essere fatto coincidere con l’approccio storiosofico a cui contribuirono – in negativo per il popolo ebraico – soprattutto i Padri della Chiesa. Baer mostra il graduale emergere del paradigma storiografico già a partire dal notabile ebreo Itzchaq Avravanel, che visse in esilio forzato dopo il gerush Sfarad (la cacciata dalla Spagna) prima a Napoli e nelle Puglie, e poi a Venezia dove morì nel 1508; il paradigma cresce in pieno Rinascimento con l’opera Shevet Yehudà, Lo scettro di Giuda, di un altro esule dalla penisola iberica (dove, sembra, ebbe una conversione marrana), Solomon Ibn Verga, morto nel 1554 probabilmente in Italia; cresce ancora, sebbene Yitzchaq Baer non lo citi, con la controversa opera Meor eynaim, Luce degli occhi, del rabbino mantovano Azarià de’ Rossi che visse a lungo a Ferrara, nella quale raccontò il famoso terremoto del 1570; il paradigma giunge poi a maturazione sempre in Italia con Simone Luzzatto, altro rabbino della Repubblica Serenissima, e in Olanda con il più noto ‘eretico’ e discendente di marrani Barukh Spinoza, nel XVII secolo. L’attitudine storiografica dunque si profila nel giudaismo ben prima dell’haskalà o illuminismo ebraico della seconda metà del XVIII secolo, unanimemente riconosciuto l’alveo che dà origine alla Wissenschaft des Judentums e, in essa, a un matura storiografia ebraica.

In sintesi, la tesi di Baer è che Avravanel, da statista e teorico politico qual era, iniziò a esaminare la storia delle antiche istituzioni israelitiche non sulla base di disegni provvidenziali ma sulla scorta delle leggi naturali, che modellano gli eventi umani come quelli della natura, secondo una regola di crescita e decadenza; Ibn Verga scrisse con la medesima sensibilità, individuando cause politiche interne per la caduta dell’antico regno ebraico: non i peccati degli ebrei ma le loro lotte intestine causarono la perdita della loro indipendenza come corpo politico ed economico. Scrive Baer a proposito di Ibn Verga: “Occorre qui osservare come le condizioni dell’Italia di quel tempo [il XVI secolo] e le teorie politiche ivi circolanti [cioè l’opera di Machiavelli, che muore nel 1527] gettarono una luce nuova su fatti [storici] assai noti e che nel medioevo venivano usati molto spesso per riflessioni di tipo morale”. Conclude lo storico ashkenazita: “Di certo Ibn Verga considerava ancora la galut come una prova e una punizione divine imposte agli ebrei, ma egli è pronto anche ad ammettere l’interpretazione storico-causale in aggiunta a quella religiosa”. Ecco un emblematico fotogramma del percorso grazie al quale la concezione della storia, e dunque dell’esilio, delle disfatte come delle vittorie del popolo ebraico, comincia a secolarizzarsi. Ovviamente i seguaci della Wissenschaft – che sono e soprattutto si sentono degli storici (si pensi a Zunz, a Frankel, a Munk, a Geiger, e in particolare a Graetz), secondo lo spirito della prima metà del XIX secolo – faranno egregiamente il loro lavoro per completare la parabola, ossia per de-teologizzare la storia e la cultura del popolo ebraico, fondando di fatto una vera e propria storiografia ebraica.

Tuttavia quest’approccio moderno agli eventi storici non ha segnato davvero la fine del concetto religioso di galut e, in generale, della tradizionale storiosofia, che anzi sembra ora tornare come substrato di alcune nuove formazioni politiche israeliane. La stessa categoria di diaspora (hatfutzot), nella sua ambivalenza, ha subìto in Israele un processo di revisione teso ad accorciare le ‘distanze storiche’ tra chi vive in eretz Israel e chi vive fuori, come se vi fosse un’unica storia ebraica (a dispetto del trend accademico americano che insiste: non esiste una sola storia ebraica, ma ne esistono molte, tante quante sono le culture, le lingue e i paesi in cui gli ebrei hanno vissuto per oltre venti secoli). Si potrebbe quasi dire che è sulla faglia divisoria tra storiosofia e storiografia che si consuma il Kulturkampf del mondo ebraico contemporaneo.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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