Cultura
Germania, i fantasmi del passato: dalla deprivazione alla depravazione

La responsabilità del radicalismo politico è quella di sdoganare parole d’ordine e un clima culturale  dove l’impensabile si fa nominabile e la violenza cieca e sorda diventa una opzione.

La strage di Hanau, in Germania, con il suo tragico tributo di undici morti e quattro feriti gravi, non scoperchia nessun tombino, semmai confermando gli effluvi mefitici e i miasmi nausebondi che ammorbano un Paese il quale, pur con tutti i limiti del caso, dal dopoguerra in poi ha cercato di fare i contì – più e meglio di altre nazioni europee – con il proprio passato. La destra radicale è bene insediata nel labirinto delle organizzazioni, più o meno legali, che usano il conservatorismo di una parte della popolazione come volano per estremizzare le reazioni ai cambiamenti in atto. I dati in materia sono significativi: nel 2018 in Germania sono stati registrati 20.400 reati riconducibili all’estremismo di destra, di cui 938 eventi violenti, insieme a 821 crimini prettamente xenofobi. Sussiste un sostanziale accordo tra gli studiosi e i ricercatori, quindi in immediato riflesso tra le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie, nel quantificare e, soprattutto, nello stimare il fenomeno.

Il quale, per definirne da subito la natura e poi le sue manifestazioni, trova nel 1989 il suo turning point. Poiché è in quell’anno che inizia a verificarsi una saldatura tra i gruppi criptonazisti, presenti sul territorio della Germania occidentale, costantemente monitorati dal Bundeskriminalamt-Bka (Ufficio criminale federale) e dal Bundesamt für Verfassungsschutz -BfV (Ufficio federale per la protezione della Costituzione, che funge da controspionaggio), e l’onda che progressivamente arriva dalla Germania orientale, in via di sfaldamento politico. Nella Repubblica democratica tedesca, infatti, l’antifascismo costituiva un dogma di regime rivolto alla società civile nazionale, insieme al partito unico (contornato da una serie di sigle pseudopolitiche di comodo, a volere simulare un inesistente pluralismo) che dominava la vita politica e quella aggregativa. La morsa ideologica, asfissiante in quanto stretta ossessivamente su ogni aspetto della vita quotidiana, impediva manifestazioni che potessero anche solo lontanamente essere avvicinate all’ombra del neonazismo. Che, proprio in quanto formalmente impedito, ovvero cancellato dalla facciata pubblica di comodo del regime, in realtà non si era per nulla esaurito. Semmai, dagli anni Cinquanta in poi si era riciclato dentro gli apparati politici, civili e polizieschi della DDR, la Deutsche Demokratische Republik. La quale, per inciso, dichiarava che il suo essere «socialista», «internazionalista» e «antifascista» (i riferimenti, nei discorsi pubblici, al «comunismo» e al «nazismo» erano invece perlopiù sciolti in un lessico generico e generalista, alla ricerca di riscontri anche al di fuori dei propri ambiti di abituale consenso), derivasse anche dal fatto che la gemella antagonista, la Repubblica federale tedesca, avrebbe invece avuto in sé irrisolti caratteri fascistoidi.

Il nesso ideologico tra capitalismo e fascismo costituiva, d’altro canto, la dottrina ufficiale dei paesi a socialismo reale. Il fascismo era letto e riproposto secondo una stantia visione, tipica del materialismo dialettico, per la quale il secondo sarebbe stato esclusivamente ed unicamente la manifestazione più brutale del primo (quella, per intenderci, senza troppi fronzoli pseudodemocratici). Quindi, in fondo, anche quella più autentica. Nessuna autonomia politica, infatti, era riconosciuta al nazionalsocialismo e ai fascismi europei in quanto specifiche forme di organizzazione del consenso e di dominio delle società continentali. Quando nel 1989 questa impalcatura cade, insieme agli interessi che tutelava, e la strada dell’integrazione tra le due oramai ex Germanie si avvia, le componenti della destra radicale iniziano a prendere corpo, ovvero vengono alla luce, emergendo dall’oscurità alla quale erano state fino ad allora consegnate. Non è un caso se dal 1991, anno della riunificazione – la «Deutsche Wiedervereinigung» – siano i Länder orientali a dare ben presto sostanza ai fantasmi di un passato che non era in alcun modo trascorso. Mentre nelle regioni occidentali la democratizzazione, dopo gli anni del silenzio e della rimozione praticati dal cancelliere Konrad Adenauer (1949-1961), si era coniugata ad una diffusa denazificazione culturale, un processo espressosi perlopiù dal basso, quindi evidenziatosi in forma autonoma, che aveva interessato soprattutto le generazioni nate dal dopoguerra in poi, in quelle dell’Est tutta una serie di conflitti politici non metabolizzati (tanto meno negoziati consensualmente e consapevolmente), si venivano riproponendo in forma ora manifesta. Anzi, rivendicata.

Più che una rifascistizzazione di segmenti di società tedesca, era bene parlare semmai di una scarsa o nulla confidenza con la democrazia e il pluralismo. Una completa mancanza di lessico politico, al netto, invece, di quello identitario, di cui i radicalismi (non solo di destra) sono da sempre i contenitori più vivaci. Poiché lo spazio del neofascismo, in tutte le società, è da sempre legato non tanto a ciò che dice di essere, e a quanto quindi cerca di fare, ma alle falle che si ingenerano nel tessuto democratico e in quello della coesione sociale. Più le seconde si dilatano, maggiori sono le opportunità di accreditamento che si prospettano per gruppi e gruppuscoli antidemocratici, tali poiché dichiarano e bollano apertamente la democrazia come «malattia dello spirito», radice dei disagi della collettività. Si tratta di una costruzione ideologica, poiché intercetta non solo il concreto malessere di ampi segmenti delle comunità locali, che si sentono messe ai margini dai cambiamenti in atto, ma anche le fantasie e i bisogni di quanti – e sono la maggioranza – pur non vivendo concrete difficoltà accompagnano la loro vita quotidiana ad un crescente malumore, nella perenne ricerca di cause, quindi di colpe. Il tiro al bersaglio (figurato per parte dei più, attravero l’armamentario della retorica dei discorsi xenofobi; poi, per certuni, letterale, con il ricorso alla violenza dei fatti agiti) è parte di questo dispositivo di rivalsa.

Nel caso tedesco, la competizione tra le regioni orientali e quelle occidentali, dove le prime si sentivano colonizzate dai processi di riunificazione, ha avuto un suo ruolo nell’alimentare un risentimento a tutt’oggi irrisolto. Dopo di che, attribuire la reviviscenza dell’estremismo neonazistoide solo al differenziale territoriale, sia economico che socioculturale, in parte peraltro risolto in quest’ultimo decennio, sarebbe una lettura falsata, comunque parziale. Infatti entrano in gioco altri elementi, sia di quadro nazionale che continentale: il declino americano; il rapporto con l’Est europeo; la domanda di rappresentanza politica da parte di elettori ed individui che disconoscono a priori il gioco parlamentare e così via.

Le peculiarità dell’estremismo nero tedesco ricalcano peraltro quelle di altri radicalismi. Esiste una filiera di organizzazioni, in parte underground. Sono tali soprattutto perché altrimenti perseguibili ai sensi del codice penale. Tuttavia, sono anche consapevoli della maggiore seduttività, rispetto ad una parte del loro potenziale pubblico, di una autoraffigurazione dove possono presentare la loro “clandestinità” come indice della condizione di vittime del “regime democratico”, ovvero riscontro della vessatorietà di quest’ultimo nei confronti di quanti non si omologherebbero al «pensiero unico» liberale. Alle organizzazioni maggiormente estremiste si affiancano quelle formazioni, piccole o di medie dimensioni, che invece operano alla luce del sole, in genere facendo precedere qualsiasi discorso politico da rimandi cristallizzati alle «tradizioni» e all’«identità» tedesche, di cui si presentano come le autentiche depositarie.

Il discorso neonazista, in Germania, corre infatti su due assi prevalenti: il recupero di una dimensione etnica originaria, che sarebbe stata corrotta dall’avvelenamento della contaminazione derivante dalla presenza di popolazioni non autoctone (è il medesimo motivo del razzismo hitleriano: bisogna selezionare il popolo, espellendone gli elementi devianti sul piano della composizione etnorazziale); la pratica concreta della xenofobia come strumento di controllo del territorio e di aggregazione di consensi, attraverso manifestazioni pubbliche, dove ciò che non risponde ad un’immaginaria medietà razziale (alla quale vengono da subito ricondotti elementi anche della sessualità – da ciò la spiccata omofobia – e della cultura materiale, sono immediatamente tradotti come espressione di depravazione).

Il dispositivo al quale al radicalismo di destra fa diretto riferimento, nonché perno di autolegittimazione, è quello della creazione di un panico morale, ciò che deriverebbe dalla paura per la contaminazione da parte di elementi alieni, che entrano surrettiziamente e subdolamente nel corpo, altrimenti «sano», della nazione tedesca.

La contaminazione, infatti, porterebbe alla disgregazione degli ordinamenti sociali e culturali, né più né meno di quanto possa riuscire, a conti fatti, ad un virus incontrollato. Ancora una volta il tema razzista è strettamente associato ad un immaginario biologico, attraverso la diretta associazione, che trova grande eco di suggestioni, tra i simbolismi della medicina e dell’epidemiologia (“bisogna mantenere l’igiene del popolo!”) e quelli dell’organizzazione sociale (ripulire la «comunità nazionale di stirpe» dalla presenza di soggetti parassitari). Un terzo elemento, anche questo per nulla inedito, è l’accusa rivolta alle classi dirigenti tedesche, a partire dai democratico-cristiani di Angela Merkel e dei suoi successori, di costituire dei traditori della “causa germanica”, essendosi vendute all’«eurocrazia», che starebbe svuotando il Paese dei suoi beni e della sua ricchezza materiale, morale, etnica. In questo, l’alfiere delle posizioni più consolidate è l’Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland-AfD), il partito politico euroscettico per eccellenza, nato nel 2013. L’AfD, nella sua breve ma fruttuosa esistenza (alle europee del 2019 ha raccolto quattro milioni di voti, pari al 10,97 dei consensi espressi), ha aperto da tempo anche una campagna contro l’”eccesso di memoria”. Pur non assumendo tonalità apertamente negazioniste, ha raccolto e convogliato le perplessità di una parte dell’elettorato tedesco verso la lunga, a tratti molto sofferta, rielaborazione del passato criminale nazista. Nonché dei suoi cascami e residui nella Germania di oggi.

AfD, su posizioni nettamente revisioniste, dichiara che il fardello del lutto (causato a vittime incolpevoli) non è più tollerabile, in Germania come in Europa. Qualcosa del tipo: “abbiamo già dato”. Per affrontare le sfide del presente, e del futuro a venire, i tedeschi dovrebbero essere liberati dall’obbligo di un insincero vincolo, quello con un passato che, peraltro, viene raffigurato non solo come il tempo delle tragedie (per gli ebrei) ma anche come il momento delle glorie nazionali. Inoltre, aggiungono i politici nazionalisti, la Germania fu sempre ingiustamente punita durante tutto il Novecento. Basti pensare, oltre al trattato di Versailles che chiudeva la Prima guerra mondiale, anche ai bombardamenti “terroristici” delle forze alleate sulle città tedesche tra il 1943 e il 1945. Laddove invece, si premurano da subito di ribadire i neonazionalisti e sovranisti, il Reich tedesco fu anche una barriera di contro all’«orda barbarica del comunismo», altrimenti destinato a dilagare in tutta l’Europa (altro motivo ripreso dall’armamentario nazionalsocialista ma fatto proprio da sempre da diversi ambienti conservatori). Di fatto il partito nazionalista funge da incubatore e da legittimatore di un discorso politico sempre più sbilanciato verso i temi, i linguaggi, l’agenda della destra radicale, con la quale, in certi passaggi elettorali, intrattiene relazioni indirette di scambio.

Chi vota AfD sa infatti che xenofobia, ancorché filtrata attraverso un lessico misurato, euroscetticismo e una qualche dose di suprematismo nazionalistico («Deutschland über alles», la Germania al di sopra di tutti, dalla composizione musicale del 1797 di Haydn, nata come inno imperiale per Francesco II d’Asburgo) troveranno adeguata rappresentanza. Insieme alla crescente insofferenza verso quella memoria europea, ossia il rifarsi ad una comune storia dove sono indicate le responsabilità dei crimini continentali del Novecento, che sarebbe solo una costruzione ricattatoria dell’Unione europea contro la piena sovranità tedesca.

In un tale quadro, come si inseriscono gli atti terroristici compiuti in questi ultimi anni? Sono il diretto ed immediato effetto di quanto si è appena raccontato? In realtà non esiste un link per il quale i costrutti politico-ideologici si sovrappongono, senza soluzione di continuità ,alle azioni criminali. La quasi totalità dei terroristi neonazisti (come anche di quelli neofascisti in Europa) opera sul territorio nazionale autonomamente. Ossia, agiscono nella loro qualità di «lupi solitari», tali poiché scelgono di colpire per conto proprio. Anche la vagheggiata esistenza di una sorta di Internazionale nera, che piloterebbe atti e fatti, attori e scelte, violenza e sopraffazioni, non ha diretti riscontri. Esiste senz’altro un network delle destre radicali europee ma la dimensione estremamente composita e mutevole  di quanti ne fanno parte, insieme all’azione di controllo e di repressione delle polizie nazionali nonché del coordinamento dell’Interpol, ha frenato una parte delle spinte più radicali. Mentre invece non è riuscita a filtrare i diversi solisti che sono perennemente alla ricerca di uno spartito da eseguire, a suon di proiettili e altro ancora.

La teoria della pazzia solitaria è peraltro, in questo come in altri casi, altrettanto fallace quanto quella del preordinamento organizzativo. Il terrorista nero, nell’attuale situazione della Germania come di buona parte dell’Europa, trova semmai molti elementi di identificazione e di reciprocità con il modello del militante del radicalismo islamista. Il fatto che si dichiarino portatori di due concezioni del mondo che si vogliono esattamente oppositive (il neonazismo si concentra sull’«Occidente» come dimensione geopolitica della superiorità razziale; l’islamismo rivendica l’«Oriente» in quanto sede del messaggio universalista della sottomissione ad una religione che si fa politica totalizzante e totalitaria), nulla toglie al riscontro che condividano una medesima matrice operativa. Sono quasi sempre figure periferiche rispetto al milieu delle organizzazioni militanti, che peraltro spesso frequentano senza però averne ruoli di direzione politica (non saprebbero neanche come assumerla) semmai radicalizzandosi a contatto con i temi che queste invce diffondono. Non è infrequente che il web sia un altro luogo di autoformazione di un pensiero tanto delirante quanto raziocinante da un punto di vista dei mezzi con i quali tradurlo in fatti.

La responsabilità del radicalismo politico è infatti quella di socializzare (ossia “sdoganare”) parole d’ordine come anche un clima culturale  – al quale si ricollega un habitat di relazioni sociali – dove l’impensabile si fa nominabile, l’illecito si trasforma in plausibile, la violenza cieca e sorda diventa una opzione. Non c’è bisogno di armare qualcuno, né di indirizzarlo operativamente, posto che ci sono diversi europei che già sanno da sé cosa vogliono, giacché per loro la politica è martirio e carneficina. Degli altri, soprattutto. D’altro canto, come qualcuno avrebbe detto un tempo, in fondo «un bel morir nobilita tutta una vita». In particolare modo se, al pari di tutti i fascismi, si conosce la tanatofilia come unico “sentire” chiaro e netto.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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