Hebraica
Il conteggio dell’Omer, una storia d’amore

Significati e interpretazione della mitzwah che va da Pesach a Shavuot

Il periodo che va da Pesach a Shavuot è il periodo dello Omer, in cui la Torah prescrive uno strano precetto: quello di contare ogni singolo giorno e ogni settimana intera per cinquanta giorni.
Perché viene comandato questo rito così particolare? Che senso ha?
Pesach e Shavuot commemorano, rispettivamente, l’uscita del popolo di Israele dall’Egitto ed il dono della Torah al Sinai, ma nei due passi in cui è prescritto il conteggio dello Omer non si fa alcun riferimento a questo: Pesach e Shavuot vengono presentate puramente come feste agricole, in corrispondenza delle quali si deve offrire al Tempio un’offerta farinacea (insieme a sacrifici animali e libagioni). «E conterete per voi, dal giorno seguente a quello di astensione dal lavoro, dal giorno in cui porterete lo omer che deve essere agitato, sette settimane che siano complete. Fino al giorno successivo alla settima settimana conterete cinquanta giorni e presenterete un’offerta farinacea di prodotti nuovi al Signore. Dalle vostre sedi porterete pane da agitare: due pani di due decimi [di efa], saranno di fior di farina, verranno cotti come pane lievitato, saranno primizie al Signore» (Lv 23,15-17).

Nella Torah quindi lo Omer è, semplicemente e letteralmente, il periodo che separa l’offerta dello omer di orzo dall’offerta dei due pani lievitati. Rav David Abudraham, un maestro spagnolo vissuto nel XIII secolo, nel suo Sefer Abudraham offre una spiegazione semplicissima e molto logica: poiché il periodo tra Pesach e Shavuot è quello in cui i figli di Israele sono dispersi nei loro campi, impegnati con il raccolto e la trebbiatura, la Torah prescrive di contare i giorni affinché non si dimentichi il momento in cui si deve salire a Gerusalemme per presentare l’offerta di Shavuot. Questo tra l’altro spiegherebbe perché ciascun ebreo debba contare per sé («E conterete per voi») i giorni dello Omer: se si è dispersi nei campi, con poche possibilità di comunicare gli uni con gli altri, diventa difficile affidare il conto a qualcun altro, fosse anche il bet din ha-gadol (che era responsabile di altri conteggi temporali, per esempio quello dell’anno giubilare). Un’altra spiegazione offerta da Abudraham è che, poiché tra Pesach e Shavuot il mondo intero è preoccupato di quanto sarà abbondante il raccolto, si debbano contare i giorni per tornare a Dio e pregarlo di concedere un raccolto abbondante, poiché se non c’è farina non c’è Torah. Secondo questa opinione, il conteggio dello Omer servirebbe a ricordarci la precarietà del mondo, la nostra dipendenza dall’abbondanza del raccolto, determinare la quale non è però in nostro potere.

Esiste tuttavia anche un significato più profondo di questo periodo, che lega Pesach e Shavuot questa volta intese come feste storiche, rispettivamente memoriali dell’uscita dall’Egitto e del dono della Torah. È Maimonide a ricordarci nel Morè nevukim che «Le Settimane è il giorno della “concessione della Torah”. Per glorificare e magnificare questo giorno, il computo dei giorni inizia dalla prima festività e termina con esso, come fa chi attende l’arrivo della persona da lui più amata contando i giorni ora ad ora. Questa è la causa del “computo dello omer delle offerte” che parte dal giorno in cui gli Israeliti si allontanarono dall’Egitto e arriva sino al giorno della “concessione della Torah”, che era il fine della loro uscita dall’Egitto: “E vi ho portato da Me” (Es 19,4)». Maimonide, e con lui molti altri maestri, basandosi sulla Torah ricollegano Pesach e Shavuot: lo scopo, unico, dell’uscita dall’Egitto è quello di ricevere la Torah al Sinai. Senza la rivelazione al Sinai, la liberazione dall’Egitto sarebbe priva di significato. E poiché il dono della Torah è un gesto d’amore di Dio per i figli di Israele, essi contano le settimane ed i giorni che li separano da quell’incontro, come fa ciascuno di noi quando sa che incontrerà in un momento prestabilito la persona amata. In questo percorso di avvicinamento al Sinai ogni giorno (letteralmente) conta, ogni giorno ha un significato, ogni giorno deve essere celebrato, nominato, non può trascorrere senza che – alla sera – si sottolinei la sua presenza e così facendo si enfatizzi che si è compiuto un passo avanti verso il momento futuro che dà senso anche al passato.

Ma vi è un ulteriore significato di questo periodo, che si deduce dalla halakah: ciascun giorno conta, certamente, ma solo in relazione agli altri. Secondo l’opinione di diversi maestri, se una persona su cui ricade l’obbligo del conteggio dello Omer (cioè un uomo, perché le donne ne sono esentate) dimentica di contare un giorno, vanifica l’intera mitzwah, poiché è scritto: «E conterete per voi, dal giorno seguente a quello di astensione dal lavoro, dal giorno in cui porterete lo omer che deve essere agitato, sette settimane che siano complete (temimot)». Il testo sembra riferirsi alla completezza delle settimane, non dei singoli giorni, ma qualsiasi sia il riferimento che si voglia trovare per l’aggettivo temimot – siano essi giorni o settimane – ciò che conta è la completezza del processo: il conteggio dello Omer è un’unica, lunghissima mitzwah che si snoda per cinquanta giorni.

Ogni giorno dello Omer è dunque significativo, ogni giorno va preso in considerazione e tenuto da conto, ma nessun giorno basta a se stesso e può avere significato se non è inserito in una catena di giorni e settimane, in un periodo più lungo che prende senso dai singoli giorni e dà senso ad essi. Qualcosa di molto simile è descritto anche nella Torah, quando in Esodo si dice: «Il Signore li guidava di giorno mediante una colonna di nube che indicava loro il cammino, e durante la notte mediante una colonna di fuoco destinata a rischiarare la via, in modo che potessero marciare giorno e notte» (Es 13,21). Che bisogno c’era di marciare giorno e notte? Non sarebbe stato più sensato fermarsi a riposare? Ancora una volta a decidere è la meta, il Sinai che, come nell’incontro con una persona amata, attrae i figli di Israele fino a spingerli a non fermare il cammino né di giorno, né di notte.

 


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