Cultura
Isacco dopo la legatura

Abbiamo provato a chiederci che cosa accada a Isacco dopo la aqedà. Ecco alcune possibili risposte…

Tutti sanno che sono tre i padri di Israele. Chi prende in mano il libro di Bereshit/Genesi, che contiene le loro storie, non fatica però a rendersi conto che lo spazio dedicato a ciascuno dei tre è molto diseguale. Il conto è presto fatto: dopo il racconto delle origini del mondo, del diluvio e di Babele (Gn 1-11) si passa ad Abramo (Gn 12-24), a Isacco (Gn 24-26) e a Giacobbe e famiglia (Gn 27-50). In base a questo criterio, Isacco appare evidentemente schiacciato. Da una parte Abramo, dall’altra Giacobbe; da una parte la perfetta unità, dall’altra la molteplicità; da una parte la contemplazione, dall’altra l’azione; da una parte la fede con il salto nel buio che comporta, dall’altra l’esistenza nel mondo con gli altri e dunque le dimensioni di lavoro, famiglia, economia e politica. E in mezzo?

Come se non bastasse, negli episodi più noti della vita di Isacco riferiti dalla Torà non è lui il protagonista principale, quello su cui il narratore biblico accende la luce dei riflettori. Sono la vicenda della legatura (aqedà) sul monte Morià, nella quale vediamo stagliarsi in primo piano il padre Abramo e, non molte pagine dopo, l’inganno della primogenitura con cui Giacobbe beffa Esaù sfruttando senza scrupoli con la collaborazione della madre la cecità di un Isacco ormai anziano (secondo alcune letture affetto da demenza senile) e l’inadeguatezza del fratello tutto muscoli e niente cervello. Per numerosi commentatori antichi ed esegeti moderni la legatura, che dal punto di vista narrativo costituisce una cesura nel testo, è l’episodio che segna una volta per tutte la vita di Isacco. Abbiamo dunque provato a chiederci che cosa accada a Isacco dopo la aqedà. Ecco alcune possibili risposte.

Il sopravvissuto

Dopo la aqedà Abramo si reca con i servi a Beer Sheva. Fino a qui la Torà, che invece a Isacco non fa cenno, come se la funzione di lui si fosse almeno per il momento esaurita. Racconta il Midrash Hagadol Sefer Bereshit che Isacco viene condotto dagli angeli nel Gan Eden, dove rimane per tre anni durante i quali rimarginano le ferite subite (non solo simboliche: alcuni midrashim fanno riferimento a vere e proprie lesioni e spargimento di sangue). Nella peculiare versione del midrash Shibbolè Haleqet Isacco è addirittura ridotto in cenere e poi riportato alla vita. In entrambi i casi perciò un lungo periodo di convalescenza sembra indispensabile. Anche Bereshit Rabbà si chiede dove sia finito Isacco, rispondendo con le parole di rabbi Berekyà in nome dei maestri babilonesi: “Abramo lo mandò da Sem per imparare da lui la Torà”. Una scuola intergenerazionale degna della migliore tradizione talmudica, poiché Sem figlio di Noè viene collocato dalla cronologia biblica molte generazioni prima di Isacco. A commento del passo interviene rav Roberto Della Rocca nel recentissimo Camminare nel tempo (Giuntina): “È ora che il ragazzo abbia un maestro che non può più essere solo suo padre. La ricerca di studio individualizzato costituisce da sempre, per noi ebrei, una delle più grandi forme di resilienza di fronte a ogni tentativo di soppressione”. Lo studio come risorsa di riabilitazione postraumatica, dunque, che si accompagna alla separazione temporanea dalla famiglia.

I sensi di colpa

Dopo la aqedà la Torà passa a descrivere la morte di Sarah. Anche in questo caso è il midrash a riempire i vuoti del testo biblico, mettendo in relazione i due episodi. Secondo un racconto Sarah scorge in lontananza Abramo tornare solo, pensa che il figlio sia stato sacrificato e muore per il dolore; oppure – è questa l’interpretazione di Rashi – l’anima la abbandona quando riceve la notizia che il figlio è legato all’altare, pronto a essere immolato; o ancora non resiste all’emozione nel sentire Isacco sopravvissuto raccontarle della salvezza inattesa sull’altare all’ultimo istante. Di dolore o di gioia, in ogni caso Sarah muore a causa della aqedà, scrive Catherine Chalier (Le Matriarche, Giuntina), come se la violenza destinata a Isacco fosse stata deviata e invece di esaurirsi avesse colpito al posto del figlio la madre. In questi termini la morte di Sarah rappresenta un esito assurdo su cui uno sguardo aperto alla modernità non può fare a meno di tremare. Un’ingiustizia che arreca al sopravvissuto sensi di colpa: perché lei e non io? Perché lei al mio posto? Domande difficili da ignorare che i reduci dai campi di sterminio hanno riproposto in tempi recenti.

L’orfano

Appena sopravvissuto alla legatura, Isacco diventa così orfano. Segue, nella Torà, la ricerca di una moglie per Isacco da parte del padre, che incarica il fedele servitore Eliezer. Quando Eliezer torna con Rebecca Isacco la conduce “nella tenda di Sarah sua madre, la prese per moglie e l’amò; si confortò così dopo la morte di sua madre”. Secondo Rashi appena entrata nella tenda, Rebecca diventa esattamente come Sarah. In questo modo l’orfano può finalmente consolarsi. Ma non può illudersi che la sua azione passi inosservata alla psicoanalisi freudiana…

Lo specchio del padre

Il midrash sostiene con molti esempi che la vita di Isacco è specchio fedele di quella di Abramo. “Come Abramo corse il rischio di perdere la moglie, così anche Isacco. Come Abramo subì l’invidia dei filistei, così anche Isacco. Come Abramo restò per lunghi anni senza prole, così anche Isacco. Come Abramo generò un figlio giusto e uno empio, così anche Isacco” (Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei II, Adelphi). Si può aggiungere che entrambi devono fare i conti con una carestia, sposano una consanguinea, hanno mogli da principio sterili che fanno passare per sorelle, pascolano greggi e prosperano. Inoltre Isacco scava di nuovo i pozzi di suo padre che i filistei per invidia hanno nel frattempo coperto. Per il Midrash Hagadol dà ai pozzi riportati alla luce gli stessi nomi imposti anni prima da Abramo per rispetto verso il genitore. Questo va a merito di Isacco e spiegherebbe perché conservi tutta la vita il proprio nome, mentre Abramo e Giacobbe ne ricevono altri da Dio.

Colui che resta

Se c’è una grande differenza tra Isacco e Abramo è che il secondo lascia la sua terra di origine e la casa degli antenati, il primo rimane a vivere nel luogo dove è nato. Il compito di Isacco, spiega Bereshit Rabbà, è di farsi una dimora in terra di Israele, seminare e piantare in modo da mantenere sulla terra la shekinà, la presenza divina. Oppure, come suggerisce rabbi Oshayà, perché Isacco è un sacrificio perfetto (il riferimento va naturalmente alla aqedà) e come tale deve rimanere entro il limitare della terra di Israele, qui raffigurata come il tabernacolo nel deserto. Isacco è in ogni caso il più sedentario dei tre patriarchi: non conosce la rottura senza ritorno di Abramo e neanche la rottura con ritorno di Giacobbe. Il primo nato dentro l’alleanza stipulata tra Dio e Abramo non lascia la terra di Israele nemmeno per cercare moglie, come abbiamo visto un impegno assunto da Abramo per il figlio e che viene realizzato dal servitore Eliezer. Isacco lo stanziale diventa oggi, in una lettura trasfigurante, anche il prototipo del colono che impone la propria legge sulle regioni bibliche di Giudea e Samària in spregio alle norme internazionali e israeliane.

All’ombra del padre

Isacco è dunque il figlio di papà per eccellenza, come alcuni esegeti si sono chiesti? Per il midrash è lo stesso Isacco a porsi il problema. Quando Abramo muore, infatti, si interroga su quello che gli toccherà poiché non ha a suo credito le buone azioni compiute dal padre. Per questo motivo, cioè per rassicurarlo, Dio gli si manifesterebbe. Di fatto però l’adesione da parte di Isacco a quello che Della Rocca definisce un “progetto intergenerazionale” non è per forza più semplice dell’inizio del progetto con Abramo. Se Isacco non riportasse alla luce i pozzi scavati un tempo da Abramo, cioè se non raccogliesse l’eredità paterna facendola propria, l’opera del grande genitore si interromperebbe inevitabilmente. Ma c’è anche un altro motivo che la tradizione adduce per esaltare Isacco. “Un’azione è più meritoria quando la si compie richiesti da una mitzvà che quando la si compie spontaneamente”, afferma nel Talmud rabbi Haninà. Di conseguenza il consenso e l’adesione alla legge sono atto di coraggio maggiore della libera scelta. Secondo questa lettura Isacco ha un compito più difficile di Abramo.

L’ostinato

Per la tradizione Isacco è l’uomo severo con se stesso, cioè segnato dal rigore (din), un principio fondamentale ma da temperare con la benevolenza (chesed) simboleggiata invece da Rebecca. Din è obbedienza senza concessioni, giustizia-giustezza, sottomissione alla parola di Dio fosse anche nel momento in cui ne va della propria vita, come durante la aqedà. Dirittura morale, costanza e ostinazione sono caratteri riconosciuti a Isacco, l’uomo che passa la vita a scavare pozzi in regioni brulle e desertiche. Scava alla ricerca dell’acqua, che nella tradizione rabbinica spesso assurge a simbolo della Torà; lotta senza scoraggiarsi con la sabbia per migliorare il mondo portando beneficio anche ai vicini (come sottolinea ancora il Midrash Hagadol) nonostante questi sforzi non vengano da essi riconosciuti; scava per andare oltre le apparenze e trovare una propria strada diversa da quella del padre e nello stesso tempo in continuità con essa.

La discesa dal monte

Per il rebbe di Kotzk la salita al monte Morià e i fatti della aqedà rappresentano una prova durissima, ma il vero sacrificio comincia quando padre e figlio intraprendono la discesa. È una lettura paradossale che richiama alla mente la figura di Sisifo nell’interpretazione di Albert Camus, in cui vediamo sì la creatura della mitologia greca costretta per l’eternità a spingere un macigno su per un monte, ma la vediamo soprattutto libera nel momento in cui scende verso il macigno rotolato a valle. Come il Sisifo di Camus, anche Isacco forse mentre scende dalla montagna è felice. Quello che segue nel testo biblico non è più la storia di un ragazzo dipendente dai genitori ma di un uomo responsabile che si sposa per avere una discendenza e dare continuità al patto stabilito tra Dio e Abramo, cioè assume su di sé consapevolmente il macigno della Torà con i suoi tanti precetti.

La vittima

Rivolgiamoci infine a due poeti israeliani del Novecento che danno letture originali e profonde di Isacco incardinando la sua figura, ancora una volta, al momento supremo della aqedà. Haim Guri nella poesia Retaggioevoca la legatura cominciando con l’ariete, passando ad Abramo e infine a Isacco. Di quest’ultimo si dice, in conclusione:

“Isacco, così si racconta, non fu offerto in sacrificio.

Visse per molti anni,

vide giorni lieti, finché la luce dei suoi occhi si spense.

Ma tramandò quell’ora ai discendenti.

Essi nascono

e un coltello sta loro conficcato nel cuore.”

Come nota Tova Forti (Il sacrificio d’Isacco nella poetica ebraica moderna) il poeta sceglie un tono ironico e distaccato per mettere in discussione i miti delle origini, ma allo stesso tempo è consapevole della forza e dell’attualità di questi miti. Per Guri Isacco “tramandò quell’ora ai discendenti”: ma il prezzo da pagare per realizzare l’antica promessa è molto alto.

Concludiamo con una poesia di Yehudà Amichai che fin dal titolo – Abramo aveva tre figli – si confronta coraggiosamente con il racconto biblico. Abramo, scrive Amichai, aveva non due ma tre figli: Ismaele (Ishmael, alla lettera “Dio ascolterà”), Isacco (Yitzhak, “colui che riderà”) e Yivkè (“colui che piangerà”), il più piccolo e più amato.

“Ismaele lo salvò sua madre Hagar, Isacco lo salvò l’angelo,

e Yivkè non lo salvò nessuno

[…]

E nella Torà è scritto ariete, ma quello era Yivkè”.

Insistendo sul gioco di parole dettato dal significato dei nomi, Amichai aggiunge che Ismaele “non sentì più parlare di Dio per tutta la vita”, Isacco “più non rise per tutta la vita” e anche Sara “rise una volta sola e non più”. Ogni vittoria ha un prezzo, dice il poeta, spesso tanto più doloroso quanto più quella è grande. Forse, in fondo, il figlio prediletto di Abramo è stato sacrificato.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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