Cultura
Itamar Orlev: quella canaglia di mio padre

Al tramonto dell’era sovietica un uomo fallito cerca una riconciliazione impossibile con il genitore: la recensione del romanzo dello scrittore israeliano

«E la cosa più assurda è che morirò così, senza sapere chi sono», è una frase che pronuncia uno dei protagonisti di Itamar Orlev: la leggiamo nel suo primo romanzo intitolato Canaglia (Giuntina). Quello che abbiamo tra le mani è un libro scritto con maturità, sobrietà, umorismo e compassione, un libro che nonostante tutto ama la vita. Un libro sul perdono, sulla violenza e sui delicati equilibri tra le generazioni.

Siamo nel 1988, la storia che leggiamo si svolge al tramonto dell’era sovietica. Tadek, il protagonista, è un uomo a cui la vita è stata negata, ma che continua a rincorrerla, in un presente che lo avvolge pesante come un macigno. Egli si reca in Polonia da Israele per incontrare il padre Stefan, un vecchio corroso dalla vodka e braccato dai fantasmi delle atrocità che ha subito e perpetrato durante la Seconda Guerra Mondiale. Le sue vicende sono raccontate dall’autore in prima persona, Tadek è uno scrittore fallito e abbandonato dalla moglie, costretto a sopportare l’ennesimo dei tanti dolori che hanno segnato la sua vita, fin da bambino. La canaglia del titolo è suo padre, che egli decide di incontrare dopo tanti anni, recandosi in Polonia, lì dove l’ormai anziano genitore vive in una casa di riposo, e lì dove il protagonista aveva trascorso la sua infanzia, fino a quando la madre non aveva deciso, lasciando il marito, di emigrare in Israele portando con sé i quattro figli. Quattro ragazzi spaventati, che fino a quel momento erano stati maltrattati insieme alla loro mamma da un padre padrone, ridotti in miseria da quel genitore sanguisuga e ubriacone in una Polonia anch’essa terribilmente brutale e violenta.

Il ritmo incalzante del romanzo spesso diventa febbrile, il tempo del racconto si snoda in un alternarsi di presente e passato, e ancora altro passato sovrapposto al presente e al passato: tempi che fluttuano nella storia come in un quadro di Chagall, tempi in cui ci si smarrisce, e il lettore può pericolosamente perdersi nel vortice dei ricordi che sembrano arrivare alla rinfusa nella mente del protagonista. Nello stesso tempo si ha voglia di sfogliare le pagine con un desiderio sempre crescente di penetrare in quei pensieri, di scoprire tutto ciò che si concentra in una trama piuttosto scarna, ma densa di emozioni, colori, ambienti, sapori.

Il momento fondamentale dell’intera narrazione è l’incontro col padre: lo sgomento di vederlo così cambiato, con un aspetto che non ricorda nemmeno lontanamente l’uomo crudele, forte e violento che era stato, tanto che Tadek lo descrive come «un vecchietto confuso, innocuo, e i baffi ricordavano quelli di Charlie Chaplin».

Un uomo inerme, debole e provato nel fisico, imbruttito dagli anni, perfino intenerito, ma che conserva ancora qualche lampo di crudeltà negli occhi e nell’anima. Un padre ossessionato dalla vodka, il cui sapore pungente lo si sente trapelare nelle pagine, e del cui odore il lettore quasi si inebria, ubriacandosi a sua volta.

Un figlio disorientato e a tratti ancora in preda a quel timore reverenziale che lo soffocava da bambino. Ora, da adulto, non riesce a provare compassione, e non tenta di perdonarlo, non può. Eppure, in quell’incontro egli aveva riposto delle aspettative, ma adesso dentro di sé sa bene che tutti gli sforzi tesi alla ricerca di una riconciliazione impossibile, sono destinati a fallire.

«Padri e figli cercano di aggrapparsi l’un l’altro ma rimangono estranei, quel riconoscimento che tentiamo di ottenere dai nostri padri non arriverà mai», è una delle tante riflessioni dell’autore, in una lettura che toglie il fiato, che lascia frastornati. Nei flussi di pensiero allineati nella bellezza e nella qualità della scrittura, si vive una storia complessa, fatta di risonanze di una realtà confusa, recante i tratti universali della condizione dell’umana esistenza, schiacciata da un desolante quadro sociale che rende ancora più pesanti le già difficili dinamiche relazionali raccontate dall’autore. Non si può non provare la stessa rabbia impotente del protagonista, che nell’incontro col padre vede frantumarsi le ultime speranze di riconciliazione, con l’anziano genitore ma anche con se stesso, quando si rende conto che ormai tutto resterà irrisolto, quando affiora il disincanto insieme alle verità mai confessate, quando prendono voce i silenzi nei vicoli ciechi dei ricordi più dolorosi.

«Gli volevo bene. Lo odiavo. Volevo bene al padre che odiavo», in queste parole ritroviamo quel nodo che il protagonista non è riuscito a sciogliere nonostante tutti i suoi sforzi, ed è anche il punto cruciale intorno al quale ruota l’avvincente storia narrata da Orlev.

 

Eirene Campagna
collaboratrice

Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.


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