Cultura
La Shoah in Olanda

Un approfondimento sulla storia dei Paesi Bassi, a partire dal libro di Nina Siegal, “The Diary Keepers: World War II in the Netherlands, as Written by the People Who Lived Through It”

Il laborioso lavoro svolto da Nina Siegal con The Diary Keepers: World War II in the Netherlands, as Written by the People Who Lived Through It si confronta con la specificità della tragedia che coinvolse gli ebrei olandesi. Un punto, infatti, da non dimenticare è che dirimente fu il modo in cui i paesi occupati dai nazisti si comportarono rispetto alle persecuzioni e alla deportazioni. In altre parole, la riuscita o meno dei piani di distruzione di massa si dovette sempre confrontare con gli atteggiamenti, le reazioni e le condotte della pubblica opinione di quegli anni. Anche per questo ne derivarono situazioni estremamente articolate, a seconda delle nazioni prese in considerazione. Se nei paesi dell’Est la Shoah fu portata alle sue estreme conseguenze, mano a mano che ci si spostava verso ovest le procedure e i metodi mutavano, seguendo una sorta di azione a geometria variabile, con la quale venivano tenuti in considerazioni alcuni indici fondamentali: il grado di compromissione della autorità locali, la disposizione d’animo della popolazione (così come la manifestazione di eventuali resistenze al riguardo), la maggiore o minore presenza delle unità di specialisti addetti alle deportazioni, il grado di penetrazione dell’antisemitismo tra la collettività e, con esso, la possibilità di tradurlo in una strategia di annientamento del locale insediamento ebraico e così via.

Se in Oriente le cose si rivelarono per i nazisti da subito agevoli, trovando spesso un’attiva collaborazione in diversi segmenti delle società locali, in Occidente, invece, i fatti si disposero diversamente. I pianificatori dello sterminio, e i comandanti delle unità operative ad esso preposte, sapevano bene che un conto era adoperarsi contro gli ebrei nelle gigantesche lande orientali, al riparo da sguardi troppo indiscreti, giocando – inoltre – al medesimo tempo le carte dell’antigiudaismo e quella anticomunista; altro discorso, invece, era la ricaduta nei paesi occidentali, dove il pluralismo politico e culturale precedente all’occupazione nazista aveva lasciato una tangibile traccia. Così come non si poteva non tenere in considerazione la presenza di una pubblica opinione che, malgrado i tentativi tedeschi di assoggettare e livellare le società locali, continuava a esprimere idee e sentimenti collettivi a sé stanti. Inoltre, mai a Berlino furono sottovalutate le reazioni che da Washington, piuttosto che nello Stato del Vaticano, sarebbero derivate dinanzi alla tangibilità pubblica dell’operato della macchina della morte. La quale, nei fatti, si mosse contemperando, al medesimo tempo, l’inesorabilmente visibile (le deportazioni in massa) e il calcolatamente celato (i metodi di assassinio collettivo). Il fatto che tutto si consumasse nel corso di una guerra mondiale, dai caratteri non solo furiosamente ideologici ma anche sterminazionisti («o loro oppure noi») agevolò di molto queste procedure criminali.

Si inserisce quindi in questo ordine di considerazioni il destino degli ebrei olandesi, sottoposti, al pari del loro Paese, al regime di occupazione nazista che durò, di fatto, dalla seconda metà di maggio del 1940 alla primavera del 1945. I Paesi Bassi, da questo punto di vista, si rivelarono un caposaldo nel sistema di difesa tedesco, destinato a cedere solo in ultimo, dinanzi alla sconfitta definitiva oramai incombente. Il dato da cui partire è che fu proprio in essi che lo sterminio raggiunse, proporzionalmente, i livelli più significati registrati in un paese occidentale.
Ancora nel 1941, quando la macchina delle deportazioni da ovest ad est iniziò a mettersi progressivamente in moto, circa 140mila ebrei – secondo le definizioni comprese nelle leggi di Norimberga del 1935 – risiedevano nell’insieme dei territori olandesi. Si trattava dei Volljuden, i cosiddetti «ebrei a pieno titolo». La grande maggioranza era autoctona anche se il Paese ospitava un numero variabile di rifugiati, dai 10mila ai 30mila, provenienti, tra il 1933 e la primavera del 1940, dalla Germania e dall’Austria. Buona parte di questi ultimi, benché avessero pensato all’Olanda come ad un luogo di transito, tuttavia non sarebbero riusciti ad espatriare, subendo poi gli effetti delle persecuzioni tedesche. Alcune fonti naziste stimavano tuttavia una presenza ancora maggiore di ebrei, calcolandola intorno ai 154mila elementi (121mila membri nella componente aschenazita, 4.300 di origine sefardita, 19mila soggetti con due o tre nonni ebrei, 6mila con un nonno ebreo, alcune migliaia di convertiti ad una chiesa cristiana). Nel complesso, l’insediamento ebraico olandese era quasi esclusivamente metropolitano. Quasi 79.500 elementi vivevano ad Amsterdam, 25.617 nell’Olanda meridionale e il resto disperso nelle province del Paese.

Il dato più appariscente è la polarizzazione socioeconomica: a fronte di un grande numero di persone e famiglie addette ad attività povere nel terziario commerciale e nell’artigianato, soprattutto venditori ambulanti, vi era un ristretto circuito di soggetti non solo benestanti ma spesso facoltosi. Una tale divaricazione si rifletteva immediatamente sugli indirizzi politici prevalenti (perlopiù a sinistra, tra le fasce di popolazione maggiormente modeste; maggiormente conservatori, per quelle restanti), sulla composizione dei gruppi dirigenti comunitari (costituiti perlopiù da elementi provenienti dalla componente più affluente), sulle stesse relazioni intercomunitarie, connotate da una sostanziale frammentazione dettata dalle diverse appartenenze sociali, sulla distanza nei confronti del sionismo, inteso come movimento “borghese”. Anche il ricorso alla religione era relativamente contenuto. Nel suo insieme, il proletariato ebraico olandese, di contro a quello belga, era connotato da una scarsa affiliazione ad organizzazioni militanti. La frammentazione organizzativa, la mancanza di forti legami ideologici, culturali e solidali tra omologhi e affini, la rilevanza secondaria dell’identità religiosa, l’assenza di leader comunitari carismatici furono elementi che avrebbero avuto un peso rilevante nelle dinamiche delle persecuzioni e delle deportazioni naziste.

Queste ultime, peraltro, seguirono una prassi peculiare: se in un primo tempo le autorità di occupazione dichiararono di non volere adottare misure restrittive troppo stringenti, già nell’ottobre del 1940, quindi cinque mesi dopo la conquista militare dell’Olanda, iniziarono ad applicare le prime norme discriminatorie, seguendo il crescendo tipico che ne caratterizzava la realizzazione: impedimento delle macellazioni rituali, espulsione dagli uffici e dagli incarichi pubblici, esclusione progressiva dal sistema scolastico prima dei docenti e poi degli studenti, impedimento di accesso ai locali pubblici, confisca delle radio e dei mezzi di trasporto, segnatura della “razza” sui documenti d’identità. Entro il gennaio del 1941 fu inoltre realizzata la schedatura della popolazione ebraica, i cui dati furono poi confrontati e interpolati con quelli a disposizione dell’anagrafe, in sé particolarmente accurati. La mappatura della presenza ebraica fu quindi pressoché completa e molto accurata.

Le prime deportazioni, verso il campo nazista in terra austriaca di Mauthausen iniziarono quindi a febbraio e proseguirono, presentate come misure di rappresaglia e punizione, nei mesi successivi. Sempre a febbraio del 1941 fu costituito lo Joodische Raad, il consiglio ebraico, in ottemperanza alle richieste tedesche che obbligavano all’istituzione di un organismo comunitario per tradurre in fatti le norme che, di volta in volta, venivano imposte agli ebrei, occupandosi inoltre del coordinamento della vita comunitaria ebraica. All’epoca, la situazione dell’ebraismo olandese era caratterizzata anche da alcune variabili che ne avrebbero segnato il destino. La prima di esse era la subitaneità della conquista tedesca che aveva fatto sì che, a fronte del fatto che la famiglia reale e il governo fossero riparati a Londra, le amministrazioni pubbliche erano rimaste invece pressoché intatte, di fatto poi transitando quasi asetticamente al comando degli occupanti. Tutte le informazioni relative alla popolazione e alla vita civile e associata nei Paesi Bassi erano quindi state raccolte senza troppi problemi dai tedeschi. I quali, peraltro, contrariamente al caso di altre occupazione territoriali, non avevano istituito un’amministrazione militare, affidandosi invece a quella civile alle dirette dipendenze germaniche (la cosiddetta «mafia austriaca», composta da funzionari di partito legati ai nazionalsocialisti austriaci). Ciò, tuttavia, fece sì che le polizie tedesche e le SS, disgiunte da una qualche forma di controllo (e supervisione) dell’esercito tedesco, potessero operare con un grado di maggiore autonomia rispetto ai vincoli imposti dalle autorità militari di occupazione. Il secondo elemento rilevante è che le dimensioni del Paese, insieme alla densità della sua popolazione e alla mancanza di aree forestali, boschive o comunque extraurbane nelle quali cercare di riparare almeno temporaneamente, rendevano estremamente difficile trovare facili rifugi. Per molti, anche se avessero tentato di spostarsi, sarebbe stato impossibile celare la propria identità. Un’ulteriore variabile era la mancanza di risorse proprie per la grande maggioranza delle famiglie, fatto che impediva di accedere a qualsiasi opzione di fuga.

Nel suo insieme, il concorso attivo delle pubbliche amministrazioni nell’identificazione, ed eventualmente nell’arresto, della popolazione ebraica agevolò enormemente il lavoro dei tedeschi. Tuttavia va anche ricordato che all’inizio del 1941 una parte della popolazione olandese – soprattutto i portuali e i dipendenti comunali – aderì al Februaristaking, lo «sciopero di febbraio», tra il 25 e il 26 di quel mese, convocato contro le misure antisemite e le attività delle autorità di occupazione. Lo sciopero fu proclamato come diretta causa dei pogrom da parte dei nazisti contro gli ebrei di Amsterdam. Benché sul piano concreto non potesse prefiggersi alcun obiettivo, tuttavia rappresentò la prima manifestazione pubblica di dissenso collettivo in un paese occupato. Alla quale si accompagnò l’azione delle Chiese, che assunsero in più circostanze una posizione apertamente contraria alle persecuzioni e poi alle deportazioni.

Nel settembre del 1941 si avviò quindi la seconda fase della distruzione dell’ebraismo olandese. A quel punto, con l’apertura di due uffici centrali «per l’emigrazione ebraica» (Zentralstelle für Jüdische Auswanderung) ad Amsterdam e all’Aja, si concretizzò la ramificazione operativa dell’attività nazista antiebraica. Mentre gli studenti ebrei venivano espulsi definitivamente dalle scuole, fu introdotto l’obbligo di portare una stella di David sugli abiti (aprile del 1942), venne imposto il deposito dei denari, dei beni mobili e dei patrimoni finanziari su conti bloccati controllati dalla Germania, la cessione forzata dei beni immobili, la libertà di licenziamento dei dipendenti ebrei da parte delle imprese, il divieto di accesso a molte professioni. Nel giro di pochissimo tempo, l’isolamento e la segregazione divennero pressoché totali.

A giugno del 1942, quindi, le persecuzioni entrarono in una terza fase. Allo Joodische Raad venne comunicato che una parte della popolazione ebraica sarebbe stata inviata nell’Europa orientale, in appositi campi di lavoro. Le ultime misure restrittive, tra le quali il sequestro dei mezzi personali di locomozione, l’interdizione all’uso dei trasporti pubblici, il divieto di comunicare per telefono o con altri strumenti, la clausura domestica durante la notte, l’obbligo per alcune famiglie residenti in aree non urbane di recarsi ad Amsterdam e di rimanervi, perfezionarono e chiusero il cerchio dell’annichilimento sociale. La polizia tedesca, utilizzando gli elenchi redatti dall’amministrazione olandese, iniziò quindi a stilare le liste dei deportati. Nonostante la richiesta – formulata su avvisi di convocazione – di presentarsi “spontaneamente” ai luoghi di raccolta (in attesa di essere caricati sui convogli, la partenza del primo dei quali era stata prevista per il 14 luglio 1942), molti cercarono di evitare l’obbligo. Si ricorse quindi ad una serie di arresti in massa, alternati al ricatto, rivolto ai membri del consiglio ebraico, di misure detentive e punitive qualora esso stesso non avesse attivamente partecipato all’identificazione dei propri correligionari. Di fatto l’insieme di queste prassi vessatorie risultarono comunque insoddisfacenti. A settembre si passò quindi alla pratica dei rastrellamenti notturni, con la cattura di centinaia di persone, perlopiù intere famiglie, di volta in volta. I centri di raccolta erano concentrati ad Amsterdam, ed in particolare le sedi dello Zentralstelle e dello Hollandsche Schouwburg, un teatro nazionale. Chi si presentava di propria spontanea “volontà” poteva confidare inizialmente in un trattamento meno duro di quanti, invece, erano stati arrestati. Da lì, come dai commissariati di polizia, gli imprigionati venivano quindi trasferiti al campo di transito di Westerbork (istituito dal governo olandese nel 1939 per fornire un primo riparo agli esuli provenienti dalla Germania), nell’Olanda nord-orientale che, insieme al lager di Herzogenbush-Vught e a quello di Amersfoort costituivano la rete di raccolta di ebrei e tzigani olandesi destinati ai campi di concentramento e di sterminio. L’esperienza transitoria dei campi di transito era basata senz’altro sulle privazioni ma, tuttavia, non impediva che si potessero tenere ancora unite le famiglie, garantendo loro ancora qualche residua considerazione. Ogniqualvolta veniva costituito un convoglio diretto ad Est, venivano quindi pubblicati gli elenchi dei deportati, i quali dovevano prepararsi per essere trasportati «verso ignota destinazione».

Nell’ottobre l’attenzione dei carnefici fu rivolta al di fuori di Amsterdam, passando al pettine l’intera Olanda. In quella circostanza, molti ebrei furono rinchiusi in campi di lavoro coatto. A novembre, il sistema delle esenzioni per la manodopera al servizio dell’occupante (12mila elementi) fu sospeso. Dopo una nuova ondata di arresti ad Amsterdam, con il maggio del 1943 venne deciso di passare alla fase finale, quella che – nelle intenzioni naziste – avrebbe dovuto garantire l’eliminazione definitiva di tutta la comunità ebraica nazionale. Fino al settembre di quell’anno, rastrellamenti, arresti e imprigionamenti si succedettero a ritmo pressoché continuo. Anche il consiglio ebraico fu decimato, e di fatto concluse la sua esistenza.
La quarta ed ultima fase dell’annichilimento e della persecuzione venne quindi intrapresa nell’autunno, quando si procedette ancora alla cattura degli individui, ma questa volta sempre più spesso singolarmente. Contestualmente, le deportazioni in gruppo verso la Germania, e poi la Polonia occupata, iniziarono il 15 giugno 1942 e terminarono il 13 settembre 1944. Nel suo insieme, circa 101.000 ebrei furono deportati in 98 trasporti da Westerbork ad Auschwitz (57.800 su 65 trasporti), Sobibor (34.313 su 19 trasporti), Bergen-Belsen (3.724 su 8 trasporti) e Terezin (4.466 su 6 trasporti), luoghi nei quali la stragrande maggioranza di coloro che vi giunse fu assassinata. Altri 6mila ebrei furono deportati da altri campi di transito (come Vught) nei campi di concentramento in Germania, Polonia e Austria. Solo 5.200 persone, nell’insieme, sopravvissero. La resistenza olandese riuscì a nascondere due decine di migliaia di ebrei mentre 16.500 riuscirono a sopravvivere alla guerra nascondendosi. Da 7mila a 8mila persone invece sopravvissero fuggendo in Spagna, Regno Unito e Svizzera, oppure sposandosi con non ebrei, fatto che impediva la deportazione immediata.

Secondo le stime di Gerhard Hirschfeld (Niederlande, nel volume a cura di Wolfgang Benz Dimension des Völkermords: Die Zahl der jüdischen Opfer des Nationalsozialismus, pubblicato a Monaco di Baviera nel 1991), dal 1941 all’inizio del 1942 1.700 ebrei olandesi furono deportati a Mauthausen mentre un altro centinaio finì nei campi di Buchenwald, Dachau, Neuengamme. Gli scampati alla morte vennero poi trasportati ad Auschwitz. Del pari, altri 2mila ebrei olandesi furono prelevati dalla Francia e dal Belgio e inviati ad Auschwitz. La successione dei convogli fu quindi la seguente: dal 15 luglio 1942 al 23 febbraio 1943, circa 42.915 deportati da Westerbork ad Auschwitz, con 85 sopravvissuti; dal 20 agosto all’8 dicembre 1942, 3.540 imprigionati portati in distinti campi di lavoro forzato, con 181 sopravvissuti; 34.313 deportati a Sobibor dal 2 marzo al 20 luglio 1943 e tutti, tranne 19, immediatamente assassinati; dal 24 agosto 1943 al 3 settembre 1944, 11.985 deportati da Westerbork ad Auschwitz, con 588 sopravvissuti; dal 15 novembre 1943 al 3 giugno 1944, 1.645 deportati da Vught ad Auschwitz, con 198 sopravvissuti; dal 1943 al 1944, 4.870 ebrei inviati da Amsterdam e Westerbork a Theresienstadt, con 1.950 sopravvissuti; nell’ottobre 1943, 150 ebrei da Westerbork a Buchenwald e Ravensbrück; nel 1944, 3.751 deportati da Westerbork a Bergen-Belsen. Questo trasporto ha registrato il maggiore tasso di sopravvivenza, con 2.050 ebrei sopravvissuti.

Nel complesso, calcolando anche gli imprigionamenti individuali e le detenzioni che sfuggono alla contabilità dei convogli, 107mila ebrei furono deportati dall’Olanda, sia che fossero, nella stragrande maggioranza dei casi, cittadini del Paese occupato sia che appartenessero ad altra nazionalità. Come già si è detto, in tutto ne sopravvissero 5.200. Tre quarti della popolazione ebraica prebellica era stata in tale modo annientata. Alla fine della guerra, risultavano in vita 35mila ebrei olandesi. Cifre più precise parlano di 34.379 scampati o ritornati dai campi (comprendendovi anche gli oltre 8mila soggetti che avevano contratto matrimonio misto), mentre 14.545 persone erano sopravvissute in quanto “mezzi ebrei” e 6mila in quanto ebrei per “un quarto”. Nel 1947 nei Paesi Bassi vivevano non più di 14.346 ebrei, posta anche la massiccia emigrazione dei sopravvissuti verso altri Paesi, a partire dal futuro Stato d’Israele.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. Gent. Professore, grazie e complimenti per il bell’articolo. Incuriosisce la diversità tra ebrei poveri belgi e olandesi riguardo l’associazionismo. Minore diffusione delle lotte contadine e operaie? Un cordiale saluto per lei.


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