Hebraica
La storia dimenticata di Achab

Ritratto (inatteso) del peggiore dei re

Se c’è un personaggio intorno a cui il Tanakh costruisce una vera e propria leggenda nera questo è Achab, re di Israele. Non a caso Hermann Melville, profondo conoscitore di quello che per lui è l’Antico Testamento, sceglierà il suo nome per il terribile capitano che va a caccia di Moby Dick, la balena bianca (clicca qui per una lettura ebraica del romanzo).

Nei confronti di Achab la tradizione rabbinica non migliora molto le cose, se la stessa Mishnà lo annovera tra i pochissimi figli di Israele per i quali non ci sarà posto nel mondo a venire. Anche il midrash è severo con Achab, però non più di quanto lo sia il testo biblico. Anzi, attribuisce alcuni dei crimini peggiori del sovrano alla nefanda influenza della moglie Jezabel (anche in questo caso un nome riutilizzato nella letteratura, per esempio da Irène Némirovsky nell’omonimo romanzo). Ciononostante, secondo i Pirkè di rabbi Eliezer, perfino la torva Jezabel possiede qualche virtù perché è solita partecipare alla gioia durante i matrimoni e al dolore durante i funerali. Come ricompensa, conclude il midrash con buona dose di black humour, le parti del suo corpo con cui aveva compiuto queste buone azioni sono lasciate intatte dai cavalli che la calpestano a morte nella piana di Izreel.

“Achab, figlio di Omri, più di ogni altro suo predecessore fece ciò che è male agli occhi del Signore”, esordisce il Tanakh. Lui e Jezabel, figlia del re di una città fenicia, si prostrano di fronte a idoli, edificano un tempio a Baal provocando lo sdegno divino e ordinano l’uccisione di tutti i profeti del dio di Israele, tra cui spiccano Elia e Eliseo. A Achab viene inoltre riconosciuta la colpa di aver risparmiato la vita a un nemico vinto in battaglia (un motivo già presente nella storia di Saul). Infine la regina accusa falsamente un certo Navot, proprietario di una vigna su cui la malvagia coppia ha messo gli occhi per allargare il palazzo reale, provocandone la lapidazione. Ma ecco Elia apostrofare Achab con la più tremenda delle profezie: “Nel luogo ove i cani hanno leccato il sangue di Navot, i cani leccheranno anche il tuo sangue”. La casa di Achab sarà distrutta, né libero né schiavo scamperà all’ira del Signore, continua implacabile il profeta. Jezabel sarà divorata dai cani, altri dagli uccelli del cielo. Inutile aggiungere che la profezia si avvera alla lettera.

Si sarà ormai capito che questa storia, come numerose altre che riguardano i re di Israele, non arretra di fronte a profezie inquietanti, vendetta e strage. Va ribadito però che in questo caso non sono i rabbini di età tardoandica gli autori del ritratto nero di Achab, anche se alcune tradizioni non mancano di un certo accanimento, in particolare come si diceva nei confronti della consorte. Il ritratto del peggiore dei re è fornito direttamente dal Tanakh nel primo libro dei Re. Le variazioni sul tema del midrash, in altre parole, sono colorate ma non sorprendenti. La domanda allora va spostata indietro dal midrash al Tanakh. Perché il testo biblico ritrae Achab come una belva assetata si sangue?

Per provare a rispondere è indispensabile chiedersi in primo luogo se Achab sia esistito oppure no, rivolgendosi a fonti esterne al Tanakh e in particolare all’archeologia. La questione non è oziosa, perché non c’è oggi archeologo che supponga siano personaggi e avvenimenti storici Mosè, l’esodo, i quarant’anni nel deserto e la conquista di Canaan sotto la guida di Giosuè, per non parlare dei patriarchi. Alcuni mettono in dubbio perfino l’esistenza di David e Salomone, che in ogni caso, se storici come sembra probabile, dovevano controllare un territorio povero, limitato ai colli intorno a Gerusalemme e scarsamente popolato, condizioni ben diverse dai fasti attribuiti loro nelle Scritture. Fermiamoci un attimo. Che Abramo, Mosè e forse anche David non siano esistiti cambia qualcosa? Dipende. Certamente sì se ci occupiamo di ricostruire la storia del Medio Oriente antico (o se ci illudiamo che l’archeologia possa offrire argomenti ai sostenitori di modernissimi identitarismi e nazionalismi). Certamente no, invece, da un’ottica interna alla tradizione ebraica. Il fatto che per quasi tremila anni una serie di racconti sia stata ripetuta, codificata e abbia plasmato il modo in cui una comunità pensa, spera e agisce rappresenta di per sé una verità. La storia è forse inventata, ma il racconto è vero.

Torniamo a Achab. Gli archeologi Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman si soffermano sulla sua figura nel fondamentale Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito (Carocci). Il Tanakh descrive i regni di David e Salomone come un’età dell’oro segnata da una serie di vittorie militari, da accordi diplomatici e dall’edificazione del magnifico Tempio a Gerusalemme. Poi alla morte di Salomone leggiamo della secessione del regno del nord sotto la guida di Geroboamo, violento e idolatra. La sfilza dei re che seguono vengono sostanzialmente valutati dai libri dei Re in base alla somiglianza con il ribelle Geroboamo. Più simili a Geroboamo, più malvagi. Nel complesso i compilatori del testo biblico sono severi nei confronti di quasi tutti i re del nord (regno di Israele), mentre verso quelli del sud (regno di Giuda) alternano valutazioni negative e positive. Ma i giudizi in assoluto peggiori – con un mix impressionante di violenza, avidità e idolatria – vanno al re Omri e alla sua dinastia, che comprende anche Achab. Gli omridi regnano a nord, secondo la cronologia biblica, dall’884 all’842, e per più della metà del periodo è Achab a tenere il potere. La datazione è confermata da fonti esterne testuali e archeologiche. Questo è un aspetto fondamentale perché ci mette di fronte ai sovrani di Israele più antichi di cui l’esistenza storica è accertata. Quello che però emerge da una serie di iscrizioni monumentali è a dir poco sorprendente, perché descrive gli omridi, cioè Omri e i suoi discendenti, da una prospettiva molto diversa da quella biblica, e precisamente come potenti capi di un regno affermato con una burocrazia e un forte esercito, perfettamente integrato nel contesto geopolitico del Mediterraneo orientale. Una stele assira, per esempio, riferisce di una battaglia a Qarqar, in Siria, tra il re assiro Salmanassar III e una coalizione guidata, almeno stando agli effettivi messi in campo, da nientemeno che “Achab l’israelita”. È la prima volta in cui un re di Israele viene citato al di fuori del Tanakh. Nella stele Salmanassar III rivendica la vittoria, cosa però perlomeno dubbia dal momento che non esiste traccia di un allargamento dei domini assiri negli anni successivi allo scontro. Una seconda lapide, questa volta moabita, lamenta l’oppressione subita da Moab da parte di Omri, padre di Achab. Allo stesso tempo sono stati scoperti grandi palazzi omridi nelle città di Samària, Hazor, Izreel, Ghezer e Meghiddo. Per un certo periodo, sulla scorta delle descrizioni bibliche, i resti delle costruzioni in questi centri del nord sono stati retrodatati al periodo salomonico, una ipotesi però che secondo Finkelstein non regge a una analisi più attenta. Quanto emerso dagli scavi permette di collocare il regno del nord tra le monarchie rilevanti della regione, centro di scambi commerciali non privo di ambizioni territoriali; e per converso di delimitare la regione controllata da Gerusalemme a sud a un territorio piccolo, montuoso, poco progredito e non molto abitato.

E le tracce del culto? Sono molte, ma non permettono di identificare nel regno del nord una monarchia ebraica. Resti di altari, statuette, idoli per la devozione domestica: non c’è discontinuità significativa tra i centri del regno del nord e le città cananee, aramee e fenicie. La stessa espressione “monarchia ebraica”, a ben vedere, è del tutto anacronistica. Risale, infatti, a un periodo successivo, e precisamente a quello della compilazione dei libri dei Re, avvenuta nel regno del sud alla fine del VII secolo, nel periodo del re Giosia (anche se è verosimile che alcuni materiali siano più antichi). Esiste ampio accordo tra gli studiosi sul fatto che i libri dei Re, insieme a Deuteronomio, Giosuè, Giudici e Samuele, siano testi che danno un sostegno ideologico alla grande riforma religiosa in senso monoteistico che il regno di Giuda intraprende con Ezechia (727-698) e soprattutto con Giosia (639-609). La fonte di questa parte del Tanakh, definita deuteronomistica, viene scritta dopo la fine del regno del nord ad opera assira, quando il regno del sud, con capitale Gerusalemme, comincia rapidamente a svilupparsi.

I deuteronomisti intervengono in misura limitata anche in punti significativi degli altri libri, per esempio in Bereshit/Genesi per sottolineare il primato di Giuda tra i figli del terzo patriarca Yaakov. Sono questi autori a collegare la potenza militare degli omridi a idolatria, politica di potenza e ingiustizia sociale. Proprio perché avevano edificato un regno tanto forte in competizione con quello di Giuda, Omri e Achab vengono esecrati e destinati a orribile fine. Il regno settentrionale, egemone nella regione al punto da riuscire a confrontarsi militarmente con l’Assiria alla pari (almeno fino a un certo punto), gettava ombra sul povero regno rurale di Giuda, in cui la stessa Gerusalemme non doveva contare secondo Finkelstein e Silberman molto più di 1000 abitanti. Stiamo naturalmente parlando della Gerusalemme del tempo di Achab; quella del tempo di Giosia, oltre duecento anni dopo, è una città in crescita, ricca di fermenti e produzione culturale, oltre che di inedite ambizioni politiche. Lo stesso internazionalismo del regno omride diventa, nell’ideologia rivoluzionaria dei deuteronomisti, una violazione della legge divina. Eppure sono proprio gli strali con cui gli autori della riforma religiosa colpiscono Achab a confermare, insieme alle fonti esterne e alle testimonianze archeologiche, che questo re e non altri è stato a capo del primo regno dimenticato di Israele.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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