Hebraica
Lag Baomer, una storia di luce e tenebra

Nessuna festa, tre feste insieme. Storie e letture intorno a questo giorno del calendario ebraico

Lag Baomer cade il 18° giorno del mese di Iyar e il 33° dell’Omer, il periodo di sette settimane tra Pesach e Shavuot in cui è prescritto di contare i giorni uno dopo l’altro. Il nome di questa festa minore deriva dalle due lettere ebraiche che insieme hanno il valore numerico di 33, lamed (l, 30) e ghimel (gh, 3), da cui lag. Se sfogliamo la Torà però non troviamo alcun riferimento alla ricorrenza, e lo stesso vale prendendo in considerazione l’intera letteratura ebraica del periodo del secondo Tempio e quella rabbinica classica, Mishnà e Talmud inclusi. Su Lag Baomer neanche un cenno. Dalle fonti antiche e tardoantiche non risulta un particolare significato dato al 33° giorno dell’Omer rispetto ai giorni precedenti e successivi. Le radici di Lag Baomer vanno cercate più avanti, nel medioevo.

Oggi la tradizione più caratteristica di Lag Baomer è quella dei falò su cui, laddove possibile (in Israele capita un po’ ovunque) i festaioli arrostiscono cibi di ogni genere. Come da noi a Capodanno (quello solare alla mezzanotte del 31 dicembre) con i fuochi artificiali, in Israele a Lag Baomer capita tutti gli anni qualche disastro, per esempio quando a qualcuno il fuoco scappa di mano e diventa un incendio. Ma perché Lag Baomer? Secondo la tradizione in ricordo della fine di una terribile pestilenza costata la vita a migliaia di studenti di yeshivà al tempo dell’impero romano. Le prime tracce della celebrazione risalgono all’alto medioevo, intorno al IX secolo, quando i giorni dell’Omer assumono poco alla volta il significato di giorni di lutto in ricordo di una pagina tragica del Talmud. Nel trattato Yevamot (62b) si racconta infatti di “dodicimila coppie di discepoli” che rabbi Akiva aveva da un capo all’altro della Giudea uccisi da un imprecisato male in un determinato torno di tempo. La causa dello sterminio dei discepoli è individuata dalla tradizione in una misteriosa pestilenza. Ma nel passo del Talmud si dice che il motivo della loro morte sta nel fatto che “non portavano rispetto (kavod) l’uno all’altro”. In ricordo di questa strana e inquietante vicenda molti ebrei osservanti adottano nel periodo dell’Omer atteggiamenti di lutto, come evitare di tagliarsi barba e capelli e non celebrare matrimoni.

La tappa successiva di questa storia ci porta al tempo delle crociate. A partire dal 1096, poco dopo la proclamazione della crociata da parte di papa Urbano II, i pogrom devastano le comunità ebraiche della valle del Reno. Nei decenni che seguono il ricordo dei massacri segna un’impennata della popolarità del periodo dell’Omer come tempo di lutto. Numerosi pogrom si verificano infatti durante Pesach – gli stessi giorni della Pasqua cristiana in cui calvario, morte e resurrezione di Gesù diventano occasione per moltiplicare l’accusa di deicidio e in seguito anche di omicidio rituale – e nei giorni successivi, quelli dell’Omer appunto. Ispirandosi liberamente a questa vicenda, secoli più tardi il poeta romantico ebreo tedesco Heine scriverà un racconto magnifico anche se rimasto incompiuto, Il rabbi di Bacherach. Al ricordo degli studenti di rabbi Akiva viene così aggiunto quello delle vittime dell’intolleranza religiosa cristiana. A questo punto dalla valle del Reno, terra di Ashkenaz, ci trasferiamo in Sefarad, cioè in Spagna. Qui alla fine del Duecento il rabbino catalano Menachem Meiri, commentando il trattato Yevamot e dunque la storia della morte degli studenti, sostiene che la pestilenza sarebbe terminata precisamente il 33° giorno dell’Omer, Lag BaOmer dunque. Va allora applicato anche a questo giorno il consueto schema alla base di tante feste ebraiche: hanno cercato di sterminarci, siamo sopravvissuti, festeggiamo.

Una svolta avviene quando, nel Cinquecento, il famoso mistico Isaac Luria fissa nel giorno di Lag BaOmer la data della morte del rabbino di epoca mishnica Shimon bar Yochai, non a caso ritenuto il più illustre dei discepoli di rabbi Akiva. A Shimon bar Yochai era attribuito il più influente testo della tradizione qabbalistica, lo Zohar, composto in realtà nella Spagna medievale da Moshe de Leon. La pratica della pseudepigrafia, cioè l’attribuzione ad autori leggendari o antichi di opere recenziori, è largamente impiegata nella tradizione ebraica (ma non solo) per conferire ai testi maggiore autorità. Sull’attribuzione tuttavia Luria non nutriva dubbio alcuno. Secondo la sua lettura Shimon bar Yochai sarebbe spirato a Lag BaOmer rivelando con l’ultimo fiato ai discepoli verità esoteriche. L’influenza di Luria sulla mistica, incluse le sue ramificazioni sabbatiane e chassidiche, è nota dagli studi di Gershom Scholem, anche se tuttora discussa nelle sue forme e dimensioni. Indiscutibile è invece che l’identificazione operata da Luria sia alla base del collegamento che unisce Lag BaOmer e monte Meron, una località della Galilea nella quale alcuni credono che Shimon bar Yochai sia sepolto.

Da Safed, centrale della mistica luriana, la nuova tradizione di Lag BaOmer si diffonde progressivamente nelle comunità ebraiche. Quelle sefardite innanzitutto, in cui dopo l’espulsione dalla Spagna la sensibilità verso la mistica è grande. In seguito, soprattutto dopo la diffusione nel Settecento del chassidismo, anche tra gli askenaziti. Con l’emigrazione di massa verso la Palestina ottomana di ebrei europei e poi quella di nordafricani e mediorientali verso il nuovo stato di Israele le celebrazioni assumono dimensioni sempre più cospicue. In anni a noi vicini anche i pellegrinaggi presso monte Meron diventando impetuosi, fino a coinvolgere centomila persone, in grande maggioranza haredim. Il 30 aprile 2021 è la data della tragedia. 45 vittime e 150 feriti intrappolati nella calca sono le cifre del più grave incidente non dovuto a guerra o terrorismo nella storia dello stato. Ma parlare di fatalità sembra davvero arduo, dal momento che sono state accertate pesanti negligenze da parte degli organizzatori. Catastrofe a parte, il gigantesco raduno di monte Meron si contraddistingue per le folle di pellegrini haredi impegnati in canti, balli e nella prima sforbiciata ai capelli dei bambini che hanno compiuto tre anni di età. Ai bambini appena più grandi vengono forniti archi e frecce giocattolo per attualizzare un midrash secondo il quale nessun arcobaleno apparve durante la vita di Shimon bar Yochai. Ma in ebraico arcobaleno si dice keshet – keshet be’anan, “arco nelle nuvole” – proprio come arco, ecco quindi che il gioco allude alla vicenda del saggio e per molti dei partecipanti santo rabbino. Neanche a dirlo, anche su monte Meron troviamo tanti grandi falò. Perché? Non per arrostire patate al cartoccio – non questo in primo luogo almeno. Il fuoco è il simbolo più immediato e antico della sapienza, quella riconosciuta al leggendario Shimon bar Yochai dalla moltitudine dei pii ma anche più in generale quella divina dispersa nell’oscurità del mondo dopo la creazione secondo importanti correnti esoteriche e qabbalistiche. Ed è simbolo, naturalmente, della fede che arde nei cuori.

Nel corso dell’Ottocento alcuni rabbini tornano a riflettere sulla storia dei ventiquattromila studenti di rabbi Akiva. La nuova lettura è che il racconto talmudico, accennando alla misteriosa mortale pestilenza, alluda velatamente alla morte dei discepoli durante la rivolta antiromana al tempo dell’imperatore Adriano. Tra 132 e 135 e.v. la terra di Israele è devastata dall’ultima e la più disastrosa delle guerre contro Roma, guidata militarmente da Bar Kochba e ideologicamente da rabbi Akiva, che riconosce al primo lo status di messia. Inutile dire che i romani schiacciano la rivolta massacrando e devastando l’intera regione. Le fonti coeve parlano come minimo di diverse centinaia di migliaia di morti, 580.000 per esempio secondo lo storico di lingua greca Cassio Dione. L’uccisione di Akiva in seguito a indicibili supplizi è raccontata nel Talmud. In ogni caso questa rilettura della storia non sfugge ai sionisti, che nei primi anni del Novecento si stabiliscono sempre più numerosi nella Palestina ottomana prima e mandataria poi. Ai sionisti, che operano di solito in aperta polemica con l’ebraismo dei ghetti e delle yeshivot, cioè l’ebraismo religioso, in linea di massima non interessa l’interpretazione mistica di Lag BaOmer. Al contrario, interessa molto il nesso con cui la celebrazione può essere legata all’eroica – ancorché negli esiti infelicissima – insurrezione contro l’impero romano. Dopo una delle prime vittorie di Bar Kochba contro i romani, i rivoltosi di notte accendono fuochi per celebrare e comunicare la notizia in tutta la terra. Poco importa se la conclusione del conflitto avverrà sotto altro segno, quello dei massacri e della distruzione di Gerusalemme fino alle fondamenta. I fuochi nella notte sono segno della volontà di prendere in mano il proprio destino, anche con le armi se necessario.

Nessuna festa, una festa, tre feste. Nessuna festa nella Torà, nel Talmud e nella letteratura rabbinica classica. Quasi a compensare la mancanza, tre feste poi. Quella che a monte Meron celebra devotamente Shimon bar Yochai e la luce della fede che guizza tra le tenebre. Quella in nome di Bar Kochba e dei suoi che osano sfidare il più potente impero e come prevedibile finiscono sconfitti, luce dell’eroismo costi quel che costi. Quella degli studenti di college e università, che ricordano quello su cui finora pochi hanno meditato: che i 24000 uccisi dalla pestilenza erano studenti.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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