Cultura
“L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo”: il libro di Volkman va in scena

L’adattamento teatrale del romanzo di Katharina Volkman è in cartellone al teatro Franco Parenti. Ne abiamo parlato con il regista Fabio Cherstich

Lo ammetto, sono partita prevenuta: aspettativa zero, già con la critica pronta in tasca e la speranza che la durata dello spettacolo fosse breve. Ma ero curiosissima di vedere cosa sarebbe andato in scena. Milano, Franco Parenti, per L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo, adattamento teatrale del romanzo di Katharina Volckmer (La Nave di Teseo) firmato dalla stessa autrice insieme al regista Fabio Cherstich, da un’idea di Andrée Ruth Shammah. In scena, Marta Pizzigallo.

Un passo indietro. Il romanzo è un lungo, talvolta intricato, flusso di coscienza della protagonista che in un monologo irritante spiega al medico chirurgo estetico perché, nell’intervento che andrà a fare in quell’appuntamento per trasformare il suo corpo di donna in quello di un uomo, vuole farsi impiantare un cazzo circonciso. Tedesca, con Hitler ad alimentare i suoi sogni notturni, omosessuale, da sempre in lotta con il proprio corpo nel quale non si riconosce, vomita in faccia al suo silenziosissimo chirurgo tutta la sua vita, i suoi pregiudizi, quelli di cui è stata vittima e il senso di colpa personale quanto nazionale per la Shoah. Nella più libera Londra dove vive può non solo fare i conti con un’eredità pesante e con la ricerca introspettiva della propria identità, ma anche dare seguito alla sua idea di riparazione, un gesto quasi artistico, tra la body art e il dadaismo puro: diventare un uomo con un pene circonciso, grazie alle mani esperte di un medico ebreo.
L’idea è terribile, lo stile ancora di più: il lettore ne esce a pezzi. Però. Però è innegabile che ci si trovi davanti a questioni scottanti, mai digerite, mai risolte. Attualissime, al punto che una giovane autrice senta il bisogno di sbatterle in faccia con violenza, rabbia anche, raccontando di una Germania antisemita, omofoba, bacchettona e ammansita solo dalla colpa. Ma chi è dunque la protagonista e chi è l’autrice? Due personaggi in cerca d’autore, il chirurgo in questo caso, che dia loro la possibilità di esprimere davvero la propria identità, in tutto diversa da quella originaria di donna tedesca eterosessuale cattolica. Che abbandona prima di tutto la sua lingua madre: il libro è scritto in inglese.

Dunque, fare un adattamento per il teatro di tutto questo non è per niente facile. E trovare un’attrice all’altezza, neppure. Invece Fabio Cherstich ci è riuscito: in tandem con la Volkmer hanno messo a punto un monologo teatrale denso quanto efficace, dove si perdono le involuzioni che innegabilmente ci sono nel romanzo, per proporre un ragionamento in forma di monologo diretto, essenziale, spietato. Come lo spazio scenico, un gioco di rimandi interessante: un cerchio incornicia il lettino su cui siede la protagonista. Il medico è in un angolo del palco, silente e immobile. Lei inizia a parlare e quel cerchio si trasforma in un vecchio microfono che richiama subito alla mente le fotografie di Hitler davanti ai microfoni della radio della propaganda tedesca. Poi quello stesso tondo diventa una cornice per film a luci rosse, poi quasi un set per instagram… E lei, Marta Pizzigallo, conduce lo spettatore per mano in una sorta di catarsi che si raggiunge nel finale, ma resta nel backstage: il sipario cala poco prima dell’intervento chirurgico, insieme alla neve che cade fuori dalla finestra dello studio del suo medico.

«Non è un monologo», precisa il regista Fabio Cherstich che ha curato anche lo spazio scenico, «bensì un dialogo con il medico che in effetti è presente sul palco ma non risponde. Qui c’è una forzatura, ma da regista mi devo assumere la responsabilità di ciò che il pubblico vede e quello che va in scena è la distruzione di sé attraverso la comprensione di sé nel rapporto tra Katharina e il medico».
Quali sono le urgenze che emergono da questo lavoro?
«Sicuramente la qestione centrale è identitaria e l’obiettivo è cambiare genere. Cosa succede se una donna tedesca ne approfitta per avere un cazzo circonciso? Può bastare per sistemare i conti in sospeso con la storia tragica che ha ereditato? Ovviamente no, ma è una dichiarazione di intenti».
Ci sono molte, forse troppe quesioni sul piatto: l’omosessualità, il gender, l’antisemitismo, la Shoah… tutte ferite aperte, che hanno a che fare con l’identità, propria ma forse anche nazionale?
«Intanto bisogna fare attenzione a scindere l’identità sessuale da quella di genere. In questa storia la protagonista è nata donna, ma fin dall’infanzia comprende che vuole cambiare gender. I suoi gusti sessuali, però sono altro e lei vuole fare sesso con gli uomini da omosessuale. Ma allora, decide la protagonista dopo un lungo lavorio interiore, già che divento uomo, voglio essere un uomo ebreo per essere umano, perché per i tedeschi, o per Katharina, tale è il senso di colpa per l’Olocausto. Questo è il punto. Le ho chiesto esplicitamente quale fosse il suo rapporto con la Shoah e la complicità con i nazisti. “Mi sento in colpa” mi ha detto, “in difetto”. Così sceglie un medico ebreo per attuare la sua trasformazione».
Il medico è in scena, ma immobile, quasi fosse un manichino. Perché questa scelta?
«Diventa una figura generica, indossa una maschera in silicone a rendere il viso quasi inespressivo. Volevo che fosse un ebreo qualunque e dare forma visiva alla frase che Volkmer scrive nel libro: “Non riesco a immaginare un ebreo vivo”. Sul palco il medico sembra morto, non interagisce mai, fino a quando, alla fine, si alza dalla sedia per dare inizio all’intervento. Lo spettacolo finisce quando la realtà entra in scena».
La scelta di Marta Pizzigalli è davvero premiante, dimostra tutta la sua bravura di attrice.
«Lei è quasi kafkiana nei movimenti che esegue sul palco, il corpo rappresenta la distonia che vive interiormente e che espone nel linguaggio ma anche in un evidente vissuto di inadeguatezza col suo corpo. È capace di reggere il flusso di parole che porta in scena sia mentalmente sia fisicamente. Nella sua vita personale è molto vicina alla comunità LGBTQ+, impegnata nelle questioni del gender».
Cosa ha significato per lei portare in scena questo testo?
«Sono stato molto felice della proposta di Shammah e ho accettato di scrivere l’adattamento a patto di farlo con l’autrice. Non sono ebreo, il mio mondo di riferimento culturale è ebraico (e questo libro mi ha ricordato scrittori austriaci come Thomas Bernhard, così cinici e taglienti), ma avevo bisogno di un’interlocutrice in grado di aiutarmi, lasciandomi al contempo libero. E Shammah ha fatto questo. La genesi dello spettacolo è stata densa e complessa e ha riattivato i temi proposti da Volkmer, in un dialogo a tre. Ma soprattutto a due, in questo lavoro di scrittura».
Ecco, la scrittura. Anche quella è problematica e Volkmer, tedesca, scrive in inglese. Uno scarto che diventa adesione con il contenuto.
«Penso che abbia un senso scrivere un testo sulle proprie origini in una lingua diversa dalla propria perché consente una maggiore libertà espressiva. La lingua inglese diventa una maschera, necessaria a dire la verità di questa trasformazione. E in effetti anche il linguaggio si trasforma nel corso dello spettacolo. Alla fine la protagonista usa una lingua più alta, poetica che segna la differenza».
Con il prima, con il passato, certo. Con i miei pregiudizi, anche. Dunque, mi alzo dalla poltroncina del teatro, ma la critica che avevo tenuto in tasca non la trovo più: lo spettacolo è bello e, per quanto valga la mia opinione, da vedere. Bravi, bravi tutti!

L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo
Teatro Franco Parenti fino al 16 ottobre

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.