Cultura
Le ragioni della discordia tra Polonia ed Israele

Il coinvolgimento di alcuni cittadini polacchi nella persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti: è questo il tema alla base delle complesse relazioni diplomatiche tra i due paesi

È di poche ore fa la notizia dell’approvazione alla Camera polacca di una legge che restringe in modo drastico, quasi fino ad annullarlo, il dirittto di sopravvissuti e discendenti delle vittime della Shoah di chiedere la restituzione dei beni familiari che furono loro confiscati dagli occupanti nazisti tedeschi e che dopo il 1945 divennero proprietà della dittatura comunista. Una nuova legge che sembra utilizzare addirittura un linguaggio implicitamente antisemita, giungendo a dire che viene promulgata “per difendere i polacchi da tentativi di frode”. Ripubblichiamo un nostro articolo in cui il 2 luglio scorso Cluadio Vercelli spiegava le ragioni delle tensoni tra Polonia e Israele, cominciate proprio con una legge del 2018 circa la memoria storica del paese.

Certe condotte, determinate misure, molte prese di posizione vanno sempre contestualizzate, per non cascare nell’inganno giocato dalle circostanze all’incauto osservatore. Un inganno che agisce, su ognuno di noi, quando non ci adoperiamo per capire il contesto nel quale – invece – accade un evento. Ciò di cui stiamo parlando sono i rapporti, al momento piuttosto tesi, tra Israele e la Polonia. Dove l’oggetto della discordia, più che il presente, è costituito dal modo in cui si  intende ricordare il passato. Non è indifferente a tutto anche il fatto che da circa un mese a Gerusalemme sia in carica un nuovo esecutivo, che ha tra i suoi obiettivi anche quello di marcare alcune differenze con quelli che lo hanno preceduto. In altre parole, è certo che il governo della diarchia Bennett-Lapid, con una fragilissima maggioranza elettorale, intenda comunque distinguersi e differenziarsi dagli esecutivi presieduti da Benjamin Netanyahu. Il quale, per capirci, ha spesso manifestato – invece – una qualche disposizione d’animo favorevole verso quei paesi dell’Europa centrale transitati verso democrazie incompiute. In particolare, la stessa Polonia così come l’Ungheria, trattandosi di società politiche nei confronti delle quali sembrava nutrire una qualche particolare condiscendenza, che gli derivava, in tutta probabilità, da un senso di contiguità con alcuni indirizzi assunti dagli esecutivi nazionali. Non per questo, tuttavia, non era già intercorsa maretta, con lo stesso Netanyahu critico verso le autorità dell’Europa orientale.

Al riguardo, fare qualche passo indietro può risultare utile. Nel marzo del 2018, infatti, in Polonia la maggioranza sovranista ed euroscettica aveva introdotto, attraverso il definitivo voto favorevole del parlamento, ovvero del Sejm, la «camera bassa», una legge controversa relativa alla memoria e alla dignità storica del Paese. Si trattava della modifica di una precedente norma relativa all’ente pubblico incaricato di preservare la storia nazionale recente (la legge del 18 dicembre 1998, sull’«Istituto della memoria nazionale – Commissione per il perseguimento dei crimini contro la nazione polacca – Instytut Pamięci Narodowej – Komisja Ścigania Zbrodni przeciwko Narodowi Polskiemu», che l’articolo 1 della medesima legge definisce come ente la cui missione è «la tutela della reputazione della Repubblica di Polonia e della Nazione polacca»).

Il punto di massimo attrito nel dispositivo giuridico è quello che sanziona penalmente quei discorsi pubblici o quegli scritti che attribuiscono parte delle responsabilità, nell’esecuzione dei crimini contro gli ebrei durante l’occupazione tedesca, tra il 1939 e il 1944, alla Polonia medesima e ai cittadini polacchi. La norma è il prodotto degli indirizzi di quella discussa cultura storica che il partito Diritto e Giustizia, saldamente al governo di Varsavia, da tempo va promuovendo. L’obiettivo dichiarato è duplice: da lato si tratta di emendare il passato nazionale da qualsiasi ombra di compromissione con l’occupante; dall’altro si vuole incentivare la visione di una nazione «martire», composta di sole vittime e di eroi, adoperatasi sempre e comunque contro i «totalitarismi» (sia nazista che comunista).

In una tale intelaiatura ideologica, ad essere obnubilato non è tanto il destino degli ebrei polacchi in quegli anni terribili quanto le eventuali responsabilità di alcuni elementi della popolazione locale, laddove la ricerca storica ha comprovato la loro compromissione con le politiche di persecuzione a danno dell’ebraismo autoctono. Non a caso, la legge del 2018 è stata interpretata da molti osservatori come un tentativo di porre la mordacchia alla libertà di espressione e la sordina alla ricerca accademica, quando l’una e l’altra hanno da tempo evidenziato l’esistenza di forme di collaborazionismo da parte di alcuni polacchi. Legislazioni di tale genere, in parte assunte anche da altri paesi dell’Europa centrale ed orientale, sono espressione di una sorta di onda lunga che da tempo si accompagna all’affermazione di regimi politici fondati sull’aperta rivendicazione delle ragioni di una «democrazia illiberale» (il copyright è di Viktor Orbán). Peraltro, il merito della controversia riguarda anche la diffusa – nonché del tutto erronea – dizione «campi di sterminio polacchi», rivolta a qualificare in tale modo le installazioni genocidarie edificate dall’occupante nazista sul suolo della Polonia occupata.

Questo il quadro dei tempi correnti. Da almeno una ventina d’anni, d’altro canto, una parte delle forze politiche di area nazionalista e conservatrice si stava adoperando per ottenere una legge che vincolasse alcuni aspetti della comunicazione pubblica sul passato nazionale. A scatenare la reazione era stata anche l’ampia diffusione del volume del sociologo Jan. T. Gross «Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland» (pubblicato in polacco nel 2000 con il titolo «Sąsiedzi: Historia zagłady żydowskiego miasteczka» e tradotto poi in inglese nel 2001). Non a caso, già nel 2006, dopo un lungo, dolente e a tratti convulso  dibattito sulle relazioni polacco-ebraiche, con la cosiddetta «Lex Gross» l’allora ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro aveva tentato di rafforzare in chiave punitiva l’articolo 132a del codice penale polacco. Nei fatti non ne era derivato nulla ma la questione della censura nei riguardi di chiunque attentasse al «buon nome della Nazione polacca» – inducendo a ritenere che potessero essere sussistiti coni d’ombra tra occupanti ed occupati durante la Seconda guerra mondiale – da quel momento era entrata a pieno titolo nell’agenda politica nazionale.

La legge approvata nel marzo del 2018 è quindi il punto di arrivo di una tale traiettoria, ispirata ad una rilettura marcatamente acritica, apologetica non meno che vittimista del proprio recente passato. Le polemiche non si sono quindi fatte attendere. Il Centro Simon Wiesenthal ha parlato di «campagna del governo per cambiare [manipolare] la verità storica negando la complicità polacca nelle atrocità naziste». In particolare, l’articolo più discusso (oltre ad una controversa lettura dei rapporti conflittuali con i nazionalisti ucraini), recita: «chiunque affermi, pubblicamente e contrariamente ai fatti, che la Nazione polacca o la Repubblica di Polonia è responsabile o corresponsabile dei crimini nazisti commessi dal Terzo Reich, come specificato nell’articolo 6 della Carta del Tribunale Militare Internazionale allegata all’Accordo internazionale per il perseguimento e la punizione dei maggiori criminali di guerra dell’Asse europeo, firmato a Londra l’8 agosto 1945 (Polish Journal of Laws del 1947, art. 367), o per altri reati che costituiscono crimini contro la pace, crimini contro dell’umanità o dei crimini di guerra, o chiunque in altro modo diminuisca grossolanamente la responsabilità dei veri autori di tali crimini, è punito con la multa o con la reclusione fino a 3 anni. La sentenza è resa pubblica».

Le successive pressioni del dipartimento di Stato americano, con la minaccia di declassare le relazioni tra i due paesi, hanno quindi indotto le autorità di Varsavia a rivedere il dispositivo della legge, di fatto cancellandone la parte relativa alle sanzioni penali. A seguito di ciò, i premier polacco ed israeliano hanno emesso una nota congiunta nella quale si condannava l’antisemitismo e si rifiutavano le manifestazioni di «antipolonismo». Anche in quest’ultimo caso, diverse organizzazioni ed istituzioni ebraiche, a partire dallo Yad Vashem, hanno tuttavia espresso scetticismo se non secco rifiuto, considerando storicamente incomparabile l’equiparazione tra secolari pregiudizi contro gli ebrei e preconcetti politici nei confronti dei polacchi. La posizione polacca, manifestata dal presidente Andrzej Duda, rimane tuttavia ferma sul presupposto che la Polonia sia stata vittima integrale della Germania nazista e non abbia quindi preso parte in alcun modo all’Olocausto. Il 31 gennaio 2018, prima che il Senato polacco votasse il disegno di legge, il vice primo ministro Beata Szydło aveva inoltre dichiarato: «noi polacchi siamo stati vittime, così come lo erano gli ebrei.[…] È dovere di ogni polacco difendere il buon nome della Polonia».

A tali affermazioni, si sono contrapposte, nel corso del tempo, le ripetute prese di posizione di altri politici, come l’ex presidente polacco Aleksander Kwaśniewski, di intellettuali come la studiosa e giornalista Anne Applebaum, di ricercatori come Barbara Kirshenblatt-Gimblett del museo Polin («Muzeum Historii Żydów Polskich», l’istituzione che a Varsavia cura la storia degli ebrei polacchi), i quali hanno evidenziato l’illiberalità del dispositivo contenuto nella legge. A ciò, non pochi osservatori hanno aggiunto il rischio che un effetto collaterale potesse essere l’incremento dell’antisemitismo. Sta di fatto che le relazioni israelo-polacche ne sono uscite in parte danneggiate, comunque esacerbate. Per il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, Yuval Rotem: «preservare la memoria dell’Olocausto è una questione che va al di là delle relazioni bilaterali tra Israele e Polonia. È una questione centrale che accompagna l’essenza del popolo ebraico». Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato la Polonia di negare l’Olocausto. Lo Yad Vashem ha condannato il disegno di legge polacco, affermando che, mentre la dizione «campi di sterminio polacchi» costituisce senz’altro un travisamento storico, la legislazione tuttavia «rischia di offuscare le verità storiche riguardanti l’assistenza che i tedeschi hanno ricevuto dalla popolazione polacca durante l’Olocausto». L’allora ministro dell’Istruzione e degli affari della Diaspora Naftali Bennett aveva ribadito che: «è un fatto storico che dei polacchi abbiano concorso nell’omicidio di ebrei, li abbiano consegnati [ai loro carnefici], ne abbiano abusato […] durante e dopo l’Olocausto». Il presidente Reuven Rivlin, a sua volta, si era espresso affermando che: «non c’è dubbio che molti polacchi abbiano combattuto contro il regime nazista, ma non si può negare il fatto che [alcuni] polacchi abbiano dato una mano all’annientamento».

Non di meno, il giornalista e politologo Shlomo Avineri ha rilevato come per una parte della società israeliana, ed in particolare tra i giovani, l’accostamento tra Shoah e Polonia (in quanto luogo materiale dello sterminio) sia tanto diffuso quanto del tutto improprio, da qualsiasi punto di vista lo si intenda affrontare. La resistenza polacca, sia nazionalista che comunista, è invece stata parte di una sistematica opposizione all’occupante, ossia un movimento che pure nelle sue molteplici contraddizioni, anche rispetto alla presenza ebraica, ha tuttavia saputo esprimere il diffuso rifiuto dei nazisti. Su questa scia si era anche posto l’America Jewish Committee, quando ha dichiarato di «essere stato per decenni critico nei confronti di termini dannosi come “campi di concentramento polacchi” e “campi di sterminio polacchi”, riconoscendo che questi siti furono eretti e gestiti dalla Germania nazista durante la sua occupazione di Polonia». A corredo di ciò, tuttavia, l’AJC ha anche affermato che «mentre ricordiamo i coraggiosi polacchi che hanno salvato gli ebrei, il ruolo di alcuni polacchi nell’assassinio degli ebrei non può essere ignorato».

Queste note di cronaca fanno da premessa al nuovo, recente conflitto insorto tra Polonia ed Israele in capo alla questione dei risarcimenti per le vittime ebraico-polacche della Shoah. Una nuova misura legislativa, infatti, prevede che i legittimi eredi dei perseguitati durante l’occupazione nazista della Polonia possano avere non più di una trentina di anni per procedere ad eventuali contestazione nel merito delle decisioni che i tribunali amministrativi dovessero assumere riguardo alla restituzione delle proprietà sottratte dagli occupanti e dai collaborazionisti locali durante gli anni della guerra. In altre parole, con un effetto che è retroattivo, tutti i ricorsi pendenti non risolti negli ultimi tre decenni dovranno essere stralciati e quindi, in plausibilità, definitivamente eliminati, impedendo inoltre di avanzare nuovi ricorsi su decisioni amministrative prese in passato. Di fatto, secondo le valutazioni israeliane, decadrebbero il 90 per cento delle cause ancora aperte.

Anche in questo caso il provvedimento è stato assunto dal Sejm, suscitando da subito la netta risposta del ministro degli Esteri Yair Lapid, che lo ha definito su Twitter «una vergogna che danneggia i rapporti tra i due paesi». Al momento è in corso un vero e proprio conflitto diplomatico. Domenica 27 giugno, l’ambasciatore polacco a Tel Aviv Marek Magierowski è stato convocato al ministero degli Esteri di Gerusalemme, dove gli è stato espresso il «grave disappunto» dello Stato ebraico. Successivamente, l’incaricato d’affari israeliano Tal Ben-Ari Yaalon ha incontrato il viceministro degli Esteri polacco Paweł Jabłoński. L’uno e l’altro round sono serviti solo ad evidenziare il solco generatosi tra i due paesi, con l’impegnativa ed aggressiva dichiarazione di Jabłoński per il quale «dobbiamo accettare che il dibattito politico in Israele è dominato da due atteggiamenti, uno di critica verso la Polonia e un altro, invece, semplicemente “antipolacco”». Il medesimo viceministro si è poi affrettato a dichiarare che il provvedimento del Sejm prende le mosse da un pronunciamento di sei anni fa del Tribunale costituzionale, allora non ancora controllato dall’attuale governo della destra populista. Gli autori del disegno di legge hanno spiegato che la riforma è stata resa necessaria da una decisione della Corte suprema polacca, che ha statuito l’imposizione di un termine definitivo ed ultimativo per l’impugnazione di qualsiasi atto amministrativo. Parimenti, assicurano le autorità, le disposizioni subentranti non comporteranno alcun limite per ulteriori azioni civili volte al legittimo risarcimento, quando per l’appunto ve ne dovessero essere i fondati motivi.

Per le forze di governo polacche la deliberazione parlamentare non ha nulla a che fare con il tema della Shoah. D’altro canto, molteplici osservatori hanno evidenziato come la proposta di legge abbia trovato una sorta di sostegno trasversale alla Camera bassa polacca, nonostante l’astensione in massa dei deputati di centro-destra di Piattaforma civica dell’ex Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Trecentonove deputati, su un totale quattrocentosessanta, hanno sostenuto la nuova normativa, mentre 120 membri dell’opposizione si sono astenuti. Nessun deputato ha comunque votato contro. Le battagliere parole del primo ministro Mateusz Morawiecki non lasciano comunque spazio a nessun dubbio: «fino a quando sarò io il premier, la Polonia non pagherà non uno złoty, non un euro, non un dollaro per i crimini tedeschi». Rimane il fatto che la questione della restituzione ai legittimi proprietari dei beni espropriati ed incamerati durante la guerra o nazionalizzati ai tempi del regime socialista sia ancora oggi un tema scottante, una sorta di ferita aperta. Dalla caduta del muro di Berlino non pochi esponenti della politica polacca si sono trovati chiamati in causa da accuse di corruzione legate a risarcimenti, compravendite e privatizzazioni sospette di immobili e terreni. Gli israeliani hanno comunque duramente ribattuto che «questo non è un dibattito storico sulla responsabilità dell’Olocausto ma piuttosto un debito morale della Polonia con coloro che erano suoi cittadini, le cui proprietà sono state saccheggiate durante l’Olocausto e sotto il regime comunista».

A suggello di questa controversia si pongono le durissime parole di Efraim Zuroff, direttore del «Simon Wiesenthal Center Israel Office and Eastern European Affairs», quando, in una lettera a Yair Lapid, afferma testualmente: «agli occhi dei leader del partito Diritto e Giustizia al governo, né la Polonia né i polacchi hanno alcuna colpa per i crimini dell’Olocausto, e quindi non c’è alcuna giustificazione per le richieste ebraiche di restituzione da parte della Polonia. Questa narrativa altamente distorta della Shoah, che assolve virtualmente il Paese da ogni colpa nonostante la diffusa complicità dei singoli polacchi nei crimini dell’Olocausto, è tipica delle false narrazioni della storia dell’Olocausto che si sono diffuse in tutta l’Europa orientale post-comunista dal 1990 in seguito la caduta dell’Unione Sovietica.[…] I paesi dell’Europa orientale hanno assunto molte forme diverse per distorcere la storia, la più grave delle quali è la scandalosa riscrittura della narrativa dell’Olocausto per raggiungere una serie di obiettivi. Questi includono il tentativo di nascondere, o almeno minimizzare grossolanamente, il ruolo dei collaboratori locali nei crimini dell’Olocausto, mentre sappiamo che la collaborazione dell’Europa orientale con i nazisti includeva unicamente la partecipazione al sistematico sterminio di massa degli ebrei. Inoltre, i paesi dell’Europa orientale stanno tentando di promuovere […] l’equivalenza tra comunismo e nazismo e di insistere sul fatto che il primo abbia compiuto un genocidio contro i popoli dell’Europa orientale.

Questo problema è particolarmente importante dato il coinvolgimento dei (singoli) ebrei nella leadership comunista. Se gli ebrei hanno contribuito a commettere un genocidio, allora come possono criticare noi, gli ex stati sovietici, per aver aiutato i nazisti a commettere contro gli ebrei d’Europa? Cercano di imbiancare i crimini dell’Olocausto dei loro eroi, quelli che hanno guidato la lotta del secondo dopoguerra contro i sovietici. Sfortunatamente molti di questi “eroi” hanno partecipato attivamente alla persecuzione e/o all’omicidio di massa dei loro concittadini ebrei, il che avrebbe dovuto automaticamente squalificarli dall’essere glorificati. In tutta l’Europa orientale, questi autori dell’Olocausto sono onorati in molti modi, un insulto oltraggioso alle loro vittime. Infine, mirano a promuovere l’istituzione di una giornata commemorativa congiunta per tutte le vittime dei regimi totalitari, ovvero nazismo e comunismo, che renderebbe del tutto superflua la Giornata internazionale della memoria dell’Olocausto. Ci si sarebbe aspettato che lo Stato di Israele guidasse gli sforzi per combattere questo problema fin dal suo inizio. Invece, il nostro governo si è astenuto dal criticare questa oltraggiosa distorsione della storia dell’Olocausto, ad eccezione di uno sforzo per far deragliare la legge polacca approvata nel 2018 che ha reso un reato penale l’attribuzione di qualsiasi crimine dell’Olocausto allo stato polacco. E anche in quel caso, Israele ha firmato un accordo che sostanzialmente riconosceva la falsa narrativa polacca che creava un’inesisrente simmetria tra la complicità polacca nei crimini dell’Olocausto e gli sforzi dei polacchi per salvare gli ebrei. Ovviamente, c’erano motivi politici dietro il rifiuto di Israele di protestare contro queste bugie, ma c’erano modi per coinvolgere questi paesi su questi temi senza sacrificare la narrativa ebraica della Shoah.

I tristi risultati parlano da soli. La massiccia complicità dei collaboratori nazisti locali nell’omicidio di massa degli ebrei dell’Europa orientale è stata in gran parte cancellata. […] È giunto il momento di affrontare questi problemi. Innanzitutto, esprimendo la nostra critica alle narrazioni distorte e proponendoci di avviare un dialogo tra gli storici per ripristinare la versione accurata degli eventi della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Dobbiamo chiarire ai nostri nuovi alleati nell’Europa orientale che apprezziamo la loro amicizia e il loro sostegno, ma non possiamo tradire le nostre vittime, e prima questi paesi affronteranno la verità, emergeranno dall’ombra delle loro bugie, e questo spianare la strada a una maggiore sensibilità e considerazione per la loro sofferenza sotto il comunismo, una questione estremamente importante per tutti loro. Ministro Lapid, sono pienamente consapevole delle molte difficili sfide che lei affronta come ministro degli Esteri in questi tempi difficili, ma spero che prenda le misure necessarie per cambiare la politica molto viziata perseguita nell’Europa orientale dai precedenti governi, che li ha solo incoraggiati promuovere una narrativa totalmente falsa dell’annientamento degli ebrei durante l’Olocausto».

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


2 Commenti:

  1. Ho molto apprezzato la sua analisi storica. Mi lascia, tuttavia, alquanto perplesso questa frase che fa da titolo del suo articolo:”Il coinvolgimento di alcuni cittadini polacchi nella persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti”. “Alcuni”? Non furono “alcuni” furono molti. Se poi mettiamo nel novero anche quei polacchi che non mossero un dito per aiutare i loro connazionali ebrei, gli “alcuni” diventano MOLTISSIMI. E quel che è ancora peggio è che oggi il governo polacco nega. Nega la realtà storica. Intende imporre la sua visione ufficiale e falsa secondo cui non ci fu partecipazione polacca alla Shoah.
    Molti cordiali saluti,
    Giangaetano Bartolomei


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.