Cultura
L’ebraismo dell’Europa orientale e i regimi comunisti. Spunti di riflessione: l’antisemitismo delirante

Nel 1949 i tempi per una violenta stagione antisemita era divenuti maturi: gli attacchi, che iniziarono ad esercitarsi anche contro ciò che veniva definita come «tribù», avevano come oggetto, nella grande maggioranza dei casi, esponenti dell’ebraismo

L’antisemitismo di Stato praticato dalle autorità sovietiche, dopo una prima stagione legata alla normalizzazione interna al Paese, fatto che implicava la neutralizzazione del pallido pluralismo culturale concesso durante la guerra, si adoperò nella lotta contro i nazionalismi non russi. L’equazione ideologica dominante era sempre la medesima, ovvero quella che istituiva, senza soluzione di continuità, un rapporto diretto ed immediato tra patriottismo, russo-centrismo, centralismo e comunismo. Ancora una volta, il riferimento all’elemento russo era non di natura storica ma politico-culturale, a rischio di stravolgere gli stessi dati di fatto. Se ne scontornavano e manipolavano le dimensioni, ingigantendolo e utilizzandolo per farlo aderire ai motivi dottrinari del socialismo sovietico.

In questo clima, le accuse rivolte agli intellettuali ebrei di scarsa o nulla adesione ai motivi della «grande patria socialista», dedicandosi semmai all’anacronistica difesa del proprio particolarismo identitario (a partire dalla cultura yiddish, di nuovo caduta in disgrazia), nonché la critica di essere apolitici, ossia volutamente estranei alla milizia per la causa dell’«internazionalismo proletario», furono tra i vettori che rimodellarono l’atteggiamento del Cremlino verso gli ebrei in generale. In quest’ottica, la lotta al «cosmopolitismo» riprese ben presto vigore, a partire dal 1946. Si trattava per più aspetti di un atteggiamento paradossale, poiché sotto questa etichetta si denunciava la persistenza dell’interesse e dell’identificazione degli stessi ebrei con l’ebraismo. Che veniva fortemente politicizzato, divenendo una sorta di stigma che indicava l’appartenenza ad un’eterodossia non compatibile con la dogmatica del regime. Le vicende del Comitato antifascista ebraico e della sua triste disintegrazione, si inscrivevano in queste dinamiche, alle quali, con il passare del tempo, quanto meno fino all’esordio degli anni Cinquanta, non furono estranei i processi di satellizzazione ed omologazione di quei paesi dell’Europa dell’Est che erano entrati a fare parte del blocco orientale. Nel corso del 1948 la cultura yiddish sovietica fu praticamente disintegrata: le testate e i luoghi di incontro vennero chiusi; gli esponenti di maggiore spicco arrestati, inviati nei Gulag oppure assassinati; l’ossessione per il «progetto Crimea», la delirante accusa di volere fondare uno Stato sionista indipendente dall’Urss ma legato agli Stati Uniti, fomentata e corredata dal diffuso sospetto che i “congiurati” stessero preparando una sollevazione armata. L’obiettivo era quello di arrivare ad un grande processo pubblico, che avrebbe indicato all’attenzione pubblica le responsabilità dei traditori del socialismo. Nei fatti non fu così – le vittime vennero silenziosamente eliminate – ma le velenose polemiche contro lo «sciovinismo», il «nazionalismo», il «deviazionismo» divennero di nuovo velenosa e mefitica moneta corrente nell’Unione Sovietica di tutti i giorni.

La somma e il punto di sintesi delle diverse campagne ideologiche era comunque quella sostenuta contro il «cosmopolitismo». Andrej Aleksandrovič Ždanov, arbitro della linea cultura del Partito comunista dell’Urss fino alla sua morte, avvenuta nel 1948, sosteneva l’imprescindibilità di esercitare, da parte degli intellettuali così come della popolazione, una precisa scelta contro l’Occidente, raffigurato come il luogo della decadenza morale, culturale e civile. Nel settembre del 1947 sostenne che lo scontro in atto era quello tra due campi contrapposti. Quello sovietico era rappresentato come un monolito, non scalfibile e quindi inattaccabile, a meno che al suo interneo non si esercitassero i «traditori». Si trattava di un campo etico, prima ancora che esclusivamente ideologico. Lo ždanovismo, vero e proprio codice totalitario, stabilì i criteri della produzione culturale. Si adoperò per raggiungere e praticare un’improbabile autarchia intellettuale, bollando come «degenerazione» ciò che non era parte di un tale sistema. La fascinazione per una fantasiosa e asfissiante autosufficienza risultò galvanizzante (egli stesso ebbe a dire che «l’unico conflitto possibile nella cultura sovietica è il conflitto tra il buono e il migliore»). Tanto più dal momento in cui dava fiato alle trombe di un’intera schiera di astanti, di artisti e pensatori di regime, pronti a mettersi al servizio del potere. La censura culturale si accompagnava alla definizione del cosmopolitismo come della condizione di chi «è privo di radici». Nel 1949, infine, i tempi per una infelice stagione antisemita era divenuti maturi.

Già nei primi mesi di quell’anno, la stampa di partito e quella di informazione iniziarono ad adottare e a diffondere strali contro i «gruppi antipatriottici». Non si trattava più delle polemiche, e della conseguente interdizione, contro singole personalità bensì della denuncia dell’esistenza di veri e propri consorzi di interesse antisovietici, ben inseriti nella collettività. Gli attacchi, che iniziarono ad esercitarsi anche contro ciò che veniva definita come «tribù», avevano ad oggetto nella grande maggioranza dei casi esponenti dell’ebraismo. Dall’informazione quotidiana e periodica si passò, in una crescente enfatizzazione, a tutti i mezzi di comunicazione, alle scuole e alle università, usando registri alternati, tra il serio e il sarcastico, l’accademico e l’umoristico, l’analitico e il grottesco. Si evitava di parlare di ebrei ed ebraismo in maniera diretta, ricorrendo invece di continuo ad allusioni ed insinuazioni. A rafforzare i concetti, evitando che il pubblico cadesse in equivoco, subentrava poi l’enfasi sui nomi e sui patronimici ebraici. La calunniosità di regime si incontrava con l’antisemitismo di grana grossa, quello presente nella popolazione, particolarmente sensibile al richiamo patriottico quand’esso veniva ripetutamente fatto coincidere con l’identità russa (e slava) del «socialismo». Un solido argomento era quello che lasciava intendere che, dinanzi ai giganteschi problemi in cui si dibatteva la società sovietica del dopoguerra (dalle abitazioni all’alimentazione, dal lavoro alla claudicante distribuzione di beni primari), gli ebrei fossero ingiustamente favoriti, soprattutto in ragione della loro capacità di manipolare lo stato delle cose a proprio favore. Il tutto veniva condito da un potente anti-intellettualismo, che raffigurava gli ebrei come parassiti, dediti alla speculazione culturale fine a sé, mentre il resto della collettività era impegnato nel lavoro produttivo. Il nesso tra cosmopolitismo e nazionalismo, due condizioni altrimenti apparentemente contraddittorie se non antitetiche, era formulato nei termini del rapporto tra lo sradicamento antisovietico dell’intellettualità ebraica abituata a “dialogare” con l’Occidente e la chiusura particolarista di quegli ebrei che non avevano compreso il senso della «fratellanza socialista», preferendovi le logiche di gruppo. 

In una tale clima, che proseguì dopo il 1949, coinvolgendo le «democrazie popolari», i regimi satellite instaurati dai sovietici nel secondo dopoguerra nell’Europa centrorientale, la manifestazione più eclatante del percorso di allineamento avvenne in Cecoslovacchia, con il «processo Slánský». Nel 1952 quattordici esponenti di vertice del Partito comunista della Cecoslovacchia – tra cui Rudolf Slánský già suo segretario generale – tutti ebrei, furono accusati di avere organizzato una cospirazione contro il loro paese. Non vi era alcun riscontro di ciò poiché nessun complotto era nei fatti in atto. Le “prove” erano state costruite ad arte mentre le confessioni vennero ottenute con la tortura. L’intera percorso giudiziario, dalle premesse fino alle sue tragiche conseguenze (con undici condannati a morte e tre all’ergastolo), fu il prodotto di una colossale montatura. La Cecoslovacchia, dopo il colpo di stato del febbraio del 1948 che aveva portato al potere il Partito comunista, affrontava insieme, ai regimi omologhi, i cosiddetti «paesi fratelli», gli effetti della rottura tra la Jugoslavia di Tito e l’Urss di Stalin. Nel 1949, in una sorta di vero e proprio meccanismo di allineamento collettivo, anche la Germania orientale, la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria avevano intrapreso processi di epurazione dei quadri ebraici dalle amministrazioni pubbliche e dai partiti di potere. In realtà, le dinamiche in corso avevano a che fare con le lotte interne ai gruppi di interesse, in una logica di assestamento dei nuovi poteri ed in omaggio al centro moscovita. In un tale quadro, richiamare, così come avvenne, le trame di una presunta «cospirazione sionista mondiale», come già era in qualche modo avvenuto in Ungheria con l’eliminazione del potente ministro degli InterniLászló Rajk nel 1949, in un altro processo farsa, serviva a dare sostanza al collegamento – del tutto fantasioso – tra trotskismo, titoismo e sionismo (quest’ultimo inteso come «movimento reazionario», che avrebbe tradito le sue origini classiste). I fantasmi di una cospirazione internazionale davano maggiore credibilità alle accuse di tradimento che, a loro volta, coprivano i conflitti in atto tra le classi dirigenti comuniste. Le teorie complottiste, ispirate deliberatamente ai «Protocolli dei savi anziani di Sion», sostenevano che già dall’aprile del 1947 un «vertice sionista-imperialista», che vedeva coinvolti americani e israeliani, avesse dato corso ad un piano per sabotare l’indipendenza cecoslovacca. Il paese, peraltro, tra il 1947 e il 1948 aveva sostenuto l’impegno militare ebraico-sionista nel confronto con gli arabi, da cui era nato lo Stato d’Israele. Il tutto era avvenuto con l’assenso della leadership sovietica. Il fatto che la quasi totalità degli imputati fossero completamente estranei al sionismo, se non in radicale opposizione, non servì a nulla. Poiché il riferimento al «sionismo» serviva a richiamarne l’origine ebraica, lasciando spazio alla ripetuta congettura, diffusa poi tra la popolazione, che la vocazione al tradimento degli interessi nazionali e «socialisti» derivasse proprio dalla loro appartenenza “etnica”.

Il culmino del delirio antisemita fu però raggiunto in Unione Sovietica quando il 13 gennaio 1953 il giornale Pravda, l’organo del Partito comunista, denunciò la scoperta di un «complotto dei medici» ai danni di alcuni alti dirigenti dello Stato. L’articolo, sicuramente voluto da Stalin, era significativamente intitolato: «sotto la maschera dei professori-dottori: Spie e assassini infami». La vicenda aveva preso le mosse da una lettera, scritta da una cardiologa nel 1948, che ebbe in cura temporanea Andrej Ždanov. Di contro al parere dei suoi colleghi, ipotizzava che l’alto gerarca, destinato a morire di lì a poco, potesse essere stato vittima di un avvelenamento. L’iniziativa sarebbe finita nel nulla se non fosse per il fatto che quattro anni dopo, nell’ottobre del 1952, uno Stalin oramai paranoide e in totale declino, recuperò l’accusa per ordinare l’arresto di molte eminenti personalità in ambito medico, fra cui diversi specialisti operanti al Cremlino, compreso il direttore dell’Ospedale del Cremlino ed il suo stesso medico curante. Solo a questo punto venne portata alla luce la lettera di quattro anni prima come prova a carico dei medici, colpevoli di aver attentato alla salute delle alte cariche dello Stato. Un grande numero di persone coinvolte era di origine ebraica. La campagna di stampa montò molto velocemente, arrivando a colpire molteplici bersagli e a confondere volutamente spionaggio a favore dei paesi occidentali con non meglio precisati complotti, sempre di origine ebraica, di cui si denunciava la pericolosità. Furono da subito estorte false confessioni, si organizzò immediatamente una campagna di chiamata in correo nei confronti di altri medici mentre si gonfiava ad arte la denuncia di una congiura per «assassinare dirigenti del partito, dello stato e dell’esercito, attraverso metodi di cura notoriamente errati». Ancora una volta il clima di emergenza e di paura agevolò la velocissima ricerca di capri espiatori, identificati nei sanitari di origine ebraica. Così scriveva al riguardo Vasilij Grossman: « Lavorare negli ospedali e nei policlinici era diventato difficile, un vero tormento. Influenzati dai terribili comunicati ufficiali, i malati si erano fatti sospettosi. Molti rifiutavano di farsi curare da medici ebrei. […] Nelle farmacie gli acquirenti sospettavano i farmacisti di tentare di rifilare loro medicinali avvelenati; sui tram, nei mercati, nei ministeri si raccontava che a Mosca alcune farmacie erano state chiuse perché farmacisti ebrei – agenti dell’America – vendevano pillole fatte con polvere di pidocchi; si raccontava che nei reparti maternità infettavano di sifilide neonati e puerpere, e che negli ambulatori dentistici inoculavano ai malati il cancro. […] Particolarmente penoso era che a quelle voci credessero non solo portinai, facchini e autisti semianalfabeti o semiubriachi, ma anche certi dottori in scienze, scrittori, ingegneri, studenti».

L’asfissiante campagna di sospetti, ricatti, delazioni e, soprattutto, diffamazioni e paranoie, si sgonfiò tuttavia nei primi giorni di marzo del 1953, quando iniziò l’agonia di Stalin, destinato a morire il 5 dello stesso mese. A quel punto, i dirigenti del Cremlino frenarono l’intera iniziativa, temendo che questa potesse divenire ingestibile, riversandosi poi contro di essi. D’altro canto, la costruzione del falso complotto rispondeva in tutta probabilità alla necessità di procedere, per parte di Stalin, ad una nuova, gigantesca purga contro i leader dell’apparato, giudicato inadeguato a fare fronte all’eventualità di una nuova guerra mondiale a venire. Già nel 1952, infatti, il XIX congresso del Partito comunista sovietico aveva dato corso ad un rinnovamento della classe dirigente. Tuttavia, la rimozione della leadership più potente, tra questi Nikita Sergeevič Chruščëv, Lavrentij Pavlovič Berija, Vjačeslav Michajlovič Molotov avrebbe richiesto un tale atto di forza che solo una situazione di assoluta eccezionalità, con la mobilitazione della popolazione di fronte al richiamo di un imminente pericolo, poteva riuscire a legittimare.

Dopo la morte di Stalin gli aspetti più deliranti dell’antisemitismo di Stato si attenuarono. Si entrava in un’altra epoca, nella quale tuttavia paesi come la Cecoslovacchia e la Romania ricorsero comunque a politiche di emarginazione delle componenti ebraiche. Il silenzio sullo sterminio nazista rimase inalterato. Dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 le campagne antisioniste avrebbero quindi ripreso forza e vigore, raccordandosi ai fermenti in corso in Medio Oriente. Ma si era già ad altra epoca, con i primi scricchiolii di un sistema che stava rivelando di avere i piedi d’argilla.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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