Hebraica
L’uomo che non voleva morire

Mosè, la morte e il concetto di popolo

La fede non protegge dalla paura della morte quando si tratta non della morte in generale ma della propria, ha scritto la rabbina Delphine Horvilleur nel suo recente Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti. che è come dire che non è possibile “imparare a morire”. La paura della morte non fa differenze e non risparmia i grandi uomini. Al contrario, sembra che spesso più gli uomini hanno doti riconosciute, più in loro la paura della morte cresce. Nella tradizione ebraica il caso emblematico è rappresentato da Mosè: colui che parla a Dio “faccia a faccia” è anche colui che rifiuta di morire.

La fine della lettura annuale della Torà, in corrispondenza del periodo delle feste autunnali, è segnata dall’episodio enigmatico della morte di Mosè, su cui tanti commentatori si sono cimentati. Siamo alle porte della Terra Promessa, in un luogo la cui ubicazione rimane ignota. “Mosè, servo del Signore, morì là, nel paese di Moab, secondo il volere del Signore (al-pi Adonai). Lo seppellì nella valle […] e nessuno conobbe mai il luogo della sua sepoltura fino a oggi”. Una prima ambiguità del testo biblico, rilevata da numerosi esegeti, sta nel fatto che non è chiaro chi sia il soggetto della frase “lo seppellì”. Secondo molti commentatori si tratta di Dio stesso, e questo rappresenterebbe un caso unico nella tradizione. Il testo, conciso ed essenziale, prosegue spiegando che Mosè muore quando ha centoventi anni ed è ancora in pieno controllo delle proprie facoltà fisiche e mentali. Il traguardo di centoventi anni è diventato un orizzonte simbolo di vita piena, ricca, lunga e viene impiegato ancora oggi in una diffusa espressione benaugurante: ad meà ve-esrim!, fino a centoventi!

Eppure rimane un dubbio. Perché Mosè muore? La sua fine avviene stando al testo “secondo il volere del Signore” (al-pi Adonai). Ma la frase ebraica, tradotta alla lettera, significa “sulla bocca del Signore”. Da qui la conclusione dei maestri: Mosè muore nell’istante del bacio di Dio. Come all’inizio della Torà Dio aveva infuso la vita nel primo uomo Adamo soffiando nelle sue narici, adesso, nelle ultime righe del testo, riprende questo soffio in un abbraccio. Secondo Michael Fishbane, “la morte per bacio divino è il segno di un particolare favore, un marchio di grazia dato ai santi” (Il bacio di Dio. Morte spirituale e morte mistica nella tradizione ebraica, Giuntina). Con una dettagliata analisi, Fishbane mostra come Shir HaShirim Rabbà (la raccolta di midrashim sul Cantico dei Cantici) rimandi alla morte di Mosè per spiegare il versetto “Oh se (lui) mi baciasse con i baci della sua bocca!”. Il bacio di Dio diventa così la ricompensa concessa a coloro che dimostrano piena fedeltà verso gli insegnamenti della tradizione. Secondo il midrash una vita interamente dedicata allo studio e all’osservanza delle mitzvot culmina con la morte per rapimento divino. L’esempio di Mosè, colui che ha portato la Torà a Israele e Israele alla Torà, è perfettamente calzante.

Una serie di leggende medievali note come Petirat Moshè, “la dipartita di Mosè”, rappresentano la morte per bacio di Dio come l’apice di una vita santa. Prende forma così la figura della morte spirituale per rapimento, modello per la tradizione mistica. Nella Guida dei perplessi Maimonide interpreta la fine di Mosè (ma anche di Aronne e per alcuni aspetti di Miriam) come morte estatica in cui l’amore appassionato si unisce al piacere della comprensione intellettuale dovuta al ricongiungimento con l’origine, cioè la divinità. Per Maimonide il bacio con cui Mosè termina la propria vita è un modo poetico per indicare la consumazione dell’eros spirituale. Un midrash della raccolta Devarim Rabbà narra che quando scocca l’ora della fine gli angeli scendono sulla terra per adempiere al comando divino. Ma Mosè non vuole morire – questo è un tema su cui torneremo a breve – e allora sfodera la sua conoscenza della legge per confonderli, rendendo indispensabile l’intervento diretto di Dio. Tuttavia l’anima del condottiero rifiuta di staccarsi dal corpo, fino a quando non viene ripresa da Dio con un bacio. L’erotismo della scena è accresciuto dalla figura della metonimia, con cui Mosè è rappresentato dalla sua anima e così femminilizzato.

La lettura mistica della morte di Mosè rimane naturalmente soltanto una delle molte possibili. La scena, di rara potenza, solleva tuttavia un interrogativo inquietante. E se l’interpretazione dei saggi, bella e poetica, fosse un tentativo di edulcorare una grande ingiustizia? La morte di Mosè rimane infatti inesplicabile. L’uomo che è insieme il più grande dei condottieri e il maggiore dei profeti muore a un passo dal traguardo che altri, non lui, potranno varcare. Alcuni commentatori hanno addotto motivi testuali alla punizione riservata a Mosè, per esempio la trasgressione dell’ordine di parlare alla roccia per fare sgorgare acqua colpendola invece con il bastone. Ma altri hanno ritenuto questa spiegazione insoddisfacente perché la supposta punizione di Mosè rimarrebbe del tutto sproporzionata rispetto alla colpa.

Sappiamo che Mosè rifiuta di morire. In molti midrashim la guida del popolo di Israele viene rappresentato non tanto come invincibile supereroe quanto piuttosto come un uomo pieno di dubbi e timori. In un racconto Mosè cerca di far cambiare idea a Dio perché, in fondo, già una volta è riuscito nell’impresa quando il Signore aveva decretato la distruzione di Israele dopo l’episodio del vitello d’oro. In un altro Mosè chiede a Dio di farlo rimanere in vita anche se per questo dovesse assumere una nuova forma come quella di “un uccello, una gazzella, un cervo”. In un terzo midrash all’ennesimo rifiuto di morire da parte di Mosè Dio spiega che nessun uomo può sottrarsi alla morte, come non le si sono sottratti Abramo e Isacco. Mosè risponde che i due patriarchi hanno dato vita a uomini giusti, ma anche alle generazioni ingiuste di Ismaele e Esaù. Dio allora ricorda a Mosè l’omicidio di una crudele guardia egiziana, di cui si è macchiato prima della fuga nel deserto. “E tu dunque”, ribatte alla pari Mosè, “tu non hai forse fatto lo stesso a tutti i primogeniti in Egitto?”.

Mosè sale infine sul monte Nevo (un nome che eziologicamente rimanda allo stesso Mosè, il più grande profeta – navì in ebraico) per morire. Qui secondo un midrash talmudico incontra il Signore in persona intento ad aggiungere su una copia della Torà una gran messe di simboli e accenti. Mosè è stupito, ma la spiegazione di Dio è che un giorno ci sarà chi studierà nel modo più approfondito ogni singolo segno tracciato su quelle pagine. Mostramelo, chiede ancora Mosè. Voltati, risponde il Signore. Mosè si volta e si trova proiettato nel futuro nella scuola di rabbi Aqiva, di cui tuttavia non riesce a seguire la complessa lezione. Il profeta è sul punto di scoraggiarsi, finché il maestro spiega a un allievo che una certa cosa la sappiamo grazie a ciò che è stato rivelato a Mosè sul Sinai e udendo questo il grande leader si rianima. La grandezza di Mosè, sembra suggerire il midrash, non è quella di un uomo anziano che ha condotto per decenni una massa di ex schiavi nel deserto ma quella che sarà determinata da chi verrà dopo di lui. Sono le generazioni future che, nel riferimento costante al lascito di Mosè, sanciscono la sua centralità, a condizione di non recepire passivamente la sua Torà ma di viverla, discuterla, interpretarla in direzioni neanche lontanamente immaginabili da colui che nel racconto biblico la riceve direttamente da Dio.

In un ultimo midrash Mosè disegna un cerchio nel terreno e vi siede all’interno. Ancora una volta, è Dio a interpellarlo. “Ho giurato due cose”, dice. “Di annientare il popolo dopo il peccato del vitello d’oro e che tu non entrerai nella terra promessa. Posso annullare un giuramento ma non entrambi. A te la scelta”. Con questo esperimento mentale i rabbini sottolineano il fatto per nulla scontato che la morte di Mosè è indispensabile per la salvezza del popolo. Se qualcosa deve nascere e continuare in una trasformazione incessante è necessario che qualcos’altro finisca. Perché ci sia il popolo Mosè non può essere immortale ma, esaurito il suo compito, deve fermarsi al margine del deserto.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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