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L’antisemitismo è una reazione normale a un’anomalia

Una cavalcata ironica della storia, da Alessandria d’Egitto alla Silicon Valley, per parlare di identità (e del suo contrario)

Solo le malattie possono avere una cura, e l’antisemitismo non è una malattia: è una reazione umana perfettamente normale a un’anomalia che ha persistito per oltre duemila anni, da quando ebrei poveri migrarono in gran numero verso il ricco Egitto romano e la sua splendida capitale, Alessandria, e rapidamente superarono l’élite grecofona locale non solo nella filosofia ma anche nell’arte ginnica, e senza dubbio anche in quella degli affari. I Greci reagirono non con una competizione più serrata, ma con la violenza. Così l’antisemitismo venne alla luce, già così pienamente formato che da allora tutti gli antisemiti della storia non hanno dovuto aggiungervi nulla.

Alessandria d’Egitto, la New York dell’Impero Romano

Che la versione ebraica della storia sia ben conosciuta grazie ai testi di Flavio Giuseppe e Filone di Alessandria, mentre la denuncia originale contro gli ebrei da parte dell’allora famoso filosofo Apione è andata persa (eccetto per i frammenti citati da Flavio Giuseppe come offese), prova esattamente quanto Apione avesse visto giusto: arrivano questi ebrei primitivi, pastori e contadini, e in men che non si dica si prendono tutto, perfino la letteratura filosofica greca, nella quale ora Filone occupa dieci volumi nella Loeb Classical Library di Harvard e Apione neanche uno, zero, nada (Loeb era un banchiere ebreo, naturalmente).

A far infuriare i Greci era l’ostinazione degli Ebrei nel preservare la propria identità, anche quando gettarono via le loro vesti beduine per mettersi una toga, discutere Aristotele e “continuare” l’opera di Platone, anche quando abbandonarono l’ebraico per il greco nella vita quotidiana, e anche quando presero a esercitarsi nel ginnasio nudi proprio come i Greci – per uscirne vincitori. Quando Filone si recò in visita all’imperatore Gaio – ossia lo stravagante, sanguinario, pansessuale Caligola – per chiedergli di licenziare il governatore Aulo Avilio Flacco, avverso agli ebrei, e fermare i disordini, due dei cinque quartieri di Alessandria, la New York del mondo romano, erano a maggioranza ebraica. Caligola, tra un discorso e l’altro, schernì Filone riguardo la bizzarria di non mangiare maiale, però alla fine richiamò Flacco, che fu passato a fil di spada al suo ritorno – un antico caso di indebita influenza politica ebraica.

Apione e compagnia erano sgradevoli, ma non irrazionali, poiché certamente il successo straordinario degli ebrei di Alessandria non aveva una spiegazione facile. Avrebbero dovuto occupare il fondo della piramide sociale, non il vertice, considerando che Greci ambiziosi e ben istruiti giungevano in città continuamente, e che molti degli Egiziani indigeni costituivano già una popolazione urbana molto istruita (soltanto la discarica di una piccola città, Ossirinco, ha restituito i frammenti di molti manoscritti su papiro).

Per Apione e per tutti gli antisemiti, fin da allora ci fu una sola spiegazione logica: la vera ragione per la quale gli ebrei stavano lontani dai templi aperti in cui tutte le persone a modo si trovavano per venerare gli dèi con sacrifici, libagioni e inni, era cospirare nelle loro sinagoghe riservate e letteralmente senza dèi per far fuori i Gentili, tramare e cospirare per defraudarli della loro meritata posizione, il tutto facendo finta di mormorare preghiere incomprensibili nella loro lingua stramba.

La “strategia” dell’esclusione

Il rimedio ovvio contro questi ebrei in continua cospirazione fu semplicemente di tenerli fuori – una soluzione umanitaria in verità, che non richiedeva violenza. E per due millenni dopo i disordini di Alessandria, innumerevoli villaggi, svariate città e alcuni interi Paesi hanno fatto esattamente così.

In aggiunta, con qualche rischio, poteva essere sufficiente escludere gli ebrei da ogni commercio o professione desiderabile. Così funzionavano le cose a Roma nei secoli di dominio del papato. Il solo commercio permesso agli ebrei era comprare, lavare, riparare, tingere e rivendere abiti vecchi (alcuni lo fanno ancora: alcuni anni fa ho visto due amabili ragazze ebree smerciare magliette ritinte in una bancarella a Campo de’ Fiori). In questo modo, gli ebrei romani non provocarono mai invidia e risentimento, e in cambio furono risparmiati dai moti di folla e dalle espulsioni che periodicamente accadevano in quasi ogni altra città europea in cui ci fossero degli ebrei.

L’umana soluzione romana è stata praticata su larga scala e con molto successo in molti posti, inclusa la maggior parte delle aziende in America, almeno fino a poco tempo fa. Le martellanti farneticazioni antiebraiche di Henry Ford costituivano una sua personale eccentricità fuori dall’ordinario, ma nondimeno gli ebrei avevano scarse probabilità di far carriera nella General Motors o in un’altra azienda automobilistica, o comunque in qualsiasi impresa o banca d’America. Non è trascorso molto tempo da quando la maggior parte degli delle società legali a Wall Street escludevano tassativamente gli ebrei (quando dopo le prossime elezioni o quelle dopo ancora inizieranno i risarcimenti, le richieste da parte degli ebrei, moltiplicate per tutte le generazioni, dovrebbero fruttare un bel gruzzolo, per quanto ovviamente molto inferiore ai risarcimenti per gli eredi degli schiavi) [Il riferimento è alla proposta sottoposta questo giugno alla Camera dei rappresentanti di accordare un risarcimento agli eredi degli schiavi afroamericani, N.d.T].

L’esclusione dalle carriere più appetibili fu certamente frustrante per gli individui coinvolti, ma servì a limitare l’invidia e il risentimento dei non ebrei e a contenere l’antisemitismo negli Stati Uniti almeno fino al 1980. Era già un bel guaio che gli ebrei non potessero essere esclusi dalla condivisione incredibilmente ingiusta di premi vinti dagli americani (o dai russi, dai francesi, dai tedeschi): pensate solo a cosa poteva significare per dei giovani aspiranti scienziati non ebrei sapere fin dall’inizio che le probabilità di prendere parte alla cerimonia del Nobel a Stoccolma erano così sfavorevoli. E non c’era neanche un rimedio per l’influenza ebraica su Hollywood – il povero vecchio Marlon Brando fu attaccato selvaggiamente quando osò menzionarla. L’impunità di Mel Gibson è in verità estremamente significativa, malgrado la banalità del personaggio, perché è uno degli indicatori dell’epoca post-anti-antisemita, nella quale attaccare gli ebrei in quanto ebrei sta tornando progressivamente a essere accettabile. (Che nessuno chieda agli americani di origine indiana di denunciare Modi, o a quelli di origine turca di denunciare Erdogan, quando la denuncia rituale di Netanyahu è richiesta – e troppo spesso ottenuta – da innumerevoli ebrei nella politica è abbastanza per sbarazzarsi del pretesto di Israele).

Che cosa è andato storto? Prima Wall Street: invece dell’esclusione che funzionava così bene, con gli agiati venditori di obbligazioni non ebrei che conducevano le danze tra una bevuta e l’altra e gli ebrei confinati a ignobili intermediazioni di commercio al dettaglio, ci fu l’ingresso a gamba tesa dei finanzieri che inventarono nuovi modi di fare affari, a cominciare dalle acquisizioni tramite debito. Erano tutti ebrei o quasi, membri del “Club dello sperma fortunato”, così come l’hanno chiamato nel pezzo “Ebrei, fusione, acquisizione e la chiave dell’azienda americana” pubblicato su PBS News Hour. Anche gli inventori dei fondi speculativi e di private equity appartenevano per la maggior parte allo stesso club dello sperma fortunato, insieme a George Sorosla cui veementemente indesiderata identità ebraica non ha mai aiutato un solo ebreo, ma fa la gioia degli antisemiti. L’influenza degli ebrei di Wall Street non poteva però riportare in auge l’antisemitismo da sola. L’alta finanza è stata un campo ebraico per molto tempo – con i Rothschild e tutto il resto – e per quanto molto oltraggiosa, la riconquista ebraica non poteva essere uno shock inaspettato.

Silicon Valley e l’istruzione ebraica

Ma Silicon Valley invece lo è stato. La maggior parte degli americani può continuare a vivere senza sapere chi siano i miliardari Steven A. Cohen o Peter A. Cohen, ma non può ignorare Facebook, Google, Oracle, Intel, Dell, Qualcomm, eccetera, tutte realtà fondate o co-fondate da ebrei (il pubblico anti-diffamazione dovrebbe erigere un monumento all’impeccabile non ebreo Jeff Bezos).

Silicon Valley è stato il vero shock. Gli ebrei di Silicon Valley non potevano che provocare un potente rigurgito di invidia e risentimento di matrice antisemita, quella reazione umana e naturale osservata per la prima volta ad Alessandria d’Egitto. Come può essere che il 2% della popolazione abbia il 50% di tutto ciò che è davvero supercalifragistico ed espiralidoso? Una spiegazione è cospirativamente antisemita e l’altra è letteralmente razzista. Entrambe, naturalmente, sono sbagliate.

È l’istruzione ebraica che rende gli ebrei più competitivi. Sì, anche quell’ebraico esitante del bar mitzvah (Filone stesso era molto più a suo agio a leggere la Septuaginta, la traduzione greca della Bibbia, dell’originale in ebraico), che in ogni modo genera una sensibilità bilingue, e anche quelle poche nozioni spirituali che provengono da una familiarità superficiale con Rosh Hashanah, Yom Kippur e il Seder di Pesach. Non è molto. Ma come spiegare altrimenti l’influenza persistente degli ebrei nel mondo scientifico sovietico anche dopo la soppressione delle scuole ebraiche? E ovviamente nel periodo post-sovietico, mentre gli scienziati se ne sono andati, gli oligarchi sono rimasti, più della metà ebrei, compreso quel gigante di due metri, apparentemente affidabile e non ebreo, di nome Mikhail Prokhorov, che nega le sue origini ebraiche nella maniera più garbata che ci sia, ma è inequivocabilmente figlio di Tamara, figlia della scienziata eroica e pienamente ebrea Anna Belkina. Perciò anche dopo che la partenza della maggioranza degli ebrei, i russi si ritrovano con una lunga lista di ebrei inspiegabilmente ricchi che spadroneggiano – benché naturalmente la loro situazione sia poca cosa in confronto a quella degli ucraini, storicamente molto più antisemiti (eccetto gli intellettuali) dei russi, che ora si ritrovano con un un ebreo come presidente, un ebreo come primo ministro e un miliardario ebreo come governatore regionale.

Ma i successori di Apione non devono disperare. In America tutto è possibile, anche una soluzione finale a questo problema di invidia e risentimento vecchio di duemila anni: l’annullamento deliberato, onnicomprensivo e rigoroso di ogni tipo di istruzione ebraica.

Una protezione efficace per gli ebrei è sposarsi con qualcuno che non è ebreo né minimamente interessato all’ebraismo – precauzione diffusa in tutta l’America, ma nei posti avanzati come San Francisco e Silicon Valley in particolar modo. Se fallite questa mossa, c’è sempre il rimedio di stare risolutamente alla larga dalle scuole ebraiche: in tutta la California ci sono sicuramente più figli di madri ebree nelle scuole di lingua cinese che nelle scuole ebraiche, che sono poche e piccole.

Di recente, su un volo dall’Europa, ho fatto conoscenza con una donna incantevole, mamma di tre splendidi bambini, che si lamentava della spaventosa difficoltà di trovare scuole con un minimo di qualità a San Francisco. Quando ho menzionato la sola scuola ebraica tuttora aperta in città, mi ha detto che in effetti l’aveva visitata e che le era piaciuta molto. Sfortunatamente, il marito aveva laconicamente rifiutato di esporre i figli a un’istruzione ebraica, seppur blanda e liberale. Lei è italiana, cattolica. Il marito è ebreo. Entrambi mi hanno gentilmente invitato a cena – con altri loro amici, per fare serata insieme. Ahimè, non ce l’ho fatta a soprassedere al culturocidio.

È chiaro come andrà a finire, perché è già successo prima: mentre gli ebrei progrediti lavorano alla propria estinzione (una volta ho incontrato un parente di Sir Moses Haim Montefiore: è un prete anglicano), quelli meno progrediti, abitanti delle tende che rimangono ebrei, si riprodurranno, e i loro figli otterranno quel che basta per evocare invidia e risentimento…

Articolo apparso originariamente in inglese su Tablet magazine, ripubblicato con il permesso dell’editore.

This story originally appeared in English in Tablet magazine, at tabletmag.com, and is reprinted with permission.

Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino

Edward Luttwak
Collaboratore

Edward Nicolae Luttwak è un economista, politologo e saggista, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera, esperto di politica internazionale e consulente strategico del Governo degli Stati Uniti.


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