Israele
Mario Troiani: “La luce di Israele ispira le mie fotografie”

“Tel Aviv è una città animata dalla linfa giovanile, ricca di energie e creatività, un luogo perfetto non solo per l’innovazione tecnologica ma anche per chi lavora nel campo artistico”

Trent’anni di carriera attraverso la lente della macchina fotografica. Ma soprattutto attraverso i piedi, che lo hanno portato, letteralmente, in giro per il mondo. Dopo aver vissuto tra Milano, Parigi, e molti Paesi dell’Estremo Oriente, Mario Troiani ha scelto di fermarsi in Medio Oriente, a Tel Aviv. In questa intervista, oltre a raccontarci il suo percorso artistico, ci spiega anche perché alla fine ha scelto Israele come luogo in cui, grazie alla luce unica di questo Paese, esaltare la sua fotografia.

Come è cominciato il tuo percorso artistico?

Sono sempre stato un ragazzino curioso, e curiosando, a 13 anni, ho trovato una macchina fotografica abbandonata in un armadio, che mio padre aveva regalato a mia madre ma che lei non aveva, di fatto, mai utilizzato. Ho cominciato la mia carriera da fotografo bruciando il primo rullino. Dopo aver capito il perché, mi sono immediatamente appassionato e ho cominciato a fare foto e a svilupparle da solo, in bianco e nero, con la camera oscura che mi ero costruito a casa, e quindi anche ad appassionarmi al processo stesso di sviluppo. Così, finiti gli studi, quando ho cominciato a lavorare, ho scoperto che potevo mantenermi combinando le mie due più grandi passioni, la fotografia e il viaggio, fotografando i Paesi in cui viaggiavo, e ho cominciato a viaggiare in Oriente, collaborando con numerose riviste italiane, francesi e spagnole, specializzandomi soprattutto nel reportage geografico.

Quando non viaggiavi, dove stavi?

Tra Milano e Parigi, ma soprattutto Milano, dove un’amica mi aveva offerto di dare una mano a suo padre nel processo di restauro e digitalizzazione dei grandi classici del cinema italiano, con tanto ti interviste e contenuti speciali. Per me è stata una riscoperta dei grandi autori come De Sica, Antonioni, Fellini e molti altri. Grazie al cinema e al loro modo di inquadrare le immagini anche io, a mia volta, ho imparato, nella fotografia, a soffermarmi e a prendere il tempo necessario per ricreare una composizione – anche se la scena, di fatto, è già esistente – grazie ad una inquadratura o una luce speciale. Solo quando l’immagine è perfettamente composta nella mia testa, allora, sono pronto a scattare.

Tra tutti i luoghi che hai visitato, quali ti hanno maggiormente influenzato nella tua carriera di fotografo?

Non esiste un luogo in particolare ma un insieme di luoghi, ognuno con la sua specificità. Sicuramente l’India per i colori, l’Indocina per la gente, l’Indonesia per la natura e Israele per la luce. Questo Paese per me è stato una vera scoperta, grazie a mia moglie Ilana, con cui venivo spesso a trovare la sua famiglia. Un giorno, mentre eravamo qui in vacanza, abbiamo iniziato a cercare una casa a Tel Aviv, che all’inizio doveva essere solo la casa in cui passare le vacanze. Era il 2009, e dopo aver fatto avanti indietro per qualche anno alla fine, nel 2014, abbiamo deciso di trasferirci qui.

Cosa, come fotografo, ti ha spinto a decidere di rimanere qua?

Oltre alla luce unica, sicuramente Tel Aviv è il centro di un mercato internazionale che permette di avere contatti in tutto il mondo, soprattutto negli USA, con cui ho collaborato spesso in questi anni facendo diverse mostre. Ma, oltre a questo, ciò che mi ha fatto davvero decidere di rimanere qui è la grande apertura mentale: la linfa giovanile, ricca di energie e creatività, un luogo perfetto non solo per l’innovazione tecnologica ma anche per chi, come me, lavora nel campo artistico, soprattutto arrivando dal background milanese. La vita qui è più organizzata e pragmatica, tutto viene sempre programmato con grande anticipo ma al tempo spesso c’è spazio per l’improvvisazione, per l’innovazione, per creare contatti inaspettati in modo immediato. Oltre al fatto che, al tempo stesso, è una città piccola, su misura d’uomo, da attraversare a piedi, che è il modo migliore per scoprirla, esplorarla, fotografarla. La mia prima mostra personale a Tel Aviv, “The Sound of Tel Aviv”, voleva proprio raccontare questo attraverso una narrazione fotografica che inseguiva il suono costante di questa vibrante città.

Qual è la tua zona preferita di Tel Aviv e quali i tuoi luoghi preferiti fuori dalla Città Bianca?

Tutto il lungomare, soprattutto per la luce, ma anche i suoi mercati, per la gente, i profumi, i colori. Quando invece voglio fare un tuffo nel passato mi immergo a Gerusalemme, così vicina alla Città Bianca ma distante anni luce nella sua percezione del tempo, che sembra essersi fermato. Quando invece cerco la natura vado sul Mar Morto, tra le sue spiagge selvagge e il deserto che lo circonda, soprattutto negli orari in cui la luce è perfetta. Nelle mostre che ho fatto negli ultimi anni, molte delle quali al di fuori di Israele – New York, Milano, Miami, Vienna – ho cercato proprio di raccontare la complessità di questo Paese attraverso tutte queste sfaccettature, cercando di offrire la mia visione, senza stereotipi, della vita e dei luoghi di questa terra impregnata, allo stesso tempo, di storia e modernità, che è anche ciò che la rende unica.

 

 

 

 

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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