Cultura Cinema
“Orthodoxed”: alcol, droga e filatteri

Quando il mondo chassidico è un approdo e non un punto di partenza: una nuova narrazione del mondo ebraico ortodosso nel biopic di Berel Solomon

Dopo una settimana dalla sua pubblicazione su YouTube, avvenuta il 5 dicembre scorso, le visualizzazioni erano già vicine al mezzo milione. Niente male per un documentario dedicato alla storia di un giovane ebreo canadese, Berel Solomon, da una fanciullezza alla sbando all’adesione al chassidismo.
Lungo poco meno di un’ora, Orthodoxed fin dal font del titolo, con quella X rossa che spicca tra le altre bianche sul fondo nero, vuole essere una risposta a Netflix e al modo in cui la comunità ortodossa è stata recentemente mostrata al mondo. In particolare, la critica mai dichiarata ma evidente è My Unorthodox Life, la serie dedicata alla vita di Julia Haart, imprenditrice e stilista statunitense che ha trovato la sua strada nel mondo solo dopo avere abbondonato la comunità ultraortodossa in cui era cresciuta. Qui il discorso è diametralmente opposto. Berel racconta come il successo gli sia arrivato proprio grazie alla riscoperta della propria ebraicità.

L’uomo, che ha curato anche la regia e la produzione del documentario, compare in video dal primo all’ultimo frame, sia per quello che è oggi, ossia un sorridente signore barbuto con la kippah in testa e gli occhi brillanti, sia nelle immagini, diciamo così, d’archivio. Si tratta in realtà di storia recente, dato che il ventenne che si filma col telefonino e la camera digitale raccontando le proprie prodezze giovanili ha pochi anni di meno dell’uomo in abito nero e cappellone che con una gioiosità contagiosa parla di sé dall’inizio alla fine. Come ogni docufilm che si rispetti, anche qui non mancano le voci di quanti hanno incrociato la strada di Solomon fino a oggi. Si va dalle interviste ai genitori a quelle ai colleghi e collaboratori per finire poi con quelle alla moglie, ai suoceri, ai rabbini che lo hanno accolto e alle persone che attualmente lui stesso aiuta.
Se l’intento era quello di mostrare in modo positivo la vita di un ebreo ortodosso si può dire che Berel abbia raggiunto il proprio intento. Solare persino quando critica la propria giovinezza, segnata da cattive compagnie, spaccio di erba e nightclubbing, via via che procede nel racconto, Ryan (come lo chiamano mamma e papà) si illumina fino a incuriosire e conquistare anche chi l’ebraismo lo conosce poco. E i commenti in calce al video lo dimostrano, firmati come sono anche da cristiani e da non credenti, tutti in qualche modo affascinati dal personaggio e dal suo modo di mostrarsi. Da parte sua, Berel ammette di essere cresciuto in quello che definisce un ambiente ebraico tradizionale, specificando che la cosa si riduceva a due visite all’anno alla sinagoga, con la cena del venerdì sera a base di costolette di maiale… Se poi un ortodosso gli attraversava la strada, beh, la prima tentazione era quella di centrarlo con la macchina!

Con una non troppo velata critica ai genitori, che pure sono coinvolti lungo tutto il film e comunque ringraziati per il sostegno e la pazienza, l’uomo dice di avere frequentato scuole private, ebraiche ma non religiose, in cui la forma era più o meno rispettata, ma dove nella sostanza la fede era completamente trascurata. Che poi lui fosse un personaggio comunque difficile lo dimostrano le imprese ai limiti se non proprio oltre la legalità che ne hanno segnato gli anni della fanciullezza. Alcol e droga, ma anche notti brave nelle quali il ragazzo dimostra comunque di avere un certo talento. E l’autore si lascia sfuggire qui anche un certo autocompiacimento.
Pare che qualunque cosa Barel faccia gli riesca comunque bene, scuola a parte. Dagli affari di fumo a quelli con i club notturni tutto quello che tocca gli va alla grande. Al punto da decidere già ai tempi di dedicare al proprio successo un reality in stile Kardashian, con le cineprese che lo seguono in ogni momento della giornata. Ma è proprio qui che arriva il crollo. In occasione del lancio della sua serie televisiva il ragazzo decide di mollare tutto. Dice di vergognarsi della vita che sta conducendo, tra la sorpresa dei genitori che di quel ragazzotto di successo vanno ormai anche piuttosto fieri.
La ricerca della verità non prende inizialmente la direzione della religione. Almeno, non di quella ebraica, che per Ryan era qualcosa di falso perché, racconta, nessuno gliela aveva mai mostrata nella vera essenza. Nella sua vita fino a quel momento non vi era stata l’ombra né di tefillin né di veri Shabbat, dichiara sconsolato. Le prime esplorazioni nella fede lo portano così altrove. Il ragazzo prova a frequentare prima la moschea e poi le chiese di diverse confessioni, riempie la propria stanza di libri religiosi, medita per sei ore al giorno…
Affascinato dal buddismo, decide infine di ritirarsi in un ashram. Ed è qui che interviene la madre. Che gli propone, semplicemente, di andare a fare due chiacchiere con il rabbino. Sarà la svolta, con quella che ha tutte le caratteristiche di una conversione. Dai viaggi in Israele alla scoperta del Chassidismo, il ragazzo rivoluziona tutto il suo vivere riuscendo però in qualche modo a restare fedele a se stesso e al proprio spirito entusiasta. In un primo tempo tenta persino di proseguire i suoi traffici nei locali notturni, dopo aver ottenuto dal suo capo e amico cristiano, Giovanni, il permesso di indossare la kippah anche sul lavoro. Resosi conto che le contraddizioni sono ormai troppe, entra nell’azienda del padre, dimostrando anche qui di riuscire a portare a termine affari importanti senza nascondere la propria identità religiosa, ma anzi partendo a volte anche da questa per conquistare clienti e collaboratori.

Di successo in successo, non poteva mancare anche la parte romantica. Raccontata con toni moderni ma incentrata su pratiche che a molti potrebbero sembrare superate. Solomon passa dal frequentare le ragazze nei locali notturni a non sapere come incontrare una donna a lui affine nella vita di tutti i giorni. Sentendosi solo, decide di rivolgersi a una figura antica come un matchmaker, un paraninfo. Che dopo qualche appuntamento a vuoto gli trova finalmente la ragazza giusta. E poco importa che questa abiti a Panama con i genitori, una elegante coppia di signori che hanno inserito il profilo della fanciulla nel database del sensale.
Il resto del filmato è un crescendo di immagini edificanti, dal matrimonio alla nascita dei tre figli con il quarto in arrivo, con Berel che si divide tra la famiglia e il lavoro nella sua neonata casa di produzione video. Onesto e schietto dalla prima all’ultima scena come del resto appare il suo protagonista e autore, il film finisce col far dimenticare gli intenti critici dai quali era probabilmente partito. Quello che resta è la testimonianza di un percorso esistenziale e il tentativo di coinvolgere quante più persone possibili, ebree ma non praticanti, nell’esperienza religiosa.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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