Cultura
Pupi Avati: “Nei film di oggi la memoria viene rimossa a favore del mercato”

Abbiamo incontrato il grande regista a Roma in occasione della pubblicazione del libro La Terra del Diavolo

Un viaggio fatto di emozioni, racconti, cultura, introspezione, studi e immagini su uno dei più importanti registi italiani di sempre. Questo è La Terra del Diavolo, a cura di Claudio Miani e Gian Lorenzo Masedu, secondo volume della collana Voci di Dentro, dedicato a Pupi Avati, uno dei registi italiani che hanno maggiormente segnato la storia del nostro cinema ed uno dei pochi capace di abbracciare quasi tutti i generi narrativi.

La Terra del Diavolo è un volume denso di significato  che contiene una lunga chiacchierata con il maestro bolognese. Un dialogo con il regista per ripercorrere non solamente il suo cinema e quel mondo di “genere” oramai quasi completamente dimenticato, ma soprattutto di sondare l’importanza delle radici e della terra all’interno dell’evoluzione sociale che ha segnato il nostro paese sin dagli anni del dopoguerra.

Un viaggio che parte dalle prime sperimentazioni filmiche di Balsamus, L’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati e giunge sino all’ultima fatica Il signor Diavolo.

Proprio di quest’ultima pellicola, in appendice al volume, è presente un prezioso omaggio esclusivo di Pupi Avati: il quaderno personale di appunti e schizzi utilizzato per la realizzazione della pellicola, che va ad aggiungersi ai quattro saggi tecnici, all’ampia intervista al Maestro e al vasto repertorio fotografico e d’archivio gentilmente concesso dalla Duea Film.

Il libro è stato presentato alla libreria Mondadori di via Piave a Roma. Pupi Avati ha animato l’incontro con il pubblico grazie alla sua proverbiale schiettezza e all’innato senso dell’umorismo.

Ho provato fin da subito un’enorme diffidenza verso questo progetto. Ho accettato solo perché Claudio Miani era molto simpatico – ha esordito il regista – Invece, devo dire, che questo è uno dei libri più belli che abbia visto, fatto con una grandissima cura dei dettagli, anche da un punto di vista editoriale e di impaginazione. Mi hanno stupefatto, nonostante le mie aspettative fossero davvero zero”.

In che contesto storico e sociale è nato il suo cinema?

Il mio è un cinema che nasce nel ’68, con tutte le prerogative di quegli anni. In cui si pensava che la fantasia potesse andare al potere. ‘Opera aperta’ di Umberto Eco ci ha segnato molto in quegli anni e ci ha convinto del fatto che più un’opera era aperta, più era capace di entrare in sinergia con lo spettatore che l’avrebbe poi completata. Niente di più utopico. Abbiamo vissuto un grosso equivoco. Il cinema è uno strumento assolutamente popolare e un film che non arriva al pubblico non ha alcun senso”.

Che ricordi ha dei suoi esordi dietro alla cinepresa?

“Chi ha iniziato in quegli anni ha avuto degli esordi molto rocamboleschi. Il mio ‘inizio’ è stato davvero un disastro e viverlo in provincia è stato ancora peggio. La provincia è davvero cattiva. Sono stato costretto a scappare da Bologna, dove ero visto come il fallito della situazione, e sono venuto a Roma che ha il grande dono dell’indifferenza. Proprio qua ho avuto la grande fortuna di incontrare Ugo Tognazzi. Lui venne a lavorare con me che ero un fallito. Sia lui, sia Paolo Villaggio. Ho fatto un film con loro due, grazie al quale poi non mi sono più fermato e ho avuto modo di fare carriera”.

Perché la qualità del nostro cinema è scesa così tanto rispetto a quella degli anni Settanta e Ottanta?

Quando io ho iniziato a fare cinema, i miei colleghi erano Lattuada, Fellini… Oggi i cognomi sono ben diversi. Non dico che non ci siano bravi colleghi naturalmente. Ma il problema sono i committenti. Non c’è più l’ambizione di voler fare un bel film. L’entusiasmo e l’energia di chi pensava di fare il film della vita, ed era comune a tutti all’epoca, oggi non c’è più. Ormai siamo ossessionati dai numeri, da quanti ascolti o quanti incassi si fanno. Le valutazioni ormai sono solo quantitative, non qualitative. E la cosa peggiore è che in questo modo priviamo i nostri figli dell’ambizione”.

Quali elementi della sua educazione contadina le sono stati più importanti per la sua carriera?

“Secondo me oggi manca quel tipo di cultura contadina, che mi è stata trasmessa durante il periodo della seconda guerra mondiale. La favola contadina è stata un’educazione meravigliosa, perché si basava sulla paura, sullo spaventarci e sul terrorizzarci. Da bambino mi hanno raccontato più volte la storia dello scheletro di un prete donna sepolto nel cimitero del paese, che, se non facevamo i buoni, ci veniva a trovare di notte in camera. Ogni volta che me la raccontavano, mi spaventavo a morte e poi non riuscivo a dormire. Mi ricordo anche quel tipo di religiosità preconciliare, anch’essa abbastanza spaventevole, basata sulla paura. Sono molto riconoscente, però, a quella paura, perché è stata molto formativa: l’immaginazione la suscita la paura. Se sei stato molto spaventato e ti abbandonano da solo in una stanza, non hai bisogno degli immaginari che oggi ci vengono venduti dalla Silicon Valley o da Cupetino: le nostre paure ce le facevamo da soli. La paura sollecita la formazione. Un altro elemento estremamente formativo dell’adolescenza è stata la mia timidezza, a cui sono molto riconoscente. La persona timida assorbe molto di più dall’esterno, non si esibisce, ma percepisce, è spugnosa, è ricettiva, si guarda sempre intorno. Si tiene in disparte, ma osserva e immagazzina informazioni. Ci sarà un momento della sua vita in cui, quando avrà lo strumento giusto, riuscirà a mettere a frutto tutto il materiale che ha immagazzinato per tanti anni da timido”.

Com’è nata la sua passione per il jazz?

“La provincia di allora era spietata e discriminatoria: allora le ragazze belle erano pochissime, si può tranquillamente affermare che gli italiani della mia generazione erano i più brutti del mondo. Le ragazze dell’Emilia Romagna non facevano eccezione, per cui quelle 4-5 bellissime erano corteggiate da tutti ed erano molto difficili da conquistare. Serviva qualcosa di peculiare per incuriosirle, per questo motivo sono arrivato al jazz: era una musica con cui si cuccava. Allora eravamo così cretini che guardavamo solo alla bellezza, che oggi non è più una discriminante, perché quasi tutte le signore che vedo anche ora intorno a me sono belle”.

Che cosa ha rappresentato per lei Carlo Delle Piane? Come attore e come uomo…

“Carlo è stato uno dei primi esempi di scorrettezza a livello di cast. Lui a dodici anni era stato scelto come bambino più brutto di Roma. Duilio Coletti stava facendo il film Cuore con De Sica e la Mercader e cercava un bambino particolarmente brutto. Quando ha visto Delle Piane, ha capito che era perfetto per il ruolo. Lui, venticinque anni dopo, ha iniziato ad avere una patologia per cui aveva il rifiuto del mondo e non si faceva toccare da nessuno: se accadeva per sbaglio, si rinchiudeva in bagno e si lavava totalmente, dalla testa ai piedi. Era una sorte di vendetta per la sua infanzia, lui era una persona socialmente problematica, che non stringeva neanche la mano quando conosceva qualcuno. Bastava che indossasse il costume di un personaggio del film e questo problema con c’era più: io gli ho chiesto di fare qualunque cosa, tipo baciare una donna e gettarsi in un fiume, e lui lo faceva senza problemi. Quando toglieva il costume, però, riemergevano tutte le sue fobie. Carlo ha fatto il grande cinema italiano con Totò, Sordi e Fabrizi. Quando ha smesso di fare questo tipo di film, ha iniziato a dedicarsi ai musicarelli. Mio fratello voleva assolutamente presentarmelo e me lo ha fatto trovare vestito da Marlowe in sartoria. Quando l’ho visto conciato così mi ha fatto ridere e quando ridi tutti i pregiudizi cadono. Lo abbiamo preso per il film e lì ho capito che dentro di lui c’era un retroterra psicologico interessantissimo, una malinconia, un dolore e una sensibilità estrema. Gita scolastica è costruito su di lui, il professore protagonista del film è il ritratto di Carlo Delle Piane nella vita quotidiana, in particolare nel suo difficile rapporto con le donne e con gli sconosciuti. Allora non lo voleva nessuno nel cast, lo abbiamo inserito nel cast di nascosto. Luciano Martino,il produttore e il distributore del film, non lo voleva perché cercava solo attori sconosciuti. Per le foto dei provini abbiamo fatto mettere a Delle Piane una parrucca bionda per non farlo riconoscere. Fu difficilissimo convincerlo, ma Carlo è stato il vero motivo del successo del film. Da lì è nato tra lui e me un rapporto meraviglioso, era un po’ come in una relazione d’amore: tu sai già quello che ti dà lui e lui sa esattamente quello che gli chiedo io. Olmi lo chiamò successivamente per fare ‘Ticket’, ma poi basta, non lo ha più chiamato nessuno e così lui ha iniziato a farsi ricoverare in clinica, ma lui, allora non stava male. Ero un finto ipocondriaco, che spendeva una fortuna per passare da una clinica privata all’altra, finché non gli è venuta davvero una brutta malattia che lo ha portato via, nel silenzio generale. Alla messa per il suo funerale, a Piazza del Popolo, del cinema italiano c’eravamo solo io e mio fratello, e basta. Una cosa vergognosa”.

Qual è lo stato attuale del cinema italiano nel campo horror?

Gli americani hanno mostrato interesse per i film horror di Guadagnino, per The Nest e per il mio. Erano un po’ di anni che non succedeva, speriamo che siano film forieri di una ripresa, perché rimanere stabilmente ancorati alla commedia italiana con una panchina di attori molto corta, sempre gli stessi che ruotano da un film all’altro, è una prospettiva non esaltante”

Come si mantengono le radici in una società sempre più tecnologica e globalizzata?

“Bella domanda. Purtroppo oggi conta solo il presente, il prodotto che si vende in questo posto e in questo esatto momento. Tutto ciò che è associato alla memoria è stato rimosso in cambio del mercato, che comanda persino nella programmazione della televisione, dove sono gli inserzionisti pubblicitari che fanno i palinsesti. Il passato, che sarebbe un momento di riflessione e di confronto fondamentale per capire l’oggi, è stato rimosso, perché a nessuno interessa, così come i film in costume. Io ho ricevuto sei no per Il signor Diavolo, perché era ambientato alla metà degli anni Cinquanta, un periodo che (secondo loro) non vuole vedere nessuno. Tutti vogliono vedere solo il presente nel cinema italiano, con le problematiche di oggi, mentre la cinematografia americana spazia in ogni ambito e in ogni epoca, come dovrebbe essere. Le radici sembra che nessuno le difenda oggi”.

Che cos’è per lei l’identità e che significa raccontare l’identità al cinema?

Incoraggiare le persone a non aver paura di essere sole, a non cercare continuamente la rassicurazione del gruppo. Io non mi sono mai sentito rappresentato da un altro, ho sempre dovuto in qualche modo pensare a me stesso: le vicende umane dove sei tu al centro e dove hai un tuo progetto che porti avanti, sono quelle che ti danno maggiori soddisfazioni. Questo vale sopratutto per i giovani, soprattutto quando il gruppo non esiste più e tu rimani come una porzione del tutto che non c’è più. Sono preoccupato dai giovani di oggi, sono molto ripiegati su se stessi e sulle regole del mercato”.

Qual è il film a cui è più legato, tra i tanti che ha diretto?

Il mio preferito è Storia di ragazzi e ragazze, e non perché sia perfetto, ma perché è quello che assomiglia di più al film che avrei voluto fare. Bergman diceva che solo dopo sette film era riuscito a realizzare un film che somigliava a quello che voleva fare. Storia di ragazzi e ragazze rispecchia il clima di un’epoca e spiega com’è nato il fascismo nella cultura agraria di allora, senza parlare mai di fascismo”.

Come ha fatto a spaziare in così tanti generi cinematografici?

Tranne che col western, mi sono misurato con quasi tutti i generi e mi sento arricchito anche adesso, dopo aver diretto un film gotico, che è stato come fare il tagliando con la macchina. Ti fa capire se la macchina funziona ancora e se sei ancora in grado di raccontare una storia”.

Gabriele Antonucci
Collaboratore

Giornalista romano, ama la musica sopra ogni altra cosa e, in seconda battuta, scrivere. Autore di un libro su Aretha Franklin e di uno dedicato al Re del Pop, “Michael Jackson. La musica, il messaggio, l’eredità artistica”,  in cui ha coniugato le sue due passioni, collabora con Joimag da Roma


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