Cultura
Regno senza scettro, popolo senza sovrano

Netanyahu formalmente incriminato. Israele verso un esito che (quasi) tutti dichiarano di non volere: la terza tornata elettorale in un solo anno

Ventuno giorni per non morire di schede elettorali. Anzi, di meno, dal momento che il premier neoincaricato per la formazione di un governo in Israele, Benny Gantz, ha gettato di nuovo la spugna – non era la prima volta che tentava in tale ruolo – mandando cortesemente al diavolo i suoi potenziali interlocutori di una coalizione che doveva costruirsi e che invece non ci sarà. Come in una sorta di conto alla rovescia, Israele si sta velocemente spostando verso un esito che (quasi) tutti dichiarano di non volere ma che si impone nei fatti come unica via praticabile: una terza tornata elettorale in un solo anno. Ritornare alle urne è una prospettiva francamente faticosissima per Gerusalemme. Una concreta ipotesi che il presidente Reuven Rivlin ha cercato in tutti i modi di scongiurare e neutralizzare, poiché ben sa che da un ulteriore appello agli elettori è assai improbabile che deriverebbero indicazioni diverse da quelle raccolte fino ad oggi.

In altre parole, ad urne riaperte e di nuovo chiuse, la probabilità che possano uscire solide e credibili configurazioni di alleanza diverse da quelle fino ad oggi ipotizzate e poi nullificate, è prossima allo zero. Bel rompicapo, che erode la credibilità residua di tutti i protagonisti politici ma che, in prospettiva, potrebbe mettere a dura prova anche le istituzioni, a partire da quelle di garanzia, come la stessa presidenza dello Stato. È non meno vero che nella storia recente ci sono stati paesi che per lungo tempo non hanno avuto un esecutivo, senza per questo cadere nel baratro dell’anarchia.

Il caso più significativo è quello del Belgio che per 540 giorni (tra il 13 giugno 2010 e il 5 dicembre 2011) scontò una vera e propria acefalia. Per quel lungo periodo, come le leggi in genere prevedono in questi casi, rimase in carica per la «cura degli affari correnti» il governo dimissionario. Non a caso l’esecutivo presieduto dal cristiano-democratico Yves Leterme eccedette, e di non poco, dai limiti impostigli dalla normale amministrazione, assumendo decisioni in assenza di ratifica parlamentare. Anche se tutto ciò fu poi applicato con prudenza. La stessa Italia, dopo le elezioni del febbraio 2013, si trovò in una sorta di “tempesta perfetta”, nella quale non si riusciva a comporre una maggioranza, mentre l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano andava verso la conclusione del suo mandato (e quindi non poteva sciogliere le Camere) e nessuna intesa veniva trovata sul nome del potenziale successore di quest’ultimo (che fu poi rieletto). La Spagna, tra il 2015 e il 2016, si trovò a sua volta a navigare a vista, senza una bussola e un capitano. Le interdizioni reciproche ad allearsi giocavano contro il risultato uscito dalle urne, non permettendo la creazione di coalizioni stabili. Le elezioni politiche del 2016, a seguito dello stallo perdurante, di fatto riconfermarono la situazione precedente. Che fu infine risolta, con una «grossa coalizione», tra socialisti e popolari, dopo una tessitura di relazioni e mediazioni durata quattro mesi. Israele non è quindi un’eccezione ma, va sempre ricordato, che non è propriamente nella medesima situazione dei paesi europei. Fosse anche solo per un contesto regionale in perenne ebollizione, la necessità di avere dei decisori pienamente legittimati nei loro ruoli è fuori di discussione.

In realtà, malgrado le tensioni con Gaza e nel Golan, Gerusalemme ha scelto al momento di praticare una politica di risposta bilanciata e fortemente adattiva. Il giudizio comune è che il ritorno ad un conflitto a scena aperta contro le milizie islamiste, che minacciosamente transitano, e si collocano, in prossimità dei confini nazionali, si rivelerebbe all’atto pratico non solo onerosissimo per la popolazione israeliana ma anche politicamente improduttivo. Ciò che costituisce il totem della «sicurezza collettiva», d’altro canto, richiede massima flessibilità per tradursi in atti e gesti congrui e non occasionali. Detto questo, se l’ago della bilancia è rimasto un Avigdor Lieberman, ora però più sbiadito, la “pietra dello scandalo” si è rivelata essere ancora una volta Benjamin Netanyahu, accusato da molti di non volere mollare le redini del premierato per calcoli di ordine personale: le inchieste della magistratura (è stato formalmente incriminato per corruzione, frode e abuso d’ufficio dal procuratore generale Avichai Mandelblit),  la consapevolezza che essere “retrocesso” a parlamentare gli impedirebbe, in tutta probabilità, di tornare a guidare un governo in futuro; l’insopportabile (per una parte degli israeliani) presenza della moglie, della cui influenza molto si va dicendo ed altro ancora. Gantz non ha accettato la pressante richiesta di Netanyahu di formare la grande coalizione tra Likud e Kahol Lavan (quest’ultimo lista elettorale sostanzialmente di centro-destra), permettendo al suo interlocutore-antagonista di assicurarsi il primo bienno del premierato, in un gioco della staffetta, così da potere affrontare l’eventuale iter giudiziario a venire nella posizione di parziale immunità che la carica gli garantirebbe. Lieberman, già braccio destro di Bibi ed ora sua acceso avversario, figura di politico laico (ossia che vede le componenti religiose dell’elettorato, quand’esse scelgono le liste che si rifanno ad una qualche ortodossia, al pari del fumo negli occhi) ma solidamente ancorato a destra, dove raccoglie buona parte dei suoi assensi elettorali, a partire dalla eterogenea moltitudine degli ebrei russi (pari oramai al 15% della popolazione), non poteva comunque accettare una maggioranza parlamentare che imbarcasse anche i tredici deputati arabi. I quali, peraltro, sono divisi tra di loro sul da farsi.

Più in generale, il match che si è giocato in queste settimane è parso essere ancora una riedizione del film «Re Bibi» contro tutti, anche se i suoi antagonisti sono sembrati, in più di un’occasione, apparentabili a degli stanchi giocatori di sumo, privi di un orizzonte progettuale che non fosse quello di estromettere il fantasma dell’avversario dalla propria area di azione e, quindi, condannati a ripetere gli stessi gesti all’infinito. In sostanza, il motore della politica nazionale sta girando nel vuoto. Parlare di un disagio tutto israeliano in queste dinamiche è tuttavia insufficiente. Poiché se di ciò si trattasse per davvero, allora un qualche accordo si sarebbe trovato, prima o poi. Magari giocando al ribasso, cedendo e concedendo, come Benjamin Netanyahu, accusato di eccessive collusioni e compiacimenti verso il fronte religioso, ha spesso dimostrato di sapere fare.

Certo, oggi Israele si trova priva di una figura forte di riferimento, essendo quest’ultima surrogata dalla carica istituzionale della Presidenza, nelle mani (e nella coscienza) di un anziano Rivlin, assurto a benevolo padre di una nazione che, intanto, si sta trasformando ancora. Ma il presidente dello Stato non può sostituirsi alla politica dell’esecutivo, né intende farlo, posto che il suo mandato, iniziato nel 2014, spirerà nel 2021. Non è il segno di una conclusione immediatamente dietro l’angolo ma è comunque una deadline che, insieme alla stanchezza che «Ruvi» avverte, soprattutto dopo la morte dell’amatissima moglie Nechama, deceduta il 4 giugno scorso, inciderà ulteriormente in questa giostra dell’impotenza politica. Al netto di ciò, gli aspetti esogeni della lunga crisi che Israele va vivendo sono da attribuire alle dinamiche che interessano un po’ tutte le democrazie dei paesi a sviluppo avanzato, anche laddove i governi sembrano godere di una relativa stabilità legata sia al consenso elettorale che a quello parlamentare maturati nel tempo. Non è il caso di lasciarsi sedurre dalle grandi architetture derivate dalla sociologia politica per cogliere quella netta perdita di mordente che gli esecutivi hanno registrato in questi ultimi tre decenni. Contrariamente alle letture che denunciavano il rischio di un’omologazione dei parlamenti nazionali alla ristretta volontà dei governi (cosa che si è puntualmente verificata solo in quei regimi a bassa o fasulla democrazia reale, il cui esempio più significativo è forse la «democratura» putiniana, così come nei liberalismi non pienamente sbocciati, come nel caso dell’Ungheria, della Polonia, ora anche della Repubblica ceca, ma non certo in altre realtà di ben diversa storia e radicamento), ad essere oggi in serie difficoltà sono soprattutto gli organismi che hanno responsabilità esecutive.

La progressiva frattura si è verificata sulla contrazione delle funzioni redistributive (politiche di Welfare, fiscalità generale, spesa pubblica) che, invece, fino a qualche lustro fa, erano garantite ed assolte dai diversi governi, che fossero di destra, di sinistra o di natura politicamente spuria. L’incapacità di gestire i processi economici, sfuggiti di mano alle élite poliche nazionali, in quella che è stata una vera e propria desovranizzazione, ha contato molto in questa evoluzione che stiamo raccontando. Si tratta peraltro di una dinamica in corso, i cui grandi effetti sono ancora tutti da misurare, soprattutto d’ora innanzi. Mentre l’economia globalizzata sembra affidarsi a referenti oligarchici, non rispondendo delle proprie scelte e dei loro effetti rispetto ai territori sui quali le prime e i secondi ricadono con insindacabile inesorabilità, il politico – inteso sia come individualità che come ambito della decisione – deve invece fare fronte a quelle domande di rappresentanza che arrivano dalla collettività e che, chiedendo sicurezza e protezione, registrano i timori dinanzi ai mutamenti di lungo periodo che le stanno pienamente coinvolgendo.

Nei regimi non democratici (un esempio è l’Iran di questi giorni, dove all’ennesima ondata di proteste per il caro carburante si è risposto attraverso il ricorso alla più brutale repressione, con robusta coda di morti e feriti) si transita per le vie di fatto. Naturalmente, finché ciò resta possibile, ovvero fino a quando un gruppo dirigente non viene brutalmente rovesciato e sostituito da altri, più o meno consensuali o autoritari.

In quelli democratici, invece, si va verso quella crisi di rappresentanza che, nel momento in cui si proietta permanentemente sugli equilibri parlamentari e politici, rischia di trasformarsi in una crisi di legittimazione di lungo periodo. La quale, infine, può riflettersi sulla stabilità del sistema istituzionale. Cosa c’entra l’incapacità delle forze politiche israeliane nel risolvere l’oramai lunga crisi rispetto a quest’ultimo ordine di riflessioni? Israele ha un elevatissimo tasso di propensione ad importare e ad esportare risorse e conoscenze. Al pari degli accessi e dei transiti di ordine migratorio. In contrasto con la sua condizione – altrimenti – di nazione isolata in un contesto regionale ostile. Il suo calco storico è quello delle democrazie euroamericane. Di esse, quindi, ne segue le dinamiche strutturali. L’economia nazionale si concentra, almeno nelle sue isole di eccellenza, intorno ad alcuni poli che ambiscono a diventare «città globali», capaci anche di produrre un indirizzo politico proprio.

Il caso di Tel Aviv, se inteso come distretto dell’innovazione, è in sé emblematico. Così come in Italia si può registrare la situazione di Milano, in Cina quelle di Shangai e Pechino e così via. Al netto delle tanti diversità, considerando e raffrontando i singoli casi. Sia ben chiaro: non si ha a che fare con realtà avulse dal resto dei loro paesi di appartenenza ma con trend di lungo periodo, dove la distribuzione del potere si fa diseguale proprio perché diverse sono le opportunità e le risorse presenti tra spazi distinti. L’asimmetria di opportunità, ma anche di progettualità, tra territori interni al medesimo Stato, si riflette sulla capacità di sintesi degli esecutivi nazionali. La litigiosità che li caratterizza, al punto da non trovare elementi comuni di mediazione, non è il segno di una “crisi di valori”, e neanche del “tramonto delle democrazie” ma il risultato di un’incapacità di gruppi dirigenti, formatisi in società novecentesche, prevalentemente industriali, ad intercettare il cambiamento che sta avvenendo tra la popolazione e, quindi, nel corpo elettorale.

Più che un mero problema di inadeguatezza di certuni è allora una generalizzata questione di incoerenza tra le domande che vengono dalla società civile, intesa come uno spazio di mutamento oramai permanente, e le capacità di risposta di élite che solo in parte riescono ad essere rappresentative di queste trasformazioni diffuse. Al tramonto dell’epoca di Benjamin Netanyahu – poiché questo è l’elemento in gioco in questi mesi in Israele – non a caso non si accompagna l’alternativa di una nuova stella polare capace di brillare nel firmamento politico. Coloro che già nel passato si sono candidati ad assumere un tale ruolo (si pensi a Tzipi Livni) si sono poi repentinamente eclissati. Non c’è ricambio, in altre parole. E senza di esso, non sussiste collante per una nuova coalizione che non duri lo spazio di un capriccio. Il vecchio Likud sta rischiando molto, poiché la sua stessa cultura e storia politica subisce le torsioni della malmostosità in corso. Ma il rischio di un vuoto persistente non è più solo uno spettro da agitare abilmente per spaventare qualche elettore ancora indeciso, al momento di mettere un segno su una lista nella cabina elettorale. Poiché ne è interessata l’intera società israeliana.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. “Gantz, … – non era la prima volta che tentava in tale ruolo’
    Era la prima volta. Dopo le prime elezioni di quest’anno, non gli era stata data la possibilita’ di provare, perche’ quando Bibi non e’ riuscito a formare il governo ha indetto nuove elezioni senza dare a Gantz la possibilita’ di provare a formarlo. E le elezioni di aprile 2019 sono state le prime cui ha partecipato Gantz.


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