Cultura
Dare un senso alla memoria

«È stato detto che capire tutto è dimenticare tutto. Forse una ragione per la quale i nazisti non possono esser mai dimenticati è che la loro ossessiva malvagità non può mai essere compresa» – Kitty Hart

Poniamo una duplice premessa, che si impone poiché ci indica il campo di forze dentro il quale dobbiamo affrontare un piccolo percorso di storia e di significato o, se si preferisce, di significato della storia come di storia dei significati. Ma prima di tutto identifichiamo e circoscriviamo il tema. Poiché vogliamo ragionare su un dato, ossia che la memoria dell’omicidio di massa non si dà mai come esperienza trasmissibile (qualcosa che si possa comunicare dentro i quadri della vita vissuta dalla grande maggioranza delle persone che ascoltano) poiché non ha coordinate di riferimento, quindi elementi di comparazione e di interpretazione, nell’esperienza del quotidiano, che è invece il vero oggetto di una trasmissione di ricordi. Un bell’inghippo, quindi, quando spostiamo la nostra attenzione sul tema della Shoah. Beninteso: il tema del genocidio non ha nulla a che fare con una qualche metafisica. Si tratta di un evento storico. Come tale può e deve essere ricostruito, analizzato e fatto oggetto di comunicazione pubblica. Il problema, quindi, non è fare storia ma interrogarsi sul valore e sui significati che intendiamo dare al termine «memoria». Parola di uso comune, come tale tanto confidente quanto a rischio di inflazione, perdendo nel corso del suo ripetuto uso il suo valore specifico. La memoria, per dare voce alle riflessioni che già Walter Benjamin faceva nel merito, somma sia gli esiti dell’esperienza trasmessa (Erfahrung) che di quella vissuta (Erlebnis).

La prima si perpetua quasi spontaneamente, di generazione in generazione, forgiando il calco delle idee che accompagnano gruppi, comunità e società nella loro esistenza di lunga durata; la seconda è invece la risultante del vissuto degli individui, come tale fragile, volubile e volatile, a tratti effimera, a volte revocabile repentinamente. Entrambe, quindi, confluiscono nel creare ciò che appelliamo con il nome specifico di memoria. Se l’esperienza trasmessa è maggiormente radicata nelle società tradizionali, dove il tempo ha una durata molto più lenta, quella vissuta è invece tipica delle società moderne, laddove invece la mobilità e il mutamento degli individui, così come delle singole comunità, e molto più accelerato. La modernità, infatti, è caratterizzata dal declino dell’Erfahrung, ossia dal tramonto dell’autorevolezza dell’anteriorità, quindi dell’impronta del passato. È ciò che conosciamo anche come «presentismo», lo schiacciamento ossessivo su un unico tempo, quello corrente, dove le cose si fanno tanto intercambiabili quanto, in se stesse, irrilevanti.

Prima premessa, dunque: il 6 ottobre 1943, in un discorso a “cuore aperto”, come si fa solo alle persone che possono per davvero capire il nocciolo duro e puro di quello che si sta dicendo, Heinrich Himmler, Reichsführer delle SS, rivolgendosi ad un gruppo di alti dignitari del Reich, camerati di una vita e sodali nel somministrare la morte, così sentenziava: «Vi chiedo soltanto di ascoltare ma di non far parola su quanto sto dicendo in questa cerchia. Ci si pose la domanda: che ne facciamo delle donne e dei bambini? Anche in questo caso, mi decisi per una soluzione chiara. Non ritenni giusto sterminare gli uomini – diciamo, ucciderli e farli uccidere – e lasciare crescere i bambini che potranno vendicarsi sui nostri figli e nipoti. Così, si dovette prendere la difficile decisione di far scomparire questo popolo dalla terra […]. La questione ebraica sarà regolata entro la fine di quest’anno nei territori da noi occupati. Del popolo ebraico rimarrà soltanto qualche resto, tra coloro che hanno trovato rifugio. […] Ora siete al corrente, e tenete tutto questo per voi. In un lontano futuro, potremo forse porci il problema se dire qualcosa di tutto ciò al popolo tedesco. Io credo che sia meglio se noi – noi tutti – assumiamo questo compito per il nostro popolo, ne assumiamo la responsabilità (la responsabilità di un atto, non solo di un’idea) portando questo segreto con noi nella tomba».

Seconda premessa: a corredo delle parole del capo nazista si affiancano, al medesimo tempo triste presentimento e coscienza compiuta, quelle pronunciate da Ignacy Schiper, già tra i maggiori conoscitori della storia degli ebrei, assassinato poi nel 1943 nel campo di sterminio di Majdanek: «[…] tutto dipende da coloro che trasmetteranno il nostro testamento alle future generazioni, da coloro che scriveranno la storia della nostra epoca. La storia viene scritta dai vincitori. Tutto ciò che sappiamo dei popoli assassinati è ciò che i loro assassini hanno voluto far sapere. Se i nostri assassini vinceranno, se saranno loro a scrivere la storia di questa guerra, allora il nostro sterminio sarà presentato come una delle più belle pagine della storia mondiale, e le future generazioni renderanno omaggio al coraggio di questi crociati. Ogni loro parola sarà una parola di Vangelo. Essi possono anche decidere di cancellarci dalla memoria del mondo, come se non fossimo mai esistiti, come se non ci fossero mai stati un ebraismo polacco, il ghetto di Varsavia, Majdanek».

La questione del dire e del non dire, o meglio del testimoniare (inteso come lasciare traccia tangibile, tale poiché comprensibile) o dell’occultare (manipolando retroattivamente il tempo, come se fosse un nastro da riavvolgere su di sé), è alla radice dell’interrogativo sulla praticabilità di una comunicazione della Shoah. Una comunicazione pubblica, che rompa lo squarcio della dimensione strettamente privata, deve quindi confrontarsi con la sfida del dolore insensato e della morte, che non parlano di sé se non per sottrazione, ovvero per assenza, o per vuota ridondanza, alla quale ci si sottrae per esasperazione. Dell’urgenza di parlare dello sterminio ebraico, peraltro, è andata in questi ultimi trent’anni maturando una consapevolezza incompiuta, pericolosamente sospesa com’è tra l’ipertrofia delle memorie e il ritualismo delle ricorrenze pubbliche. Una consapevolezza che si incontra con le amare parole di alcuni sopravvissuti, come quelle di Kitty Hart: «È stato detto che capire tutto è dimenticare tutto. Forse una ragione per la quale i nazisti non possono esser mai dimenticati è che la loro ossessiva malvagità non può mai essere compresa», e di Primo Levi quando, ingiustamente punito da un Kapò, alla domanda Warum? («Perché?») si sente rispondere Hier ist kein Warum («Qui non c’è perché»).

In origine, infatti, vi fu il silenzio. Dei testimoni, dei sopravvissuti, dei protagonisti così come degli spettatori. Forse ad esso vorremmo potere tornare ma non prima di avere compiuto un percorso di appropriazione dei luoghi, degli eventi, soprattutto dei nomi di quanti furono inghiotti nel crepaccio della Shoah. Luoghi dell’esproprio; eventi incomprensibili; nomi cancellati. Il crepaccio, quindi, non si narra da sé, non avendo nulla di auto-evidente, costituendo, piuttosto, la sfida per eccellenza alla cognizione, al sapere ma anche e soprattutto ai codici con i quali l’una e l’altro si esprimono. Se si affronta il tema delle deportazioni e dell’annientamento degli ebrei europei, come di quanti furono a vario titolo assassinati nella logica del Nacht und Nebel, della «notte e della nebbia», come un insieme coordinato di eventi dai quali può trarsi da subito una intrinseca razionalità, riconducibile ai paradigmi della spiegazione storica e ai metodi della comunicazione, si rischia quindi di perdere il senso prospettico delle cose. Che non è dato a priori ma che, semmai, ci chiede d’essere costruito attraverso l’esplorazione.

Non è forse un caso se i migliori risultati nella ricerca sul Lager di Auschwitz-Birkenau ci siano derivati non solo dagli archivi cartacei scampati al tentativo di distruzione nazista e dalle testimonianze dei sopravvissuti ma dal lavoro archeologico compiuto nel sito in questi ultimi decenni. Si deve andare lì e cercare, ricercare. La Shoah è il crocevia della modernità e della barbarie, la nowhere land, il territorio, evenemenziale e mentale nel medesimo tempo, di nessun luogo, dove queste due tendenze si incontrano, rivelandosi reciprocamente compatibili. Su questo aspetto già Zygmunt Bauman si era intrattenuto con la sua riflessione su «modernità e Olocausto», aprendo ambiti di riflessione non solo nel merito dell’evento-Shoah ma anche riguardo al metodo per definirlo, perimetrarlo e affrontarlo. Se Auschwitz è l’inverso della cultura è perché ne rappresenta non tanto (o solamente) la negazione ma una sorta di reciproco opposto, indicando dove la fantasia delirante, quando va al potere e si sostanzia in esso, possa arrivare in quanto intenzione amorale e progetto tecnologico. Per queste ragioni, e per altro ancora, ad oggi – ancora di più che nel recente passato – la rappresentazione dell’universo concentrazionario e sterminazionista si presenta come una sfida che mette a dura prova le capacità espressive della cultura contemporanea. Non perché sia contro di essa ma perché è germinata dentro di essa.

Non è un caso, poi, se agli sforzi di dire e dare qualcosa di quel passato si possano frequentemente intrecciare banalizzazione, trivialità, feticismo e immedesimazione patologica. La banalizzazione deriva da quella potente forza, sempre in opera, che è la semplificazione della complessità del processo storico, tanto più se di tale genere. Semplificare vuol dire rassicurarsi sulla falsa evidenza nel rapporto tra cause ed effetto. Affermare che i trascorsi sono complessi non induce a formulare l’epitaffio della comprensione, e quindi a celebrare l’inazione, bensì a cogliere l’occorrenza di un esercizio critico aggiuntivo, che invita a ragionare sulla propria cultura in termini autoriflessivi, come ad un oggetto non conchiuso (come altrimenti lo intendevano gli stessi nazisti e, più in generale, oggi i fondamentalisti di ogni genere e risma) bensì in quanto testo aperto. La trivialità si correla alla banalizzazione ed è una delle forze su cui il nazismo ha costruito le sue fortune. Al riguardo, soprattutto laddove si sofferma sulla natura kitsch dell’ideologia hitleriana, e dei suoi cascami, parole importanti sono state dette da Saul Friedländer nel suo «Reflets du nazisme» così come da George Mosse in «Sessualità e nazionalismo», due libri nei quali la radice della catastrofe è colta in quel bisogno ossessivo di ordine, in sé peraltro molto moderno, dove ogni cosa ed ogni individuo devono stare «al loro posto», si trattasse anche di una fossa comune.

La riflessione sui paradigmi autoritari si inscrive nella lezione della Scuola di Francoforte e nelle sue ricerche sociologiche sull’autoritarismo, ma è stata recepita un po’ da tutti gli ambiti disciplinari, proprio per la sua trasversalità, così come dimostra la lettura di un volume quale quello di Enzo Traverso su «La violenza nazista». Ma valga al riguardo anche la lezione di Susan Sontag che in «Fascino fascista», prendendo ad oggetto l’opera di Leni Riefenstahl, ne smonta i codici simbolici e le potenti valenze ideologiche, riassumendole nella necrofilia che cosparge di sé ogni scena delle pellicole della regista tedesca. La trivializzazione è infatti la forma mascherata di adesione ex post alle motivazioni dei nazisti. Si manifesta anche laddove si penserebbe di non incontrarla, ovvero tra quanti si professano apertamente contro l’ideologia hitleriana ma, in realtà, se ne sentono attratti senza però poterlo riconoscere apertamente. Non è un caso se il discorso sui Lager, sulle deportazioni, sullo sterminio abbia raccolto così tanto interesse in questo ultimi trent’anni, non essendo ogni forma di identificazione necessariamente il prodotto del rifiuto della catastrofe. Semmai, ed è ciò che ci obbliga a riflettere sul feticismo come sull’immedesimazione patologica, il nazismo e i suoi tragici effetti si basavano su una potente macchina mitopoietica, capace di dare vita, nel corso della sua esistenza, tanto breve quanto tragicamente intesa, ad una serie di simboli, segni e oggetti perduranti, in grado di indurre adesione a tutt’oggi.

Se il nazifascismo come fatto storico si è concluso le sue vestigia non sono i ruderi di un passato che non ritorna ma parte della quotidianità che viviamo, trattandosi di un evento codificatosi nella modernità. In questo si verifica la sua persistenza, ovvero non tanto come dottrina politica quanto come insieme segmentato di convincimenti, suggestioni, immagini ai quali esso aveva dato una coerenza. Su di tutto domina un sentimento che è la mancanza dei sentimenti, ovvero quella assenza totale di empatia, e quindi di incapacità di riconoscersi nel destino dell’altro da sé, sostituendo ad esso la proiezione nell’autorità, nell’ordine, nel comando come surrogati dell’esistenza emancipata. Se Erich Fromm aveva parlato di «Fuga dalla libertà», allora quel bisogno permane oggi più che mai, in una età che invita alla deresponsabilizzazione come unico atto possibile dinanzi alla cogenza dei fattori sistemici sulla vita dei singoli individui.

Il trittico sul quale occorre ragionare, quindi, è quello che compone in un montaggio complesso, ossia evolutivo, immagine, immaginazione e immaginario attraverso oramai più di settant’anni, dal 1945 in poi. È alla chiusura dei campi che si aprono le porte del ricordo. Il quale sovviene poco a poco, intrecciato com’è alle dinamiche collettive e, quindi, alle diverse stagioni della memoria non meno che della storiografia e, del pari, delle arti. Che seguono gli imprevedibili percorsi che hanno caratterizzato la produzione della testimonianza, e il suo statuto pubblico, nonché il lavoro sugli archivi, a partire da quelli cartacei e fotografici, dei quali si è fatto progressiva scoperta, e uso, solo nel tempo.

Ciò che ne deriva è che quanto chiamiamo con il nome di memoria non solo non ha una declinazione univoca ma richiede di essere costantemente sottoposta ad una manutenzione. Dieci passaggi, a questo punto, possono imporsi, nel mentre affrontiamo un nuovo Giorno della Memoria:

  • non esiste una memoria comune ma un arcipelago di ricordi, da intendersi come manufatti intellettuali spesso tra di loro in conflitto: è nella natura medesima di quel fenomeno collettivo che chiamiamo ricordo; la memoria, quindi, non è uno strumento di pacificazione ma di reiterazione negoziata del conflitto;
  • il conflitto è un elemento costitutivo nell’evoluzione sociale ed individuale: segna il mutamento e la differenziazione; come tale, va rapportato al fenomeno del pluralismo, della cui tutela si incaricano le democrazie costituzionali;
  • non di meno, ogni generazione- che non è tuttavia mai un soggetto storico e sociale unitario – deve costruirsi un profilo mnesico a sé, tale poiché in grado di confrontarsi con il mutamento che la coinvolge;
  • la memoria parla del passato per offrire strumenti di comprensione e di condivisione nell’interpretazione del presente: è come un arsenale di sollecitazioni che debbono accordarsi con il tempo di cui sono espressione;
  • ciò che chiamiamo memoria è parte integrante del sistema di immagini che introiettiamo come segni significativi: sono tali gli elementi di un sistema condiviso di simboli che accostiamo a percetti e concetti comuni;
  • fuoco fondamentale della comunicazione sulla memoria è semmai l’identificare un sistema di regole da condividere: ciò che ci divide non è il confronto tra interessi contrapposti ma, piuttosto, l’incapacità di negoziarli;
  • del pari, il significato e l’incidenza di certi termini master, come in sé la stessa parola «fascismo», vanno rideclinati e risemantizzati di tempo in tempo; il rischio, altrimenti, è quello di rifarsi a categorie metastoriche e, al medesimo tempo, informate ad un’inflazione da utilizzo tale da determinarne un crescente deficit di valore; esiste anche in questo caso un’utilità marginale decrescente;
  • impossibile fornire una trasmissione di significati improntata a prescrittività: si annulla da sé dal momento in cui rivela la sua natura moralistica, impositiva, esterna ai soggetti che ne sono destinatari;
  • alla memoria, quindi, non può essere imputata né attribuita alcuna “morale” che non sia quella che deriva dalla cognizione della complessità delle comunità umane; non esiste un sistema di valori legato al ricordare ma il valore fondamentale dell’atto di sapere ricordare: non si ricorda altro che non sia la proiezione di se stessi nel passato. La rilevanza del saper ricordare deriva dal fatto che esprime una temporalità all’indietro, una profondità identitaria che trova nel passato la sua costituzione.

Ed infine: è impossibile qualsiasi progetto orientato al futuro se non c’è un solido impianto di identificazione del passato; tuttavia, ancora una volta, va detto che ogni generazione deve darsi le sue ragioni (e quindi i suoi ricordi). Ci sono forse molti modi di intendere il passato ma sussiste un tempo che non passa mai, quello che genera consapevolezza. Come tale, va cercato. La memoria non è mai un dovere; semmai è un diritto. Come tale, bisogna lottare – al pari di molti altri diritti – perché possa essere conquistata e condivisa. Anche per una tale ragione è perennemente a rischio. Al pari di qualsiasi idea di giustizia.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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