Cultura
Sionismo e Stato di Israele

Un excursus storico sulle posizioni di una sinistra, a tratti non meno radicale dei suoi antagonisti supernazionalisti, che ha coltivato, per tutto il corso della sua esistenza, posizioni apertamente contrapposte al sionismo, pur non opponendosi allo Stato d’Israele

Sionismo e Stato d’Israele sono la medesima cosa? Ovvero, l’una cosa e la premessa dell’altra, alimentandosi anche vicendevolmente? Il sionismo ha avuto come obiettivo prevalente quello di costruire uno Stato degli ebrei oppure ha compreso in sé anche altre mete? Non di meno, lo Stato d’Israele fino a che punto può dirsi realizzazione delle idealità sioniste, ossia del pensiero politico che ne ha innervato la storia, oltre all’ovvio riscontro che l’esistenza di una sovranità ebraica è comunque il risultato dell’azione di donne e uomini che si riconobbero in quel movimento di ricomposizione nazionale a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento? Ancora, essere “antisionisti” implica immediatamente essere anche contro l’esistenza dello Stato ebraico oppure ci possono essere delle sfumature che comportano, malgrado tutto, ancora delle differenze di fondo?

Parrebbero quasi quesiti oziosi, comunque cavillosi, posto che chi oggi riconduce la sua opposizione alla totalità delle politiche israeliane, in genere identifica e denuncia nel sionismo l’origine di dei “mali” che accompagnano il Medio Oriente. Quel movimento storico sarebbe la madre di tutte le nequizie, informandosi a principi di ordine coloniale, imperialistico, suprematista ed etnorazzista. Poste le cose in questi termini, gli spazi di discussione e mediazione si azzerano: il radicalismo di certe pseudo-definizioni rischia di scivolare velocemente verso mete inconfessabili, passando dal rifiuto dei processi storici e dei loro protagonisti alla ricusazione degli essere umani tout court. Detto questo, in Israele, esiste oppure è esistita un’opposizione al sionismo senza che da ciò derivasse il rifiuto aprioristico dello Stato? Al netto delle posizioni espresse da una parte delle componenti arabo-israeliane, semmai in campo ebraico si sono dati dei movimenti che – pur riconoscendosi nel principio della cittadinanza statale israeliana – hanno tuttavia confutato i capisaldi dell’esperienza sionista, cercando quindi di slegare la prima dalla seconda?

A volere rileggere con attenzione il libro della storia più recente, quello che data dal 1948 in poi, al riguardo ci sono due fenomeni contrapposti da prendere in considerazione, poiché animati da una sorta di specularità capovolta. Il primo di essi rimanda alla forte accentuazione, a partire dagli anni Settanta, di una spinta alla radicalizzazione che una parte della destra ipernazionalista ha conosciuto, in alcune sue frange, dal momento che Gerusalemme si è trovata a dovere amministrare la Cisgiordania. La vecchia e tradizionale destra liberale e anticollettivista si è dovuta confrontare con movimenti, liste e piccoli partiti che hanno progressivamente occupato lo spazio militante che si è originato dopo la vittoria nella Guerra dei sei giorni, quando la questione del rapporto con la terra (e con le popolazioni arabe che la risiedono) è stato riformulato alla luce di un orizzonte politico diverso, molto più estremo. Più che di sionismo, o ancora meno di antisionismo, qui è semmai meglio parlare di un ultranazionalismo i cui effetti si sono misurati anche sull’identità nazionale, ossia sui modi e sui termini con i quali ci si considera israeliani. Si tratta di un tema che ha preso spessore nel tempo e che oggi sta nell’agenda politica dei governi del Paese. E che segna, in qualche modo, il passaggio per certuni verso qualcosa di definibile come il «Regno di Giudea».

Il secondo fenomeno, che costituisce invece il fuoco di queste righe, è la presenza di una sinistra, a tratti non meno radicale dei suoi antagonisti supernazionalisti, che ha coltivato, per tutto il corso della sua esistenza, posizioni apertamente contrapposte al sionismo, pur non opponendosi allo Stato d’Israele. Anzi, di esso e della sua “salvezza” dal rischio di involvere in una comunità politica dove l’identità etnica avrebbe fatto a pugni con quella democratica, ne ha fatto quasi una missione. Il lettore, quando sente parlare di sinistra ebraica, e poi israeliana, se si rifà alle radici dell’esperienza politica di quest’ultima pensa inevitabilmente a figure come Martin Buber, Judah Magnes, Gershom Scholem, Arthur Ruppin, così come la fondatrice dell’Hadassah Henrietta Szold, tutti sostenitori di uno Stato bi-nazionale, costituito sia da ebrei che da arabi e basato su istituzioni non solo rigorosamente laiche ma, per l’appunto, prive di riferimenti e rimandi all’identità etnica. Ad essi, in quanto singoli pensatori, si sono storicamente affiancati movimenti come l’Hashomer Hatzair, che ha cercato una sintesi tra socialismo riformista e sionismo. Oggi, a fare propria una tale impostazione, rimane soprattutto il partito Meretz.

Tuttavia, la vera sinistra israeliana non sionista è ben altra cosa. Da una parte c’è il partito comunista nelle sue diverse trasformazioni e palingenesi. Il Maki, acronimo di HaMiflega HaKomunistit HaYisraelit, è conosciuto a tutt’oggi come componente autonoma di un’alleanza politico-elettorale, l’Hadash («Nuovo», a sua volta acronimo di HaHazit HaDemokratit LeShalom VeLeShivy, ovvero Fronte democratico per la pace e l’uguaglianza). L’Hadash nacque nel 1977, come unione tra l’allora Partito comunista d’Israele (noto come Rakah, Reshima Komunistit Hadasha, Nuova lista comunista) e il movimento delle Pantere nere HaPanterim HaShhorim. Quest’ultimo, la cui dissoluzione data al 1992, era nato nel 1971 a Gerusalemme, in quanto movimento di protesta fondato da ebrei immigrati dall’aerea mediorientale. La piattaforma politica partiva dalle rivendicazioni delle componenti mizrachi della società israeliana, che denunciavano le discriminazioni di cui si ritenevano oggetto da parte soprattutto delle istituzioni politiche. Il nome derivava, non a caso, dai rapporti intercorsi tra Saadia Marciano, uno dei suoi fondatori, e Angela Davis, esponente carismatica della sinistra comunista negli Stati Uniti e del Black Front militante. Dopo avere inscenato manifestazioni di piazza contro l’esclusione da rilevanti aspetti della vita pubblica ed istituzionale, raccogliendo un discreto seguito tra i media, le Pantere tentarono, senza fortuna, la via della partecipazione elettorale. Alcuni leader entrarono poi a fare parte di altre organizzazioni, accentuandone e condizionandone l’attenzione verso la «questione orientale». Di fatto la loro piattaforma entrò nell’agenda del dibattito politico, concorrendo al successivo successo del Likud, dalle elezioni del 1977 in poi, essendo divenuto il partito che più riusciva ad intercettare il disagio di questa diffusa componente della società israeliana.

L’Hadash, che aveva raccolto comunque una parte delle loro istanze, da sempre si identifica come partito misto, ossia espressione sia di ebrei che di arabi. Non è quindi un caso se una rilevante parte di elettori e di leader appartengano alla grande minoranza arabo-israeliana, dichiarandosi estranei al sionismo nella sua natura di “ideologia” comune. Dal 2015 Hadash ha dato vita, insieme ad altre tre liste arabe (Balad, Ra’am e Ta’al) a quella Joint List che nel 2020, all’elezione per la ventitreesima legislatura, si era garantita ben quindici seggi alla Knesset. Le vicende dei comunisti israeliani meritano una trattazione a sé, essendo particolarmente tortuose. Basti dire, al riguardo, che il Maki, durante il 1965, a causa di una fortissima divisione interna, si scisse. La componente ebraica, guidata da Moshe Sneh, apertamente critica verso le posizioni anti-israeliane dell’Urss, subì la fuoriuscita di quel gruppo che fondò il Rakah, accesamente «antinazionalista», «antiborghese», antisionista e filopalestinese. Nelle file di quest’ultimo militarono esponenti di un qualche rilievo nella vita politica nazionale come Emile Habibi, Tawfik Toubi, Meir Vilner, godendo dell’appoggio di Mosca. Già nel 1965, mentre il Rakah otteneva tre seggi (riconfermati con le elezioni del 1969, divenuti poi quattro nel 1973), il Maki se ne assicurò uno solo. Tuttavia, l’opposizione di principio della Nuova lista comunista al sionismo ne determinò ben presto l’emarginazione dai processi decisionali, non partecipando la governo di unità nazionale che si costituì durante la sesta legislatura. Successivamente, mentre nel 1981 quello che restava del Maki confluì nel Ratz (HaTnua’a LeZkhuyot HaEzrah VeLaShalom, «Movimento per i diritti civili e la pace»), di Shulamit Aloni e Yossi Sarid, a sua volta estintosi nel 1997 (entrando nel Meretz). Nel 1989 il Rakah assunse per sé il nome di Maki, a suggello della costanza della sua posizione comunista, a tutt’oggi professata (in parlamento ha due seggi, dentro la Joint List).

Alle labirintiche vicissitudini dei comunisti si affiancava un altro movimento nazionale antisionista, il Matzpen («bussola»). Fondato nel 1962 come Organizzazione socialista in Israele (con ciò evitando quindi l’aggettivazione in «israeliana», per indicare che la presenza fisica sul territorio nazionale non indicava un’adesione di principio alle ragioni dello Stato “sionista”) da ex membri del Maki – posizionatisi in rotta di collisione con il filosovietismo della parte restante dei comunisti israeliani – rimane il gruppo che, nel corso della sua presenza sulla scena politica nazionale, più chiaramente ha argomentato la sua posizione antisionista. Non a caso, la sua ramificazione organizzativa e le pubblicazioni (a partire da un omonimo mensile di buona diffusione) che ha prodotto nel corso della sua esistenza, hanno conosciuto il maggiore sviluppo dopo la Guerra dei sei giorni. Il Matzpen ha riunito in sé attivisti arabi ed ebrei, impegnandosi, insieme al Rakah, contro «l’occupazione dei territori conquistati nel giugno del 1967» ma secondo una logica selettiva, basata sul sostegno a quelle organizzazioni palestinesi che avessero riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele formulato nei termini del «diritto del popolo israeliano all’autodeterminazione [nazionale] al fine di consentire una lotta congiunta di arabi ed ebrei nella regione per un futuro comune». Lo Stato ebraico doveva essere “desionistizzato”, per poi entrare a fare parte di una federazione di paesi socialisti del Medio Oriente. Una regione, quest’ultima, rispetto alla quale necessitava una mobilitazione congiunta di tutte le minoranze per avviare una lunga lotta contro il conservatorismo delle classi dirigenti degli Stati nazionali. Il quadro politico di questa mobilitazione divenne poi noto come «rivoluzione araba», che combinava compiti al medesimo tempo nazionali e socialisti nel processo di lotta contro il sionismo, l’imperialismo e la «reazione» araba (ovvero, l’agglomerato di interessi classisti rappresentato dai ceti possidenti).

Per promuovere questi obiettivi, il Matzpen stabilì legami con le organizzazioni della Nuova sinistra in Europa e in altre parti del mondo, come anche con organizzazioni palestinesi quali il Fronte democratico per la liberazione della Palestina. Rispetto ad Israele, del quale non disconosceva la necessità storica, affermava tuttavia che «lo Stato sionista è nato dalla violenta espropriazione ed espulsione dal loro paese degli arabi palestinesi, e quel processo continua ancora oggi. In aperta alleanza con l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, e in collusione con le forze più reazionarie del mondo arabo, lo stato sionista si oppone attivamente a ogni passo, per quanto vacillante, compiuto dalle masse arabe per alleviare la secolare miseria loro imposta dal colonialismo e dall’imperialismo. Nei territori occupati dal 1967, lo Stato sionista impiega un sistema di repressione militare diretta per espellere gli arabi palestinesi dalle loro terre e assicurarne la colonizzazione ebraica, e per schiacciare ogni espressione di resistenza palestinese. […] Lungi dall’offrire un rifugio agli ebrei perseguitati del mondo, lo Stato sionista sta guidando nuovi immigrati e vecchi coloni verso un nuovo Olocausto, mobilitandoli in un’impresa coloniale e in un esercito controrivoluzionario contro la lotta delle masse arabe per la liberazione nazionale e emancipazione sociale. Una lotta che non solo è giusta ma che alla fine sarà vittoriosa. Questo stato di cose, inoltre, non è affatto casuale. [Semmai] è l’inevitabile risultato del successo del progetto sionista di stabilire uno Stato ebraico in Palestina. E per cambiare questa realtà è necessario non solo un cambio di governo o una modifica dell’una o dell’altra politica specifica, ma una trasformazione rivoluzionaria delle fondamenta stesse della società israeliana». Poste queste premesse, già nel 1970 l’organizzazione aveva iniziato un processo di frammentazione ideologica e organizzativa, attraverso la formazione di nuovi gruppi come Avanguard, di ispirazione trotskista, guidato da Menahem Carmi e Sylvain Cypel; Ma’avak (Alleanza comunista rivoluzionaria), di osservanza maoista, con a capo Ilan Albert e Rami Livneh; l’Alleanza comunista rivoluzionaria-Fronte rosso di Udi Adiv e Dan Vered; la Spartacist League e il gruppo Nitzotz. Le distinzioni tra le diverse fazioni riguardavano le ispirazioni dottrinali, particolarmente esacerbate in quegli anni. Avangard voleva fondare una repubblica socialista israeliana, attenuando l’attenzione altrimenti dedicata al conflitto israelo-palestinese; Ma’avak denunciava il «carattere coloniale» d’Israele, ritenendo che il socialismo potesse costituirsi solo con la liberazione nazionale dei palestinesi.

Negli anni successivi il Matzpen si scompose in Matzpen Tel Aviv, guidato Haim Hanegibi, Moshe Machover, Akiva Orr, e in Matzpen Gerusalemme di Arieh Bober e Michel «Mikado» Warschawski (noto anche come Matzpen Marxist e poi Lega comunista rivoluzionaria). Quest’ultima frazione era impegnata in una versione trotskista del marxismo, mentre Matzpen Tel Aviv era meno ideologicamente puro, più bohémien e pragmatico, iniziando ben presto a stringere nuovi legami con i partiti comunisti di Israele (per l’appunto il Maki e il Rakah). Diversi membri di Haziz Aduma, il Fronte rosso, nel 1972 furono arrestati con l’accusa di spionaggio a favore della Siria, a causa di un viaggio segreto compiuto a Damasco. Cinque di essi vennero poi condannati, tuttavia dopo avere reso confessioni di dubbia veridicità. Il Matzpen, nel suo insieme, in quanto piccola galassia dell’ultrasinistra israeliana, non ha retto alle trasformazioni politiche e culturali degli anni Ottanta quando, soprattutto rispetto al tema del rapporto con i palestinesi, è subentrata una nuova generazione di militanti e di gruppi meno connotati sul piano ideologico e più attenti agli aspetti pragmatici della mobilitazione dell’opinione pubblica. Il bagaglio ideologico della sinistra classista risultava a quel punto più un ingombro che non uno strumento per cogliere il senso dei processi politici e sociali in corso. Anche in conseguenza di questa generale situazione di contesto, la maggior parte delle fazioni Matzpen cessò di avere un’esistenza organizzativa distinta alla fine di quel decennio, se non prima. Molti dei loro ex membri, tuttavia, continuano a partecipare come militanti impegnati sui temi dei diritti civili e sociali. Nel 1995, alcuni ex membri di Derech HaNitzotz (il «sentiero della scintilla»), già componente dell’organizzazione radicale, fondarono il Da’am Workers Party, attivo ad oggi. Nel suo insieme, l’agenda politica del Matzpen verteva su alcuni indirizzi di fondo che cercavano di garantirsi una coerenza ideologica attraverso il paradigma del superamento del sionismo in Israele, con la cancellazione della Legge del ritorno e la lotta al nazionalismo. Così affermava Moshe Machover: «ogni richiesta di immigrazione in Israele dovrebbe essere decisa separatamente in base ai propri meriti, senza alcuna discriminazione di natura razziale o di natura religiosa». La convinzione era che il sionismo fosse un limite alla trasformazione di Israele in una società autenticamente socialista, rigettando anche e soprattutto il “riformismo” dei partiti di governo. Matzpen era contrario alla nozione stessa di uno Stato ebraico, che avrebbe privilegiato gli ebrei rispetto ad altri gruppi. Mentre Martin Buber credeva che il sionismo potesse evitare le trappole dello sciovinismo, aderendo ai principi umanisti (quello che chiamava «umanesimo ebraico»), l’organizzazione radicale sosteneva invece che il sionismo non potesse essere separato dalle sue radici scioviniste. Come affermava Akiva Orr, nel Matzpen c’erano due principi inattaccabili: l’antisionismo e l’anticapitalismo. Il problema della vera uguaglianza in Israele, quindi, non riguardava l’interpretazione e l’applicazione del sionismo, ma il fatto stesso che esistesse

Rimane il riscontro che una buona quantità di risorse e tempo sia stata spesa da parte della sinistra radicale israeliana, tra gli anni Sessanta e Settanta, per dare sostanza sia ad un corpus ideologico che avrebbe dovuto coniugare internazionalismo, nazione ebraica e social-comunismo, sia per definire il proprio ruolo rispetto all’Unione Sovietica. Non è quindi un caso se nella società israeliana di allora l’opinione diffusa, ancorché non riscontrata da prove certe, fosse che Matzpen coltivasse link con i movimenti terroristici arabi. In realtà l’organizzazione costituì una calamita per una serie di individui il cui radicalismo. almeno in alcuni casi, si sarebbe poi tradotto in violenza, nel mentre la parte restante rifluiva verso posizioni meno estremistiche. In quanto attore politico, Matzpen raccolse lo spirito delle lotte anticoloniali, a partire dalla guerra in Algeria, divenendo una sorta di costola israeliana dei movimenti della Nuova sinistra maggiormente connotati sul versante terzomondista. Non è un caso, allora, se alcuni suoi esponenti, o fiancheggiatori, tra di essi Eli Lobel, abbiano contributo a fare si che esponenti del Fronte di liberazione nazionale algerino, come lo stesso leader Henri Curiel, entrassero in contatto con i suoi militanti, tra i quali Amos Kenan e Uri Avnery (tra i fondatori del Comitato israeliano per un’Algeria libera), già entrambi membri, molti anni prima, del gruppo Lehi, collocato invece sul versante del radicalismo di destra.

L’influenza di Matzpen come movimento in Israele, a conti fatti, fu peraltro piuttosto modesta, limitandosi piuttosto principalmente a giovani comunisti e socialisti in via di radicalizzazione, agli studenti, ad alcuni intellettuali ed artisti. Una figura importante da menzionare, al riguardo, è Tikva Honig-Parnass, che combatté con il Palmach nel 1948 e servì come segretario del Mapam (Partito unificato dei lavoratori), prima di abbandonare il sionismo e unirsi al gruppo radicale, durante il 1967, in ragione della sua posizione contro l’occupazione militare dei territori conquistati durante la guerra. Nel complesso, l’avversione nei confronti del nazionalismo fece sì che anche nei riguardi di Yasser Arafat e dell’Olp molti nutrissero dubbi se non deliberata indisponibilità, ritenendo che il nazionalismo palestinese non fosse migliore, o preferibile, a quello sionista. Il gruppo di Derech HaNitzotz, ad esempio, era più solidale con il Fdlp (Fronte Democratico per la liberazione della Palestina). I suoi membri ne incontrarono il segretario Nayef Hawatmeh a Londra nel 1982. Hawatmeh era interessato ad una qualche forma di dialogo con la sinistra israeliana antisionista, almeno di quella parte che condivideva l’utopia comune di una rivoluzione socialista in Medio Oriente. Il substrato ideologico di fondo del Matzpen, più che rifarsi allo stalinismo, -dal quale molti si erano differenziati da subito, semmai reputandolo una deviazione patologica del progetto comunista – rinviava all’internazionalismo trotskista, alle posizioni della Quarta internazionale, alla ricerca di una sorta di «rivoluzione permanente» che avrebbe dovuto coinvolgere non solo la classe operaia industriale ma tutte le «masse» del Terzo Mondo. Non di meno, forte era l’influenza dei temi della Nuova sinistra europea.

Un altro aspetto interessante della sinistra antisionista in Israele è il verificare come alcuni dei suoi membri più importanti avessero iniziato le loro militanze politiche nell’estrema destra, ad esempio nel caso del Lehi, per poi spostarsi all’estrema sinistra durante gli anni Sessanta. In qualche modo il connubio tra estrema destra ed estrema sinistra non è poi così inverosimile. Lehi aveva combattuto, in assoluta minorità, isolato dal resto delle forze sioniste, per porre fine al mandato britannico e per garantire la sovranità ebraica nel paese; socialisti antisionisti e comunisti ebrei avevano combattuto anch’essi per porre termine al mandato britannico ma si erano poi orientati contro l’«imperialismo occidentale». Figure di destra come Amos Kenan o il poeta Natan Alterman avevano intessuto legami con alcuni rivoluzionari che erano poi divenuti parte del piccolo arcipelago Matzpen. Nel Pe’ulat HaShemit («Azione semita»), un gruppo di estrema sinistra, molti dei suoi quadri provenivano dall’estrema destra. Tra di essi il già ricordato giornalista Uri Avnery e Natan Yellin-Mor. Quest’ultimo era divenuto uno dei comandanti di Lehi dopo che il suo leader, Avraham Stern, venne ucciso dagli inglesi nel 1942.

A proposito di questa strana e ambigua simbiosi tra radicalismi di destra e di sinistra erano gli stretti legami intrattenuti con i cananei, guidati dal poeta Yonatan Ratosh, il cui programma per separare Israele dal giudaismo e dalla Diaspora, aveva portato gli affiliati a fare proprie posizioni di estrema destra. Come Matzpen, anche i Cananei, noti altrimenti come Giovani Ebrei, erano antisionisti, tuttavia in modo molto diverso dai loro concorrenti di sinistra. Avevano infatti adottato i principi fondamentali del sionismo, portandoli tuttavia ad una estremizzazione che, di fatto, ne negava i contenuti universalistici. Ratosh e i Cananei fecero di questi il ​​fondamento di una nuova ideologia di autoctonia radicale, sostenendo che solo coloro che vivessero nel paese e parlassero ebraico potevano far parte di una nuova nazione ebraica: gli «ebrei» erano un prodotto della Diaspora, come il giudaismo e lo stesso sionismo. I cananei cercarono quindi di reinventare e rimodellare le radici pre-israelite nel paese. Gli arabi che vivevano in Israele avrebbero potuto entrare a far parte di una nuova nazione ebraica, tuttavia a patto di abbandonare l’Islam e il cristianesimo, unendosi quindi alla ricostruzione di un’antica società autoctona. La terra e la lingua avrebbero determinato la fisionomia della nazione a venire. Il cananesimo non ha mai avuto più di poche decine di membri effettivamente associati. Tuttavia, poiché la maggior parte di questi erano intellettuali e artisti con un discreto seguito, il movimento nel suo insieme ha potuto godere di un’influenza che è andata ben oltre le sue dimensioni organizzative. I suoi affiliati credevano che nell’antichità gran parte del Medio Oriente fosse stata una civiltà di lingua ebraica. In ragione di ciò, speravano di far rinascere una tale civiltà, creando una nazione “ebraica” slegata dalla Diaspora, che avrebbe quindi abbracciato anche la popolazione araba. Concepivano sia «l’ebraismo mondiale che l’Islam mondiale» come arretrati e medievali. Anche in ragione di ciò, combattendo spesso nelle file di Lehi ed Irgun, manifestarono in più di un’occasione una miscela di militarismo e politica di potere nei confronti degli arabi in quanto comunità organizzata, a fronte della loro accettazione come individui da riscattare dall’oscurità medievale.

Negli anni Novanta, infine, il movimento Matzpen era quasi completante scomparso, sebbene restino a tutt’oggi piccoli gruppi di giovani comunisti e socialisti israeliani di osservanza antisionista. L’Alternative Information Center (AIC), ad esempio, un’organizzazione non governativa palestinese-israeliana, fu fondata nel 1984 da Warschawski, che tre anni dopo venne arrestato e successivamente condannato a una breve pena detentiva per aver fornito aiuto ad organizzazioni palestinesi illegali. Ad oggi l’AIC funge da ultima testimonianza di ciò che rimane in memoria dell’esperienza del vecchio movimento.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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