Cultura
Stefan Zweig: «L’ebraismo è un sentimento»

“Soffiare sul pregiudizio antiebraico è il vecchio sistema che nazionalisti spregiudicati e militari utilizzeranno per distogliere l’opinione pubblica dalle conseguenze disastrose delle loro politiche aggressive” scriveva uno degli autori di maggior successo della prima metà del ventesimo secolo

Nel dicembre 1912 Martin Buber scrive a Stefan Zweig, proponendogli di contribuire a un volume Sull’ebraismo – questo il tema e il titolo – che verrà pubblicato a Praga l’anno successivo a cura dell’associazione di cultura ebraica Bar Kochba. Tra gli autori dei testi del volume, oltre a Buber stesso, l’amico di Kafka Max Brod, Hugo Bermann, Gustav Landauer. Zweig rifiuta. La mia fedeltà all’ebraismo non è in discussione, scrive al suo corrispondente Marek Scherlag, ma “sento di anno in anno una sempre più forte riluttanza a definirlo soltanto in termini logici”. Per me l’ebraismo, continua Zweig, è esclusivamente “un fatto di sentimento, […] qualcosa di informe, di illimitato e di imperimetrabile”. Di indefinibile, per cui ogni ricerca di cristallizzarlo in una formula sarebbe esercizio futile nel migliore dei casi, fuorviante nel peggiore. Per questo “tutti i libri che vogliono spiegarlo mi risultano semplicemente ripugnanti” – e Zweig nell’originale manoscritto sottolinea le parole “spiegarlo” e “ripugnanti”. L’ebraismo non è qualcosa come un oggetto o un dato che possa essere afferrato, messo sotto la lente del microscopio e tranquillamente esaminato. Se gli si avvicina come a qualcosa si sottrae, sfugge alla smania catalogatrice dell’osservatore, sguscia via e lo beffa. Come ogni identità non è un oggetto ma un modo di porsi del soggetto, un atteggiamento, nelle parole del romanziere viennese un “sentimento”.

Stefan Zweig è stato celebre in vita per i racconti e i romanzi brevi in cui protagoniste sono spesso giovani donne in balia dell’amore, una tempesta che le porta qui e là, spesso alla distruzione o all’autodistruzione come nella Lettera di una sconosciuta da cui Max Ophuls ha tratto nel 1948 un film meraviglioso. Ma Zweig è autore anche di numerose biografie storiche romanzate e di due opere scritte negli ultimi anni di vita, quelli tra l’esilio da Vienna dopo l’annessione alla Germania nazista e il suicidio in Brasile nel 1941, nel pieno della guerra mondiale e della Shoah: il romanzo breve La novella degli scacchi e l’autobiografia uscita postuma Il mondo di ieri, in cui evoca nostalgicamente la civiltà perduta dei salotti e del teatro della bella Vienna di inizio secolo. Per decenni, inoltre, Zweig ha scritto lettere a decine di corrispondenti in tutta Europa. Una selezione di missive piccola ma sostanziosa – le lettere sono oltre cento – in cui emergono temi ebraici è stata pubblicata nel 2020 in lingua originale tedesca ed esce oggi in lingua italiana per i tipi di Giuntina con il titolo Lettere sull’ebraismo.

 Stefan Zweig rappresenta forse più di ogni altro la figura dello scrittore ebreo perfettamente integrato nella lingua tedesca, la lingua prevalente della cultura dell’Europa centrale prima dell’ascesa di Hitler. La lingua è patria, il luogo dove si è vicini a ciò che è più caro e che allo stesso tempo si usa per comunicare i sentimenti – parola chiave non solo del rapporto di Zweig verso il proprio ebraismo ma anche per definire il percorso di tanti personaggi della sua narrativa. Stefan Zweig era allora un idealista che viveva chiuso nella propria torre d’avorio, in una repubblica delle lettere non toccata, almeno prima del dilagare della barbarie nazista, dalle tragedie del mondo e unicamente interessata a ciò che è bello e raffinato? Le lettere sull’ebraismo mostrano che la realtà è più complessa.

 L’antisemitismo, innanzitutto, è un problema che Zweig ha ben presente e che affronta in numerose pagine scritte non solo dopo il 1933, ma anche e soprattutto durante la prima guerra mondiale. Nell’aprile 1915 scrive a Abraham Schwadron che a Vienna “si trovano argomenti per l’antisemitismo tratti dall’atroce sofferenza dei galiziani”. Che cosa vuole dire Zweig? Durante la guerra la regione di confine della Galizia passa più volte di mano, venendo occupata alternativamente da russi e austriaci. Le comunità ebraiche locali – le più numerose nell’impero – sono particolarmente colpite e una ondata di centinaia di migliaia di profughi in condizioni di totale indigenza si riversa nella capitale. Lungi dal suscitare commozione, scrive Zweig, i profughi sono additati come i colpevoli delle miserie e degli insuccessi bellici. In Austria questo rancore antisemita, “che già adesso è latente, si scaricherà dopo la guerra non contro i guerrafondai […] bensì contro gli ebrei”.

Zweig, tra i pochi intellettuali pacifisti in Europa fin dai primi mesi del conflitto, vede dell’odio antisemita una bizzarra e pericolosissima “forma di unità” in grado di tenere insieme i numerosi e differenti popoli che abitano l’impero dell’aquila bicipite. Sa bene, d’altra parte, che soffiare sul pregiudizio antiebraico è “il vecchio sistema” che nazionalisti spregiudicati e militari in cerca di onore sul campo di battaglia utilizzeranno per distogliere l’opinione pubblica dalle conseguenze disastrose delle loro politiche aggressive. Nel dicembre 1918, a guerra appena conclusa, Zweig scrive a Buber lamentando che, qualsiasi cosa succeda al tavolo degli accordi di pace, “la colpa per il tracollo sarà attribuita per secoli, in Germania, ai capi ebrei”, a suo dire responsabili tuttalpiù di disorganizzazione e scarso coordinamento, cioè esattamente dell’opposto rispetto a quanto viene loro rimproverato da settori crescenti di opinione pubblica che li descrivono come il nemico interno responsabile di una fantomatica pugnalata alle spalle. Uno Zweig cupo, quello che si rivolge a Buber, e che però ammette: “Forse sto giudicando per paura del destino della nazione ebraica, che è importante per me in questo momento tanto quanto quella tedesca”. Ancora un sentimento, questa volta la paura. E una confessione niente affatto scontata da parte di un intellettuale integrato come forse nessun altro all’interno della civiltà danubiana di lingua e cultura tedesca. Ma una domanda rimane inesausta: quella ebraica è una nazione?

 Forse no. La guerra mondiale è una tragedia per tutti gli esseri umani coinvolti, scrive Zweig ancora nel 1915, ma per gli ebrei di più. Essi sono infatti “internazionali” più di qualsiasi altro popolo e quindi soffriranno più degli altri, “senza avere trionfi come quelli. Essi soffrono e basta, senza far soffrire – e questo è oggi, in un mondo di violenza, il peggior peccato”. Zweig è stato in un certo senso profeta, visto che al termine di oltre quattro anni di carneficina sono sorte tante piccole nuove patrie a sostituire gli imperi disintegrati, dalla Cecoslovacchia alla Polonia, dalla Yugoslavia alla piccola nuova Austria compiutamente tedesca, cattolica e alpina. Per gli ebrei, invece, non c’è stata nessuna nuova patria: hanno perso una casa imperfetta e tuttavia pur sempre casa come l’impero di Francesco Giuseppe senza trovarne una nuova. La civiltà ebraica, ha scritto l’autore praghese ebreo Johannes Urzidil, è quella hinternazionale: hinter, cioè “dietro” le nazioni – né sopra né sotto. L’Austria di Urzidil e di Zweig è la civiltà europea, la civiltà hinternazionale assediata dai nazionalismi e devastata, pochi anni più tardi, dai fascismi. Proprio qui, negli interstizi dietro le nazioni, si nasconde la lezione dell’ebraismo, questa entità indefinibile e sfuggente. Allo stesso tempo Zweig sa che alcuni ebrei – una minoranza per ora, ma in rapida crescita a causa anche della violenza antisemita – aspirano a realizzare una propria forma di nazionalismo, il sionismo. “Non voglio assolutamente mancare di rispetto a coloro che […] si cimentano […] nella costruzione di una vecchia nazione come di una nuova”, scrive Zweig, ma questa non è la mia strada perché “reputo un pericolo i nazionalisti”, chiunque essi siano. E inoltre l’ebraismo, inteso come forza imprendibile che sta dietro ed è in grado di fecondare le culture, inteso in senso nazionalistico rappresenta “uno scadimento e una rinuncia alla sua missione più alta”. “Forse”, ipotizza Zweig, “il suo scopo è quello di mostrare, attraverso i secoli, che può esserci comunità anche senza terra”, senza esercito e senza bandiera.

Nella ex capitale di un grande impero multinazionale ridotta a centro di governo di una modesta repubblica Zweig scrive, ottiene popolarità e successo, viene tradotto all’estero. All’alba dopo quelli che Karl Kraus ha definito “gli ultimi giorni dell’umanità” – la grande guerra – partecipa alla costruzione del mito asburgico, quel mito letterario e artistico in genere che guarda dietro di sé verso ciò che non è più e lo evoca sulla scorta della nostalgia della distanza. Poi, l’ascesa del nazionalsocialismo. Alcuni mesi dopo la presa del potere da parte di Hitler, nel maggio 1933, Zweig scrive a Felix Salten che “è sbagliato ogni apparire e farsi avanti ai congressi da parte degli scrittori ebrei tedeschi. Gli altri [sottolineato] devono adesso farsi carico della nostra causa, perché è quella della libertà e dell’onore della parola”. L’antisemitismo, sta dicendo Zweig, non è un problema che riguarda esclusivamente gli ebrei. Riguarda la società intera, ed è perciò auspicabile che a interessarsene prendendo le parti delle vittime perseguitate non siano le vittime stesse – inevitabilmente in causa – bensì coloro che non sono, almeno per il momento, direttamente colpiti. Nella stessa lettera Zweig propone a Salten l’idea di un manifesto che gli scrittori ebrei tedeschi dovrebbero scrivere congiuntamente non per lamentare le ingiustizie patite o condannare la Germania, ma per presentare “semplicemente la nostra situazione”. Oltre a sé stesso e a Salten, fa i nomi di Werfel, Beer-Hofmann, Josef Roth, Wassermann, Döblin, Mombert e Feuchtwanger come possibili aderenti. Dovremmo specificare, continua Zweig, “come abbiamo vissuto nella lingua tedesca, come l’abbiamo servita” portandone la reputazione nel mondo. La lingua – la patria più intima che dopo quella politica e quella simbolica verrà anch’essa presto sottratta agli ebrei costretti all’esilio o condotti allo sterminio – è il perno dell’ultimo, disperato tentativo di resistere alla barbarie.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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