Cultura
“Se questo è un uomo”: la traduzione ebraica e la memoria collettiva d’Israele

Intervista a David Meghnagi circa l’edizione ebraica del libro di Levi, tra omissioni e identità nazionale

C’è una bella pagina scritta da Primo Levi nel suo Se questo è un uomo:

Venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portato con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina e le fisarmoniche per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto: e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo i costumi dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta la notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato.

Racconta molte cose. Racconta di come l’uomo si prepari alla morte e delle tradizioni, peculiari, degli ebrei provenienti da Tripoli, racconta la tragedia di un popolo intero, racconta la Shoah. Dal piccolo al gande, dal dettaglio al tutto, dal particolare all’universale. Una pagina toccante e importante di un volume celebre in tutto il mondo. Ma nella traduzione in ebraico, avvenuta piuttosto tardivamente, c’è una omissione. La segnala David Meghnagi che da tempo è impegnato perché il testo sia ristampato in una nuova edizione fedele a quanto Levi ha realmente scritto. Ordinario della Società psicoanalitica italiana (SPI), didatta dell’Istituto italiano di psicoanalisi di gruppo, prof. di psicologia clinica e dinamica (Univ. Roma Tre), già vice presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), Meghnagi ne parla in questa intervista. E parte da qui: «La traduzione in ebraico oltre a impoverire la ricchezza del testo originario omette un riferimento importante e fondamentale nell’economia della pagina riportata: quel “venivano da Tripoli” nella traduzione ebraica del 1988 si è perso».

Perché questa omissione?
«Se non fosse per le implicazioni, verrebbe da ridere amaramente all’idea che una delle pagine più belle e cariche di significato di un’opera fondamentale sulla memoria della Shoah e che segna un passaggio nella rappresentazione del dramma che si consuma la notte prima della deportazione, l’origine tripolina delle donne sedute per terra che piangono, è stata con altri importanti elementi volutamente omessa, come se avesse di per sé costituito un “problema”. Pensare che una pagina così importante della testimonianza di Levi, potesse essere censurata nella traduzione ebraica della sua opera solo perché le donne che simboleggiavano quel dolore di ogni luogo venivano da Tripoli, come se si trattasse di un abbaglio dell’autore o di un falso storico, ha un che di surreale. Sarebbe bastato per il traduttore chiedere per sapere che a Fossoli c’erano anche degli ebrei provenienti dalla Libia.
Nonostante le sollecitazioni (cito un articolo di Avraham Arbib, Ezehu Targum /”Se questa è una traduzione”, apparso su Haaretz il 27/7/2020, ma anche la pagina d Wikipedia in ebraico grazie agli inserimenti di Franco Arbib), l’editore israeliano continua a ristampare l’opera senza le dovute correzioni, né una nota di scuse o di spiegazioni.
Nella traduzione ebraica il brano è reso con queste parole: ׳׳בצר׳ף 6 א׳ התגורר גטניו הזקן עם בניו הרבים נכדיו החרוצות. בנתב׳ נשאו תמיד עמם את כלי עבודתם וכן מפוחון, כ׳נור וככלי מתבח. הם היו רגילים לנגן ולרקוד אחר׳ יום העבודה, מכיוון ששהיו בעלי אמונה ועל׳ז׳ם כאחד. (“Nella baracca 6° abitava il vecchio Gattegno con i suoi numerosi figli e nipoti laboriosi. Portavano sempre con sé i loro attrezzi da lavoro, oltre a una fisarmonica, un violino e utensili da cucina. Erano abituati a suonare e ballare dopo la festa del lavoro, perché erano sia religiosi che allegri.”)
A parte la resa poetica, fortemente sminuita, il riferimento all’origine tripolina delle donne sedute in cerchio al buio, con le candele accese, è un elemento importante nella trama che precede la pagina dell’ “alba ci colse come un tradimento”.
Il brano in cui Levi descrive il lutto degli ebrei di Tripoli e le loro preghiere funebri prima della deportazione ha una grande valenza poetica e letteraria. È un brano intenso, carico di empatia verso quelle famiglie strappate dalle loro case e trascinate in Italia dalla periferia dell’Impero per essere deportate dopo lunghe peripezie in Germania.
Dopo questo breve esordio che accompagna il lettore nel lungo viaggio che questa gente ha dovuto affrontare, l’autore ci introduce nel cuore di un’angoscia senza nome che si è abbattuta sul campo, di cui la preghiera e il pianto sconsolato delle donne attorno a delle candele accese sono un’eco.
Il “noi sostammo numerosi davanti alla loro porta…” con cui Levi conclude il brano, è il segno della scoperta di un legame che lo accompagnerà per il resto della sua vita.
Segna uno spartiacque con la descrizione successiva, in cui l’eco delle letture manzoniane giungerà in aiuto allo scrittore per dare corpo ai sentimenti provati prima della discesa nell’inferno di Auschwitz».

Ci parli degli ebrei libici a Fossoli
«A Fossoli gli ebrei libici erano una componente specifica del campo con una storia e uno status particolari. Erano stati deportati in Italia a scaglioni a partire dal febbraio del 1942 e disseminati in vari campi che meriterebbero di essere recuperati e valorizzati per la didattica della memoria. Fatti affluire verso il grande campo di polizia e transito di Fossoli presso Carpi, furono deportati, a partire dal gennaio-febbraio 1944, a Reichenau, Vittel, un campo di detenzione nei pressi di Nancy nel nord della Francia, e a Bergen- Belsen. Essendo cittadini britannici erano sotto la protezione della Croce Rossa e per questo si salvarono.
Rientrati in Libia nel  ’45 non fecero in tempo ad acclimatarsi che dovettero fare i conti con un sanguinoso pogrom durato tre giorni. L’intervento confuso e tardivo delle truppe britanniche fu vissuto dagli ebrei come un tradimento.
A questa realtà periferica dell’ebraismo italiano, Levi ha dato voce facendola uscire dall’oblio. Il pianto e le preghiere di quelle donne sedute al buio con dei lumi accesi, resterà impresso nella sua memoria e farà da sfondo alla riscoperta di un sentimento di appartenenza che attraversa i secoli e i millenni».

Dalla deportazione al pogrom…
«Grazie alla loro cittadinanza britannica gli ebrei libici deportati in Germania, godettero della protezione della Croce Rossa e per quanto le autorità britanniche non fossero interessate a scambiarli con prigionieri tedeschi (lo scambio avvenne solo sul finire della guerra), si salvarono. Nel campo di Bergen-Belsen ci fu anche la nascita di un bimbo, che fu nascosta alle guardie del campo. Al loro ritorno furono accolti con un sanguinoso pogrom. Una catena cumulativa di traumi a cui gli ebrei risposero lasciando in massa Paese verso il nascente Stato di Israele. Diverso fu il destino cui andò incontro la Comunità di Bengasi deportata in massa per la vicinanza al fronte con l’accusa di collaborazione con le forze alleate, nel campo di Giado a 175 km circa a sud di Tripoli dove per un’epidemia di tifo morirono oltre 600 persone, un quarto circa della comunità. Sarebbero morti tutti, se la guerra nel frattempo non fosse finita dopo la battaglia di El Alamein».

Perché in Israele non si è prestato attenzione a questo dettaglio così importante?
«In Israele, come ovunque, l’integrazione delle diverse memorie della guerra non è avvenuta in modo lineare. Il processo di rielaborazione di un tragico e doloroso passato è avvenuto per fasi. Basti pensare che le memorie di Marek Edelman, il vicecomandante della rivolta del Ghetto di Varsavia, sono state pubblicate in ebraico solo nel 2000. Alla fine degli anni quaranta e negli anni cinquanta bisognava non voltarsi indietro. Bisognava guardare avanti, aggrapparsi alla speranza. Lo Stato appena nato fu oggetto di una guerra di distruzione in cui morì l’uno per cento della sua popolazione. Tre anni prima, alla fine della guerra, l’intero popolo ebraico era stato decimato in Europa. Gli ebrei del mondo arabo erano fuggiti in massa. Derubati e perseguitati avevano trasformato il loro esilio in esodo. In pochi anni la popolazione ebraica del Paese passò da 600 mila abitanti a circa un milione e ottocento mila, tra cui diverse centinaia di migliaia di sopravvissuti. Sarebbe come se in Italia la popolazione fosse passata in un decennio e in condizioni di povertà, da 60 milioni a 180 milioni. Ciò nonostante il Paese ce la fece a reggere le sfide più difficili perché era sorretto da una grande speranza di riscatto. Tutto ciò avvenne però anche al prezzo di rimozioni profonde. Il processo Eichmann rappresentò un grande punto di svolta. Iniziò un’era nuova. I sopravvissuti non erano più “fantasmi” di un mondo scomparso, persone che “non si erano ribellate” e che si erano lasciate “condurre al macello.” Erano gli ultimi testimoni di un mondo violentemente scomparso. Grazie a loro era possibile riannodare i frammenti di un’esistenza spezzata che coinvolgeva l’intero popolo ebraico e l’umanità nel suo insieme. Iniziava così l’era del testimone.
La tragedia della Shoah si è consumata in Europa, ma se la guerra non fosse terminata in Africa e nel Vicino Oriente con la vittoria alleata di El Alamein, gli ebrei del mondo arabo avrebbero corso il rischio di essere sterminati. Le camere a gas mobili erano pronte per esser utilizzate a Bagdad, Tel Aviv, Gerusalemme e ovunque fosse possibile. Il Muftì di Gerusalemme aveva attivamente contribuito alla costituzione di un corpo di SS composto da mussulmani reclutati nei Balcani che parteciparono attivamente alle stragi contro le popolazioni serbe e allo sterminio degli ebrei. Radio Bari e Radio Berlino trasmettevano programmi antisemiti in lingua araba che apparentavano la tradizione religiosa islamica con quella nazista. A dirigere i programmi erano persone legate al Muftì di Gerusalemme.»

E oggi?
«Gli ebrei del mondo arabo sono stati in Israele per due decenni dei “parenti poveri” di una memoria collettiva segnata dal martirio e da un processo di rinascita unico e grandioso. Il punto di svolta avvenne nel 1967. Di fronte al pericolo di una nuova ecatombe, Israele usci vittoriosa in pochi giorni. Una buona metà dell’esercito israeliano che aveva sbaragliato gli eserciti che cingevano d’assedio il Paese, era composto dai figli di chi era fuggito dai poveri quartieri ebraici del mondo arabo. In modo crescente la loro storia e le loro memorie sono entrate a far parte della memoria pubblica. Nel clima delirante del dibattito sul diritto di Israele a esistere, la loro storia e le loro dolorose peripezie sono diventate un ulteriore elemento di legittimazione. Gli ebrei fuggiti dal mondo arabo erano un elemento costitutivo della realtà storica e culturale della Regione. Il numero di profughi ebrei fuggiti dai Paesi arabi è par o superiore a quello di palestinesi. A differenza dei palestinesi gli ebrei del mondo arabo non erano un elemento del conflitto. Erano degli ostaggi, furono derubati e perseguitati. La loro espulsione e la loro fuga furono silenziose, o meglio silenziate. Il dolore invisibile per decenni. Non avere pienamente compreso l’importanza della loro storia nella lotta per la legittimazione politica di Israele è stato un grave errore di prospettiva. Nel 1998 sottoposi al Congresso dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane la proposta di istituire a Roma una Fondazione per la tutela dei beni culturali degli ebrei del mondo arabo. In molti mi guardarono come fossi un marziano. La proposta fu approvata, ma non se ne fece nulla. Eppure la lotta contro l’antisemitismo e l’antisionismo era considerata un punto fondamentale. In Italia la componente ebraica di origine afroasiatica costituiva nelle due più grandi comunità una presenza corposa. La realtà dell’ebraismo italiano era profondamente mutata. Decimato dalle persecuzioni nazi fasciste, l’Ebraismo italiano è rinato grazie agli arrivi dal mondo arabo e islamico. C’è voluto del tempo perché tutto cominciasse ad essere culturalmente metabolizzato. Il merito di Primo Levi è di avere anticipato con la sua empatia e capacità di inclusione il percorso».

Una nuova traduzione in ebraico di Se questo è un uomo è in lavorazione, con la supervisione di Einaudi e con le segnalazioni delle imprecisioni e delle omissioni di Abraham e Franco Arbib e di David Meghangi. La data di pubblicazione ancora però non è stata stabilita.

Dal sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi segnaliamo che «gli editori di Primo Levi in Israele sono stati prevalentemente due: Sifriat Poalim ha pubblicato solo La tregua. Am Oved, di Tel Aviv, ha pubblicato la trilogia di Auschwitz, con Se questo è un uomo,nel 1988, I sommersi e i salvati, nel 1991, la riedizione di La tregua nel 2002 e, nel 2007, Conversazioni e interviste. Consociata con Sifriat Poalim è la casa editrice Hakibbutz Hameuhad, che ha pubblicato Il sistema periodicoLa chiave a stella eSe non ora, quando?, oltre a Lilit e altri racconti. Nel 2012 l’editore Karmel di Gerusalemme ha dato alle stampe Ad ora incerta, nella traduzione di Ari’el Rethaus».

 

 

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.