Cultura
Tel Aviv, la ragazzina impertinente delle città globali

Radiografia della città israeliana

Che dire di Tel Aviv che già non sia stato raccontato? Come definire una città per più aspetti «globale», ovvero capace di diventare polo di attrazione di una pluralità di attività, non solo di ordine economico, in qualche modo assurgendo a centro metropolitano in grado di assolvere ad una pluralità di funzioni, prescindendo in parte dallo stesso territorio circostante? Qual è il suo vero tratto distintivo? Beninteso, per chi è abituato a misurare la potenza in termini di dimensioni, la capitale civile d’Israele (quella politica rimane Gerusalemme, a prescindere dal giudizio che si possa formulare sulla scelta sancita nel 1980) non è certo così sorprendente. L’area della municipalità si estende per 52 chilometri quadrati mentre il perimetro urbano arriva a 176 chilometri. La dimensione metropolitana e distrettuale, estremamente più estesa, conta 1.516 chilometri. La popolazione, secondo i dati del 2019, arriva a 460.613 abitanti. Gerusalemme, per capirci, conta su 936.425 persone. La densità è estremamente pronunciata, trattandosi di almeno 8.500 abitanti per chilometro quadrato.
In realtà, come spesso capita a quelle città che assurgono a capitali produttive di una nazione, la propensione ad inglobare le unità urbane circostanti, di fatto rendendole prima satelliti del centro metropolitano e poi unite da una tendenziale assenza di soluzione di continuità, è marcata anche in questo caso. Peraltro, a stima dell’Israel Central Bureau of Statistics, la crescita di popolazione nell’area urbana è, dal 2009, di circa lo 0,5% annuo. Un processo che dipende da molti elementi ma che rivela la qualità attrattiva della città. La quale, per l’appunto, aspira da tempo, nei fatti, ad assurgere a «città globale». Una definizione complessa, con la quale da tempo la sociologia indica come numerose metropoli mondiali si siano sviluppate all’interno di mercati transnazionali e siano oramai più simili tra loro, anche se situate in paesi molti differenti e a lunga distanza, rispetto al loro contesto regionale. Le città globali, da questo punto di vista, vivono e prosperano in virtù dei legami di interdipendenza finanziaria e commerciale di cui ne costituiscono uno snodo nella complessa ramificazione di interrelazioni planetarie. In altre parole si alimentano vicendevolmente, mentre la peculiare posizione geografica non le rende necessariamente un volano per la ricaduta degli investimenti sulla sola regione di cui sono parte. Molto spesso, infatti, i capitali finanziari articolano lo spazio della città globale, trasformandolo costantemente, senza portare necessariamente vantaggi particolari ai territori circostanti.

Per l’appunto: quanto ci sta Tel Aviv dentro questa definizione? Non di meno, pur essendo parte integrante d’Israele – anzi, costituendone, insieme a Gerusalemme, una frontline town – qual è la dialettica tra il suo essere città israeliana e il suo costituire una sorta di grande ed eterogenea comunità a sé stante? Ciò che colpisce di Tel Aviv sono alcune sue caratteristiche pronunciate. La prima è quella del multiculturalismo. Gli ebrei sia autoctoni che di origine straniera costituiscono quasi il 92% della popolazione, seguiti dagli arabi cristiani e musulmani, pari a poco più del 4%, mentre il restante 6% appartiene alle diverse comunità che risiedono nel perimetro urbano. Stime non verificabili, ma indicative delle tendenze di massima, identificano in almeno 50mila soggetti la componente di lavoratori stranieri, perlopiù di origine africana e asiatica, non regolarizzati. In questo caso la loro presenza è indice della vorticosità di alcuni segmenti di mercato, a partire dall’edilizia. La quasi totalità dei lavoratori irregolari, infatti, in questo caso si addensa nei settori produttivi a maggiore intensità di lavoro manuale. Un rapporto di un irregolare per una decina di abitanti è significativo di diversi aspetti della crescita urbana, che tende a dimensionarsi secondo tassi di crescita, non solo quantitativi, basati sulla costante trasformazione del tessuto residenziale.
Il reddito medio di un abitante della città è valutato come superiore del 20% rispetto alla capacità nazionale, così come gli standard educativi superano anch’essi quelli di molte altre realtà israeliane. Non si tratta di una metropoli mediterranea composta da ricconi e da cervelloni. Più banalmente, in quanto città di residenza ma anche di transito, di insediamento così come di flussi, sollecita maggiormente la circolazione sia di capitali economici che di risorse culturali. Anche per una tale ragione, Tel Aviv è città gay-friendly per definizione, aperta alle sollecitazioni identitarie, artistiche, civili. La circolazione di idee, immagini, parole e molto altro è strategica per mantenere ricco un tessuto connettivo che produce innovazione incessantemente.

La composizione anagrafica è peraltro sufficientemente uniforme nelle diverse classi di età: la suddivisione della popolazione vede il 22,2% di età inferiore ai 20 anni, il 18,5% di età compresa tra 20 e 29 anni, il 24% tra i 30 e i 44 anni, il 16,2% tra i 45 e i 59 anni e il 19,1% di età superiore ai 60 anni. In sostanza, rispetto ai trend dei paesi a sviluppo avanzato, si tratta di un insediamento tendenzialmente giovane o giovanile (l’età media è intorno ai 34 anni), con un grande numero di persone impegnate nello studio o nel lavoro. Un fatto, quest’ultimo, che se unito alle diverse opportunità presenti nell’area metropolitana, rigenera costantemente una miscela che è il propellente dell’innovazione sociale. Già agli inizi degli anni Sessanta la popolazione urbana aveva raggiunto il suo grande picco, con 390mila abitanti (in percentuale, un numero elevatissimo, posto che gli israeliani nel 1960 erano 2.114mila, per poi arrivare a superare i 3 milioni solo nel 1971). Poco più di due decenni dopo, le presenze erano tuttavia drasticamente calate a 317mila, soprattutto a causa degli alti costi degli immobili, fatto che aveva inciso enormemente nelle politiche residenziali delle giovani coppie. Molte di esse, infatti, pur attratte dalla crescente nomea di città secolarizzata e ricca di opportunità, si dovevano confrontare con le ristrettezze dei loro budget domestici. Non di meno, gli anni Ottanta in Israele sono stati segnati da un profondo rivolgimento economico: se nel 1984 l’inflazione aveva raggiunto il 450%, e la moneta nazionale era stata cambiata a causa della sua drammatica svalutazione, le severe politiche di restrizione della spesa pubblica e di risanamento dei conti dello Stato avevano inciso in maniera decisiva nelle scelte di molti israeliani. Un fatto che si era ripercosso come una frusta sull’intera società. Dagli inizi degli anni Novanta, anche grazie alla stagione negoziale con la controparte palestinese e alle aperture ai mercati internazionali, di cui gli americani si sono fatti garanti, l’insediamento urbano di Tel Aviv, sempre più inserito dentro i processi di globalizzazione, è risultato di nuovo attrattivo. La popolazione è quindi tornata a crescere, con un saldo attivo tra trasferimenti in entrata rispetto a quelli in uscita.

Tel Aviv, di fatto è quindi divenuta il cuore pulsante di una società nuova, per molti aspetti inedita, destinata tuttavia a mutare ancora e di molto. Da subito rivela la sua indole precipua, quella di città laica. Distante una sessantina di chilometri da Gerusalemme, quest’ultima signorilmente arroccata a qualche centinaio di metri d’altezza dal mare, prossima com’è alle lande del Giordano e al deserto, Tel Aviv sente invece di avere non troppo da condividere con l’ingombrante cugina, incuneata in un mondo i cui tempi e le cui logiche sono molto distanti dal dinamismo e dall’eclettismo che vive invece come suo tratto distintivo. Il vero marcatore della differenza, che in alcuni casi si fa diffidenza, è la religiosità. Non la religione in senso stretto che, in un Paese laico qual è Israele, è parte di un complesso di valori civili, incorporato nelle ritualità quotidiane ma espunto, non senza difficoltà, dal campo della politica. Semmai è sul tasso di ortoprassi, di condotta conforme ai tanti vincoli che l’agire religioso comporta nella vita dell’ebreo, che Tel Aviv da subito avanza la sua candidatura a patria del pensare e del comportarsi laico. Nessun abitante della città abiurerebbe al suo conclamato ebraismo, esibito pressoché ovunque, identità tanto profonda quanto ineludibile. Nondimeno, la stragrande maggioranza dei residenti, anime secolarizzate della giovane e ormai grande città, mai e poi mai farebbero a meno dell’idea di libertà personale che vivono in piena sintonia con il lievitare di una metropoli che mischia stili, condotte, atteggiamenti, pensieri e idee di ogni genere e tipo.
Peraltro, mentre cresce Israele cresce Tel Aviv, cambiando volto l’una e l’altra. Negli anni Sessanta, molte delle vecchie costruzioni d’anteguerra furono abbattute, in rapida successione. Si affermavano infatti nuove visioni architettoniche, si puntava verso l’alto, con la costruzione di “torri”, grattacieli che ambivano a ridisegnare il volto urbano, lo skyline. Se fino ad allora avevano predominato edifici monocordi, squadrati, di non più di tre o quattro piani, dotati di tetto piatto, come si conviene ad un Paese dove piove poco, non nevica mai e l’acqua è un bene prezioso, adesso le cose stavano cambiando. Spuntavano come funghi, un po’ ovunque, i condizionatori, segno della capacità di consumo crescente, della natura energivora della città, di un benessere che andava facendosi strada anche tra una parte crescente dei ceti popolari. La città finanziaria decollò – e nei decenni successivi diverrà un centro mondiale – mentre il traffico, soprattutto quello privato, si faceva sempre caotico, a tratti quasi non governato, per un Paese dove il tasso di incidenti stradali è ancora elevato, pari solo alla spregiudicatezza con la quale molti si mettono al volante.
La lunghissima, bianca, cristallina spiaggia, a partire dal lungomare, adesso meta di turisti ma soprattutto autentico luogo di socialità per gli abitanti della città, dove consumano tutte le festività religiose, è ancora il polo attrattivo per eccellenza. Una sorta di Riccione del Mediterraneo meridionale, ma ancora più chiacchierona e rumorosa, in contrasto con la multiforme spiritualità che accompagna Gerusalemme, il rigore produttivistico di Haifa, i tempi più lunghi e rilassati di molte cittadine dell’entroterra, l’aristocraticismo delle comunità agricole. I processi di gentrificazione, o per meglio dire di imborghesimento urbano, con il passaggio delle proprietà, nelle periferie più povere e degradate del sud e del nord della città, oltre che della zona del vecchio porto, alle nuove classi affluenti, hanno ridisegnato la mappa sociale della ormai grande città mediterranea. Città ricca, non necessariamente città di ricchi, senz’altro città di ceti medi in forte mobilità.

Se nel 1993 essa è stata definita come «world city», e se si candida ad essere qualificata allo status di «global city» (due indici di eccellenza nella definizione di una realtà urbana come nodo vitale nel sistema economico globale), la forte convergenza di capitali su di essa ha creato opportunità indiscutibili, ma ha anche comportato l’espulsione di una parte di quella popolazione che nel passato ne aveva fatto la storia. La grande migrazione russa, che ha investito il Paese durante e dopo il 1989, implicando l’ingresso di almeno un milione di nuovi immigrati, ha in parte concorso a riequilibrare le sue sorti socio-demografiche, attenuando gli eccessi degli anni precedenti. Ma non di certo colmandoli. L’intero comprensorio, articolato in molteplici municipalità, nel 2020 ha raggiunto, in quello che è conosciuto come il Gush Dan, il «Blocco di Dan» – dentro il quale ricadono le giurisdizioni di Bat Yam, Holon, Ramat Gan, Giv’atayim, Bnei Brak, Petah Tikva, Rishon LeZion, Ramat HaSharon e Herzliya – i 4.054.570 residenti, pari al 44,5% della popolazione israeliana. Gush Dan, agglomerato urbano situato lungo la costa mediterranea del Paese, è la più grande conurbazione e area metropolitana in Israele, nonostante ne occupi solo l’8% della superficie complessiva. Rispetto alla regione mediorientale, costituisce il secondo o il terzo agglomerato urbano in ordine di grandezza.

Concentramento, urbanizzazione, comunicazioni, innovazione digitale ma anche gentrificazione, finanziarizzazione, specializzazione e velocizzazione dei processi metropolitani sono tra i fattori vincenti di Tel Aviv ma, al medesimo tempo, costituiscono anche quelle peculiarità che la fanno città globale e, come tale, atipica rispetto a molte altre realtà circostanti. Il globalismo, in quanto punto di intersecazione di percorsi tra di loro molto diversi, nodo di sintesi tra flussi distinti, ha fatto letteralmente decollare l’area verso il futuro e tuttavia, per più aspetti, ne segna anche le differenze rispetto al Paese: Tel Aviv fatica a mantenere tratti mediorientali, posto che questi siano identificabili e definibili in una qualche linea di continuità. I critici di sempre vedranno in ciò una sorta di artificiosità dell’impianto metropolitano, quasi che la città sia lo specchio di un abusivismo di massa, quello dello Stato d’Israele, prodotto del «colonialismo»; gli apologeti – ce ne sono molti – leggeranno invece una possibilità per uscire, una volta per sempre, dalle arcaiche, anacronistiche e irrisolvibili conflittualità che attraversano non solo Israele, soprattutto nel suo rapporto con gli arabi palestinesi, ma l’intero Medio Oriente.
Quattro sono oggi le carte sulle quali Tel Aviv si gioca la sua identità. La prima è quella di capitale laica, non solo d’Israele ma dell’intero Mediterraneo. Il suo pluralismo culturale la rende per molti aspetti simile a New York, di cui, per non poche cose, è la sorella minore. Nelle dimensioni quantitative, non in quelle qualitative. Il suo ebraismo, da questo punto di vista, costruito attraverso la stratificazione delle migrazioni, per il tramite di una tradizione vivacemente “reinventata”, è l’humus ideale per sollecitare l’apertura al mondo. Non ci sono i rischi di quelle spinte particolaristiche, identitarie, essenzialiste che invece presentano altre realtà urbane, maggiormente ripiegate su di sé.
Un secondo elemento è la grande vivacità finanziaria. È letteralmente una cittàspugna, che attira capitali, li mette in circolazione, li indirizza verso esiti produttivi. Il Tase, il Tel Aviv Stock Exchange, è una borsa altamente rinomata, nella quale trovano sede e quotazione non poche aziende di levatura internazionale. Un terzo aspetto, quello oggi forse meglio conosciuto, è la proiezione verso l’innovazione tecnologica. Si è ripetutamente parlato, al riguardo, di «Silicon Wadi», riecheggiando i fasti della Silicon Valley californiana. Ci sono molte analogie e alcune differenze. Il differenziale competitivo d’Israele, fino ad oggi terra più di esportazione dell’innovazione e dell’high-tech che non di beni primari, altrimenti scarsi se non inesistenti, gli ha permesso di fare fronte alle molteplici sfide che gli si sono parate dinanzi. «Startup Nation», ha detto di essa qualcuno. La creazione e la disseminazione di parchi tecnologici, sistemi a rete tra imprese in continua trasformazione, è forse una delle maggiori garanzie di sopravvivenza della città, nella sua specificità, ma anche dell’intero Paese.
Ma un quarto elemento non va sottovalutato. Tel Aviv è una città gioiosa. Non la città della gioia, ma la comunità urbana che vuole vivere. Non a caso c’è chi la chiama «la città che non vuole dormire mai». Questa è, forse, la sua vera chiave di volta. Ha subito, anche in tempi recenti, le violenze terroristiche che hanno caratterizzato e scandito alcuni tra i passaggi più angoscianti del confronto tra israeliani e palestinesi. Basti ricordare, in un repertorio in sé terribilmente lungo, l’esplosione della bomba sul bus cittadino della linea cinque, il 19 ottobre 1994, quando perirono ventidue civili e una cinquantina rimasero feriti; l’attentato al Dizengoff Center, il 6 marzo di due anni dopo, con la morte di altre tredici persone; così come, durante la seconda Intifada, la distruzione della discoteca Dolphinarium, con ventuno morti, perlopiù giovanissimi, il 1° giugno 2001, e ancora, in tempi più recenti, il 17 aprile 2006, l’assassinio di undici civili e il ferimento di altri settanta in un attentato compiuto nella vecchia stazione centrale dei bus. Eppure, di tutto ciò, sulla pelle della città rimangono senz’altro le cicatrici ma non molto di più. Sono passati da poco i cento anni dalla sua nascita. Rispetto alle sue grandi omologhe europee Tel Aviv è una ragazzina. A tratti impertinente. Se poi la si guarda meglio, ci si accorge di quanti strati in realtà sia composta, e allora si scopre che la storia non è solo una dimensione cronologica, misurandola semmai su tanti altri indici, a partire dagli infiniti volti dei tanti anonimi che attraversano le strade, ogni giorno, di una città sempre in movimento, che sì, proprio non riesce a stare mai ferma.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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