Cultura
“Una casa in fiamme”, o del vivere nel presente

Il nuovo romanzo di Laura Forti, in uscita per Guanda, racconta di una famiglia ebraica nell’Italia di oggi. L’intervista alla scrittrice

C’è un midrash che racconta la storia di un palazzo in fiamme. Protagonista è Abramo, il primo uomo che si fa strumento di tikkun olam: quelle fiamme sono un invito a provare a spegnere il male del mondo. E se il padrone del palazzo è Dio stesso, il suo ritrarsi di fronte al male rappresentato dalle fiamme è proprio per mettere l’uomo davanti alla libertà di agire e ribellarsi all’ingiustizia. L’invito dunque è al non restare immobili, a mettere in atto un cambiamento. Laura Forti sceglie proprio questo midrash come spunto per il suo nuovo romanzo Una casa in fiamme, in nome di un sogno ricorrente della protagonista, ma anche di questo midrash, che accompagna tutta la narrazione. Terzo romanzo in pochissimo tempo della scrittrice fiorentina che dopo L’acrobata e Forse mio padre (premiato al Mondello dello scorso anno) approda a una storia diversa (ma sappiamo già che si tratta solo di una pausa prima dell’arrivo del terzo volume della trilogia) rispetto allo “sprofondo autobiografico”, come lo definisce l’autrice.

Questa volta è appunto il cambiamento il reale protagonista della vicenda, impersonato nei diversi membri di una famiglia ebraica italiana di oggi. Ognuno di loro metterà in atto una forma di mutamento, lasciando decisamente le porte aperte al futuro che verrà, ma in seguito allo sradicamento della routine fino a quel momento ben coltivata. La protagonista è Manuela, la madre, chiusa dentro il ruolo della mamma malata di cancro, sempre più assente nelle dinamiche famigliari, insoddisfatta dal rapporto con il marito, Sergio, che però ama moltissimo. Lui è forse il meno capace di movimento, subisce un po’ quello degli altri, ma è vittima di una serie di strutture che lui stesso ha voluto creare per sostenere il suo essere padre (e fare i conti con il proprio). Lea, la figlia adolescente, è un vulcano. In qualche modo è la figura positiva della storia perché capace di schiettezza, di quella sincerità necessaria a smascherare una realtà che si avvia all’avvizzimento. Il piccolo Elias, infine, è anche lui rattrappito dentro il ruolo di bambino problematico, dislessico, sempre in crisi con i compiti e attaccato alla mamma, che riuscirà, anche lui, a uscire dal personaggio con un nuovo nome (e una meravigliosa bicicletta). Il tempo della narrazione è il presente, quello in cui siamo immersi e in cui viviamo quotidianamente, in un dialogo continuo con il futuro, inteso come superamento del passato grazie un’analisi accurata della memoria.

«Questa volta sono tornata un po’ al teatro, da cui provengo, nel senso che ho voluto riappropriarmi della dimensione di una storia», spiega Laura Forti, «E ho voluto creare la storia di una famiglia come tante con un background ebraico. Perché in Italia da tempo e ancora oggi ci si aspetta che gli scrittori ebrei scrivano storie ebraiche… un po’ come nel film Aprile di Nanni Moretti, quando dice: D’Alema, di’ una cosa di sinistra…».

Perché dici che è una questione italiana?
«Philip Roth ha scritto storie da cui emerge il suo essere ebreo, ma non sono storie ebraiche… non è certo una ghettizzazione quella che fa lui. In Italia in fondo è da un tempo relativamente recente che gli autori ebrei sono riapparsi nella società. E in questo libro mi piaceva che il background ebraico fosse uno dei background che compongono la società attuale. La famiglia di cui parlo nel libro è una famiglia come tutte che ha una propria memoria, anche questo come tutte».

E come tutte ha un elemento patologico che la tiene insieme e al contempo la divide.
«La malattia è il motore che mette in moto la storia che è fatta delle storie dei personaggi, tutti con un problema rispetto a qualcosa che impedisce loro di vivere come vorrebbero. Manuela non riesce più a scrivere, Sergio fa un lavoro che non ama per una forma di rivalsa contro il padre, i figli sono bloccati in ruoli troppo stretti, sia per quello di figlia perfetta della ragazzina adolescente sia per quello di bambino problematico per il piccolo. E il romanzo è proprio il cambio di prospettiva. Ecco perché il midrash del palazzo in fiamme».

Questo è molto ebraico…
«Moltissimo. L’immagine del midrash è molto ambivalente: Abramo vede il male rappresentato dalle fiamme, ma anche il mondo come potrebbe essere nella bellezza del palazzo che sta andando a fuoco. Ed è questa tensione alla base dell’etica ebraica, quella che ne fa una religione delle azioni, che muove la protagonista. Manuela davanti all’incendio della sua vita (dato dalla malattia, dalla depressione, etc), capisce che la vita è più ampia, più bella, più gioiosa e che sarà così se lei farà qualcosa. Il cambiamento è dolore e per osmosi cambiano tutti gli altri membri della famiglia».

In effetti si arriva alla fine del romanzo con una buona dose di ottimismo, di speranza.
«Secondo me il libro racconta l’inizio di un cambio di prospettiva, proprio come avviene nel midrash».

Ci sono alcune tappe importanti nel corso di questa piccola ma profonda metamorfosi famigliare che comincia con la morte di un piccolo gattino per arrivare a una nuova riconciliazione a quattro. In mezzo però c’è il seder di Pesach che diventa una serata dirompente. Sicuramente è la notte delle domande, come vorrebbe la tradizione, ma finalmente le domande sono ficcanti, inopportune per quel contesto, ma necessarie per innescare il cambiamento…
«Intanto Pesach è il passaggio ed è in quel contesto che viene sottolineata la differenza tra liberazione e libertà, dove per libertà si intende il modo in cui ognuno vuole vivere»·

La vera e propria ricomposizione famigliare arriva al Gay Pride, un luogo molto simbolico e anche molto sentito nei giovanissimi oggi.
«Al Gay Pride l’ammissione delle proprie singole fragilità e di quelle della famiglia vengono finalmente riconosciute, ammesse, accettate. Al Gay Pride si lotta per l’amore per la vita libera, Lea scardina gli equilibri ma la riunione della famiglia tradizionale avviene proprio sotto le bandiere arcobaleno come simbolo dell’accettazione delle differenze».

Non abbiamo parlato molto della malattia. Questo non è un libro sul cancro, come potrebbe sembrare dalle prime pagine. Io credo che sia un libro sulla difficoltà da parte della protagonista di essere guarita.
«Il problema sta proprio lì. Lei non vuole fare la malata esperta, come l’amica, ma quando le viene detto di essere sana, deve fare i conti con la realtà. Deve trovare la forza dalle cose che ha intorno. Ed è lì che riesce per la prima volta ad ascoltare veramente Elias, il figlio».

Ho notato una dimensione dell’ascolto molto importante, che mi ha fatto pensare al rapporto tra le generazioni rispetto alla Shoah. È un tema più velato, sottile rispetto agli altri tuoi romanzi, ma presente. I sopravvissuti, che hanno raccontato la loro storia; i figli che invece per rispetto l’hanno taciuta o hanno amplificato i silenzi dolorosi dei loro genitori; i nipoti, la terza generazione, più distante dal trauma e più libera di chiedere, di narrare, di sapere. Ecco, tutto questo c’è anche qui, tra Lea, suo nonno e suo padre.
«Sì, è un tema che mi è caro. Dina Wardi dice che tutti gli ebrei sono sopravvissuti, anche quelli che non sono stati nei campi. E divide tra combattenti, cioè chi racconta, chi ha reagito, ma è in conflitto con la propria fragilità e le vittime che invece sono in conflitto con la rabbia, di cui non parlano ma la trasmettono ai discendenti. I quali devono fare i conti con questa rabbia, elaborarla e distinguerla dalla propria. Occorre fare una ripulitura».

Cosa intendi per ripulitura?
«Distinguere la propria identità da quella del genitore e da quello che ha tramandato. Occorre chiudere col passato, come fanno i personaggi di Una casa in fiamme che si conclude con un inizio, tutto nuovo. Per quanto mi riguarda, questo è il libro del mio presente: ora bisogna vivere e sono io davanti alla vita».

Laura Forti, Una casa in fiamme, Guanda, pp. 288, 17 euro

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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