Cultura
Yair Lapid e le alleanze contro l’odio: chi sono davvero gli antisemiti

«Gli antisemiti non odiano gli ebrei che conoscono, perché sanno di essere umani come loro. Odiano gli ebrei che non conoscono perché è più facile odiare gruppi di persone. È così che funziona l’odio». Queste le parole del Ministro degli Esteri israeliano duramente attaccato dall’ex premier Netanyahu

Non ha fatto ricorso a mezzi termini Yair Lapid nel corso del suo intervento al settimo Forum globale per la lotta all’antisemitismo, tenutosi a Gerusalemme e coordinato dai ministeri degli Esteri e degli Affari della Diaspora. Prendendo la parola in una delle sessioni dei lavori, il 14 luglio, attraverso una diretta online (poiché in temporanea quarantena fiduciaria, a causa della positività di un suo collaboratore), il ministro degli Esteri è partito dalle memorie di famiglia per poi arrivare al nocciolo del suo ragionamento. Quest’ultimo, come vedremo tra poco, in palese frizione con una serie di crismi, non solo teorici, che sono alla base dell’approccio di una parte del mondo ebraico nel confronti del pregiudizio antiebraico.

Ricorda Lapid: «il 27 dicembre 1944 mio padre era bambino nel ghetto di Budapest. Seicento persone vivevano lì, in un seminterrato […]. A quel tempo, sopravvivevano principalmente grazie alla carne dei cavalli morti che trovavano per strada. Quella mattina sua madre – mia nonna – lo chiamò e disse: “Tommy, tu non lo sai, ma oggi è il tuo Bar Mitzvah. Tuo padre non tornerà”. Mio nonno era già morto nelle camere a gas del campo di concentramento di Mauthausen. “Non posso cucinarti una torta” continuò, “ma c’è una cosa che posso fare”. Così dicendo materializzò tra le sue mani una boccetta di Chanel numero cinque, il profumo classico di quella donna elegante che era stata prima della guerra, e solo Dio sa come l’abbia tenuto per tutti quegli anni. Poi, mia nonna ruppe la bottiglietta sul pavimento e disse “almeno non avrà un cattivo odore sul tuo Bar Mitzvah”. Questa storia si accompagna ad una domanda: perché? Perché odiavano mio padre così tanto? Perché avrebbero voluto uccidere un ragazzo di 13 anni che non conoscevano, che non gli aveva fatto alcun torto? Mio padre non ha scritto i Protocolli degli anziani di Sion. Non era un banchiere internazionale. Non ricalcava nessuno stereotipo ebraico. Allora, perché volevano ucciderlo? La risposta è che non volevano ucciderlo nonostante non lo conoscessero, ma perché non lo conoscevano».

Il calcolato incipit retorico di Lapid ha lasciato intendere da subito che le parole che sarebbero seguite non volevano essere di mera circostanza. Proseguendo, infatti, il ministro degli Esteri ha chiosato sul presente: «Gli antisemiti dicono sempre “alcuni dei miei migliori amici sono ebrei”. La cosa assurda è che probabilmente è vero. Non odiano gli ebrei che conoscono, perché sanno di essere umani come loro. Odiano gli ebrei che non conoscono perché è più facile odiare gruppi di persone. È così che funziona l’odio. Il primo passo è la disumanizzazione di coloro che odi. Non sono veramente umani. Sono un gruppo senza volto, su cui puoi deviare tutte le tue paure, l’odio e il pregiudizio. L’ebreo che conosci ama i suoi figli, l’ebreo che non conosci odia i tuoi figli». Ragion per cui, argomenta Lapid, «la domanda non è “che tipo di persona è l’ebreo?”, ma piuttosto: che tipo di persona può avere così tanto odio per qualcuno che non conosce? Che tipo di persona è così piena di odio, veleno, pregiudizio e razzismo da voler uccidere un bambino innocuo?».

In altre parole, seguendo il ragionamento del ministro, ribaltando l’ordine dei fattori, ciò che viene prima non sono gli «ebrei» ma, piuttosto, gli antisemiti. I quali alimentano un immaginario proprio, basato sulla negazione di qualsiasi riscontro, a tutela proprio di se stessi, ovvero del loro pregiudizio basato sull’ossessiva mostrificazione del «giudeo». Sono loro, le costruzioni mentali che elaborano e si rinforzano vicendevolmente, quindi la loro comunità di individui che per esistere necessita di alimentarsi di un odio storico, presentato come risposta ad una minaccia incombente, a costituire il vero oggetto dell’antisemitismo. E fin qui, il politico non dice nulla di troppo originale né, tanto meno, di sconvolgente. Da tempo, infatti, la ricerca, lo studio e l’azione contro l’antisemitismo si sono concentrati nel definire e nell’affrontare i mutevoli perimetri del pregiudizio e, con essi, coloro che ne sono umana espressione, in quanto suoi diffusori, piuttosto più che i destinatari, ossia le vittime. In altre parole, si odia quello che non si vuole conoscere poiché non solo si nutrono idee precostituite ma perché si intende fare sì che esse possano ancora rafforzarsi, legittimandosi da sé, per il solo fatto stesso di esistere ed essere condivise all’interno di un sistema di cerchi concentrici, basati sulla reciprocità di risentimenti tra antisemiti. Non è che non si conosce; è che non si vuole conoscere per non dovere riconoscere (l’altrui umanità e, con essa, l’insostenibilità dei propri preconcetti).

Yair Lapid, che non è uno studioso ma un pubblicista e polemista, attende di concludere questo passaggio – di per sé non di certo spiazzante – per lanciare invece l’amo verso il pubblico. Il passaggio successivo, infatti, è secco: «siamo stati sulla difensiva per troppo tempo. Per troppo tempo abbiamo pensato che fosse necessario raccontare la storia giusta sugli ebrei in modo che gli antisemiti smettessero di odiarci. Voglio proporre il contrario: è tempo di raccontare la storia giusta sugli antisemiti. È tempo che diciamo al mondo cosa abbiamo di fronte. Gli antisemiti non erano solo nel ghetto di Budapest. Gli antisemiti erano i mercanti di schiavi che gettavano nell’oceano gli schiavi incatenati. Gli antisemiti erano i membri della tribù hutu in Ruanda che massacrarono i tutsi. Gli antisemiti sono quei islamisti che hanno ucciso più di venti milioni di compagni musulmani nell’ultimo decennio. Gli antisemiti sono Isis e Boko Haram. Gli antisemiti sono coloro che picchiano a morte i giovani LGBT. Gli antisemiti sono tutti coloro che perseguitano le persone non per quello che hanno fatto, ma per quello che sono, per come sono nate».

L’accostamento, se non la sovrapposizione, tra antisemitismo e manifestazioni di odio su base razzista o comunque per un’avversione condivisa, prosegue poi con l’affermazione per cui «l’antisemitismo non è il primo nome dell’odio, ma il suo cognome. Sono tutti quelli che sono così pieni di odio che vogliono distruggere, perseguitare ed espellere le persone semplicemente perché sono diverse da loro». Ed ancora: «il popolo ebraico si aspetta giustamente che il mondo ricordi l’Olocausto. Era il picco dell’odio. Dimostra cosa succede quando nessuno resiste all’odio». In sostanza, pur nella sua assoluta peculiarità, lo sterminio razzista è come l’apice di una scala di intensità crescente. La parola chiave, nel discorso di Yair Lapid, è «odio». A tale riguardo, prosegue: «l’antisemitismo moderno, di cui ci occupiamo oggi, esiste ovunque. Per combatterlo, abbiamo bisogno di alleati. Dobbiamo reclutare tutti coloro che sono contro le persone perseguitate per la loro fede, la loro identità sessuale, la loro origine o il loro genere. Dobbiamo dire loro che l’antisemitismo non si ferma mai agli ebrei». E qui segue un altro passaggio strategico: «la lotta non è tra antisemiti ed ebrei, ma tra antisemiti e tutti coloro che credono nei valori della libertà, della giustizia e dell’umanità».

Per il ministro è completamente privo di senso separare quelli che invece considera come due capi del medesimo discorso, ovvero estremi dello stesso processo, quindi i razzismi dall’antisemitismo. In quanto: «l’antisemitismo è razzismo, quindi parliamo con tutti coloro che si oppongono al razzismo. L’antisemitismo è estremismo, quindi collaboriamo con tutti coloro che hanno paura dell’estremismo. L’antisemitismo è odio per gli estranei, quindi reclutiamo chiunque sia mai stato un estraneo e diciamo loro: questa è anche la tua battaglia. Se non ci aiuti a combattere l’antisemitismo oggi, qualcuno potrebbe guardare tuo figlio in futuro e dire a se stesso “lo odio, lo voglio morto”».

Fin qui le parole pronunciate durante l’intervento. «Odio», si diceva, ma anche «alleati», sono tra i termini più importanti usati nel discorso. Lapid sembra essere consapevole che nessun impegno contro un tale pregiudizio implacabile possa avvenire in assenza di una coalizione che non chiami solo in causa gli immediati interessati bensì uno schieramento ben più ampio. Fermo restando – e le sue parole parrebbero testimoniarlo – che l’antisemitismo, in quanto fattore che sgretola la coesione sociale, è una questione troppo urgente, potente se non devastante per potere essere affrontata dai soli ebrei. Poiché chiama in causa chiunque abbia a cuore le sorti della società in cui vive, affinché non sia consegnata a demagoghi e manipolatori di sorta, che usano proprio l’odio contro l’«ebreo immaginario» per aprire dei varchi nella solidarietà dei più, fino a cristallizzare le relazioni sociali e politiche nel nome della paura. L’invito, tuttavia, non è quello ad una generica riconsiderazione di alcuni indirizzi di lotta contro l’antisemitismo. Semmai parrebbe quasi che il futuro premier (in staffetta con Naftali Bennett) – il quale sta senz’altro adoperandosi per puntellare la sua posizione, per non essere eventualmente travolto da futuri, ingestibili sviluppi del quadro politico – si sia impegnato a “parlare a nuora affinché suocera intenda”. Lo testimonierebbero da subito le reazioni, tra le altre, dell’opposizione di destra e di una parte dei membri della stessa coalizione di governo.

Yair è il figlio dell’ex ministro della Giustizia Yoseph «Tommy» Lapid, un sopravvissuto all’Olocausto che ha trascorso gran parte del suo tempo a combattere l’antisemitismo. Come tale, avendone respirato fin da bambino parole, significati e obiettivi, non può essere accusato di agire per malizia. Ancora meno per faciloneria. Come giornalista e autore, che ha all’attivo una lunga carriera sia nella carta stampata che in televisione, Lapid è considerato un «abile paroliere» che sa come rendere accessibili idee complesse. Lo ha quindi fatto nel suo discorso, adottando un nuovo approccio, dichiarandolo poi come indispensabile per conquistare il sostegno mondiale alla guerra contro l’antisemitismo: antisemitismo e razzismo insieme ad una sorta di lotta globale all’uno e all’altro, dentro un’alleanza trasversale. Si tratta di un approccio che differisce nettamente dal criterio fatto invece proprio da più generazioni di leader israeliani, sia di sinistra che di destra, così come da quello di diverse organizzazioni ebraiche nel mondo. Per gli uni e le altre, infatti, necessita distinguere sempre e comunque l’antisemitismo da tutte le distinte forme di razzismo e xenofobia.

La necessità di marcare la differenza è peraltro non solo una questione di metodo ma anche di merito. È evidente che a Lapid la giacca identitaria, quella che stabilisce un perimetro molto netto tra ebrei, israeliani e, con essi, Shoah, da una parte, di contro al resto del mondo, quello dei non ebrei, stia stretta. Il discorso sulla necessità di raggiungere delle «alleanze» si inscrive all’interno di una tale visione dell’orizzonte Per l’appunto: «la lotta non è tra antisemiti ed ebrei: la lotta è tra antisemiti e chiunque creda nei valori di uguaglianza, giustizia e libertà». L’ago della bilancia deve pendere da quest’ultima parte, evitando atteggiamenti particolaristici.

I temi, tra di loro strettamente correlati delle persecuzioni, delle deportazioni e dello sterminio nazisti sono stati variamente declinati in Israele nel corso del tempo, assumendo comunque una rilevanza ineludibile nel discorso pubblico. Alcuni studiosi e osservatori si sono ripetutamente pronunciati, al riguardo, parlando della memoria della Shoah come parte integrante sia della moderna coscienza di sé degli israeliani così come di una più generale “religiosità civile”, una dimensione morale che informa e influenza gli atteggiamenti, i pensieri ma anche le scelte materiali, a partire da quelle politiche. Che in un tale contenitore possano manifestarsi elementi che trascendono dalla consapevolezza, cristallizzandosi semmai in esacerbazioni identitarie, è non meno plausibile. Rischiando – parrebbe essere questo il pensiero implicito al discorso del ministro – di concorrere ad eventuali usi impropri. Destinati quindi ad isolare Israele e le comunità, non ad agevolarne i rapporti con il resto del mondo. Il tema, va da sé, è spinoso e per nulla di facile declinazione.

Al netto di alcune manifestazioni di assenso, per l’appunto, le polemiche non si sono fatte attendere. Arrivando ad accusare Lapid di fare il gioco di chi nega l’esistenza stessa del fenomeno dell’antisemitismo.  Particolarmente accese sono state le repliche di Benjamin Netanyahu, attuale leader dell’opposizione. Figlio del noto storico Benzion Netanyahu, la cui carriera accademica si è concentrata sugli ebrei che vivevano sotto l’Inquisizione spagnola,  ha attaccato le parole del ministro con un lungo post su Facebook in cui ha definito il suo discorso «scandaloso». Queste le parole dell’ex premier: «Lapid ha commesso un grosso errore questa settimana quando ha offerto un’interpretazione molto limitata e superficiale del concetto di antisemitismo, dichiarando che non è odio verso gli ebrei ma odio verso tutte le persone, chiunque esse siano. Mentre l’odio per gli ebrei, o “antisemitismo”, farebbe parte di un fenomeno umano globale di xenofobia, differirebbe nella sua intensità per il fatto che persiste da millenni e per l’idea che, nel corso delle generazioni, questa ideologia omicida ha creato le basi per gli sforzi per sterminare il popolo ebraico». Netanyahu ha proseguito, rafforzando quindi il suo diniego: «questa è un’affermazione scandalosa e irresponsabile, che distorce la storia e svuota il concetto stesso di antisemitismo di ogni contenuto».

Sulla scia del leader del Likud si è collocato il presidente dell’esecutivo dell’Organizzazione sionista mondiale Yaakov Hagoel, che ha argomento: «l’antisemitismo è l’odio degli ebrei perché sono ebrei. Milioni di ebrei furono massacrati in nome dell’antisemitismo. È un’ideologia di odio ribollente, consolidata, che è stata tradotta in pogrom e rivolte antiebraiche in quasi tutti i centri della vita ebraica». Dan Illouz, che rappresenta l’Organizzazione sionista americana in Israele, ha accusato Lapid di fare il gioco degli «odiatori di Israele», affermando: «non è solo irresponsabile. Rappresenta un pericolo reale per la guerra che conduciamo giorno dopo giorno contro l’antisemitismo». Si è quindi rivolto direttamente a Lapid, dicendo: «come ministro degli esteri dello Stato di Israele, hai tenuto un discorso che è completamente contrario agli interessi del popolo ebraico. Hai danneggiato la nostra capacità di combattere l’antisemitismo nei campus, nelle organizzazioni internazionali, nei governi e nelle istituzioni». Il timore di molti critici anglosassoni, infatti, è che i distinguo introdotti da Lapid possano risultare nocivi per la lotta serratissima che è in corso nelle università americane e in quelle di lingua inglese sia sul tema dell’antisionismo che nel merito della cosiddetta «cancel culture», nella quale molti si descrivono come vittime di fenomeni razzistici, in aperta competizione e, a volte in contrapposizione, agli eventi conclamati di xenofobia e di pregiudizio e non senza delle pregiudiziali antiebraiche.

Si tratta di una matassa aggrovigliata, della quale il ministro degli Esteri non poteva non essere consapevole. Anche per questo il suo intervento, dai chiari contorni politici, ha scatenato una ridda di reazioni, obbligando un po’ tutti gli interlocutori a prendere posizione, in un senso o nell’altro, a favore oppure contro. Netanyahu, a rinforzo delle sue posizioni, ha ancora dichiarato alla stampa che: «anche se l’antisemitismo, l’odio per gli ebrei, fa parte del fenomeno umano generale dell’avversione per lo straniero, è diverso da quest’ultima per la sua forza, la sua durata nei millenni e la sua ideologia omicida che si è nutrita attraverso le generazioni per spianare la strada alla distruzione degli ebrei».          Quindi: «questa [di Lapid] è una dichiarazione […] irresponsabile che distorce la storia e prosciuga il concetto di antisemitismo da qualsiasi contenuto. Se una violenza terribile è antisemitismo, allora tutti sono antisemiti e comunque nessun antisemita. Se questo è quello che dice il ministro degli Esteri, come continuerà lo stato di Israele a chiedere ai paesi del mondo di continuare a fare uno sforzo speciale per proteggere le comunità ebree all’estero dagli attacchi antisemiti e in una guerra ostinata incitamento contro i nostri gente?». Ed infine: «i commenti di Lapid minimizzano l’unicità dell’odio per gli ebrei nella storia e la dimensione della tragedia dell’Olocausto che ha distrutto un terzo della nostra gente».

Rimane il fatto che il suo antagonista politico, nel discorso al Forum, abbia affermato che «l’Olocausto è la manifestazione estrema dell’odio» così come «non c’è mai stato nulla di simile all’Olocausto nella storia dell’umanità». Per poi difendersi dalle polemiche, ancora una volta con un intervento su Facebook, nel quale sostiene che: «negli ultimi giorni, i rappresentanti della destra radicale hanno attaccato il discorso che ho tenuto al Forum globale sull’antisemitismo a Gerusalemme. Si scopre che non è solo la società israeliana che queste persone stanno cercando di rovinare. Sono persino disposti ad aiutare gli antisemiti per ottenere vantaggi politici. Per farlo hanno inondato le reti con segmenti decontestualizzati e senza connessione alcuna con il discorso generale, che naturalmente saranno usati dagli haters d’Israele ovunque».

Al netto delle controversie che si sono da subito manifestate, è emerso, se mai ce ne fosse ancora il bisogno, il nesso irrisolto tra lotta all’antisemitismo (e con essa la questione della sua stessa qualificazione di significato, oltreché la traduzione delle risposte in atti concreti ed efficaci, capaci quindi di incidere sulla realtà) e identità israeliana, soprattutto quando quest’ultima è in rapporto con la percezione di un rischio incombente. Si tratta di un tema estremamente profondo, che attraversa da sempre le comunità ebraiche e, con esse, la stessa società d’Israele, concorrendo a definire anche schieramenti e ruoli sul piano politico. Poiché è la politica medesima che è poi chiamata non solo a trovare delle risposte ma, ancor prima, a formulare in maniera credibile i giusti interrogativi ai quali, successivamente, offrire i dovuti riscontri.

 

 

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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