Cultura
“Carbonio”, il sogno letterario di Primo Levi

A 50 anni dalla sua prima pubblicazione, analisi del racconto dello scrittore torinese

In un nota dell’edizione scolastica del Sistema periodico Primo Levi scrive di aver concepito l’idea alla base del racconto Carbonio quando si trovava in carcere ad Aosta dopo l’arresto e prima della deportazione a Fossoli e quindi ad Auschwitz. Tracciare la parabola di un atomo di carbonio è un’idea della cui originalità Levi è consapevole; gli occorrono però quasi tre decenni per affinarla e concretizzarla in quello che diventerà il suo racconto forse più bello. Carbonio appare sulla rivista “Uomini e libri” esattamente cinquanta anni fa, nel settembre 1972, per essere poi ripresentato in chiusura del Sistema periodico, che esce nel 1975. Il 1975 è anche l’anno del pensionamento di Levi, che coincide con l’intensificarsi del suo impegno come scrittore. Per scrivere il viaggio del carbonio sono dovuti passare non solo i mesi nel Lager e quelli dell’avventuroso ritorno a casa, alla cui conclusione Levi diventa scrittore, ma anche il lungo impegno lavorativo come chimico. Il racconto, che pure idealmente va posto a fondamento della sua scelta di scrivere, scaturisce nondimeno da una vita di lavoro appassionato che gli consente di penetrare e dunque raccontare il miracolo della vita.

Carbonio è dunque il primo racconto concepito da Levi, almeno nelle sue linee essenziali, ma l’ultimo per collocazione all’interno del Sistema periodico. Nella versione del racconto come compare nel libro del 1975 Levi esordisce riflettendo sul libro stesso, che “è, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera”. Come conclusione della propria attività di chimico e del libro che la restituisce Levi sceglie di saldare “un vecchio debito, contratto in giorni per me risolutivi”, quelli dell’arresto e della deportazione. Si trattava di un “primo sogno letterario”, un sogno però “insistentemente sognato”, quello appunto di descrivere la storia di un atomo di carbonio. Se per iniziare il libro Levi ha scelto argon, il gas nobile e inerte, per finire sceglie l’elemento che dà origine alla vita.

Chimica-scrittura
Il carbonio assurge a metafora della scrittura e dell’opera dell’autore torinese. Se infatti quella di Levi è una chimica della scrittura – un prodotto di laboratorio in cui le parole vengono soppesate come gli elementi e assemblate in frasi come molecole – allora l’elemento i cui atomi danno origine alla vita combinandosi in catene non può non godere di una posizione privilegiata. Nel Sistema periodico – che il “Guardian” ha definito “il miglior libro di scienza mai scritto” – elementi, vernici e materiali assumono caratteri umani e lo scrittore, come un alchimista, capta significati umani nella materia. È, in fondo, nient’altro che il mondo della chimica: materia viva, metamorfosi, trasformazione. “Pensare con le mani e con tutto il corpo”, come spiega Faussone nel libro La chiave a stella.

L’odissea del carbonio
“Il nostro personaggio”, cioè l’atomo di carbonio, “giace dunque da centinaia di milioni di anni […] sotto forma di roccia calcarea”. Dopo un tempo interminabilmente lungo di prigionia viene staccato e precipitato in un forno a calce – complice un colpo di piccone, simbolo del dialogo tra l’uomo e gli elementi – da dove esce attraverso il camino in compagnia di due “compagni ossigeni”. Qui l’avventura si fa tumultuosa e comprende la discesa nei polmoni di un falco, il ripetuto scioglimento in acqua marina e dolce e l’ingresso in una foglia di vite, nella quale, grazie all’input fornito dalla luce solare, entra a far parte della catena della vita. Da qui passa nel vino, nello stomaco del bevitore e poi ancora in giro per il globo con il vento come anidride carbonica fino a penetrare in un cedro del Libano e successivamente nel tarlo che lo rode dall’interno. Un tale “perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato” come nel canto tradizionale di Pesach Chad Gadyià, viene interrotto per puro arbitrio del narratore e esigenza della narrazione, ma potrebbe continuare indefinitamente.

Nel regno delle possibilità
Questa storia, avverte Primo Levi, è infatti soltanto una delle infinite storie possibili. È stata inventata dalla fantasia dell’autore, ma è indubbiamente vera dal momento che “il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio”. Le storie del carbonio sono dunque infinite. L’atomo di cui stiamo seguendo le avventure, scrive Levi, adesso “è di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte”. Viene trangugiato insieme alla catena di cui è parte, entra nel sangue e da qui in una cellula nervosa e in questo istante, proprio in questo istante, “guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.”.

Metamorfosi
Il regno delle infinite possibilità è la chimica, cioè la vita, e viene contrapposto alla fissità iniziale, quando il carbonio giace per centinaia di milioni di anni pressoché immobile nella roccia. “La sua esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore”, è quella di un prigioniero potenzialmente vivo condannato a una sorta di “inferno cattolico”. All’eternità bianca della non-vita si contrappone la vorticosa avventura che fa del prigioniero evaso un nuovo irrequieto Ulisse. Durante il suo viaggio l’atomo viene separato dai compagni, sciolto, assorbito, cambia aspetto, come per intervento divino “muore” e “rinasce” molte volte al pari dell’Ulisse omerico dall’ingegno colorato che molto ha visto e molto ha sofferto. Tra nascita e deperimento c’è solo una discontinuità apparente, sembra dire Primo Levi. In realtà si tratta dei due momenti di un medesimo processo. Al contrario, esiste discontinuità tra ciò che irretisce in una fissità che pretende di essere eterna e ciò che sfugge a questa fissità nel vorticare ininterrotto di tutte le cose. Primo Levi ha sperimentato la fissità che inaridisce la vita, la brutalizza e la nientifica nell’anno trascorso ad Auschwitz. Tutta la sua opera, che comincia a essere composta subito dopo il ritorno dal Lager, è per opposizione un inno alla vita nella trasformazione incessante delle sue forme. Carbonio ne è la sintesi forse più perfetta.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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