Cultura
Scusi… ma gli ebrei sono bianchi?

“Gli ebrei e l’odio per gli ebrei sono raramente menzionati in questo periodo, in cui l’antirazzismo e altri movimenti di emancipazione stanno diventando sempre più solidali tra loro. Che cosa sta succedendo?”, si chiede Gideon Querido van Frank, giornalista di origini sefardite e curatore della mostra “Are Jews White?”

Nel 2019 l’American Women’s March menziona nei suoi principi fondamentali la diversità delle donne nere, native, povere, immigrate, disabili, musulmane, lesbiche, queer e trans, ma rifiuta di includere nell’elenco le donne ebree. Lo stesso anno la ex copresidente Tamika Mallory non accetta di prendere le distanze dall’ideologia antisemita della Nation of Islam di Louis Farrakhan. Nel 2017 a Chicago tre donne che portano la bandiera arcobaleno con la stella di David sono cacciate dalla Dyke March, un altro evento apertamente intersezionale. Alla Amsterdam Women’s March del 2019 sono presenti tutti i colori dell’arcobaleno, non c’è invece alcun riferimento agli ebrei e all’antisemitismo. In compenso, sulla folla colorata e festante che comprende donne disabili, prostitute, transgender, immigrate e musulmane con e senza velo, sventolano striscioni e bandiere palestinesi.

Eventi analoghi esistono ovunque nel mondo occidentale e ormai anche in Italia. Certo il cammino da percorrere in vista di una piena inclusione è ancora lungo, eppure non si può non considerare quanta strada sia stata fatta in pochi anni. C’è chi ritiene che l’ascesa al potere di Trump (ma anche per esempio di Bolsonaro) abbia accelerato la crescita di contromovimenti come Black Lives Matter e in generale favorito per reazione l’attivismo. Allo stesso tempo, rovesciando causa ed effetto, è possibile che l’elezione di Trump negli Stati Uniti sia avvenuta anche per la reazione di una parte consistente del paese che guarda con indifferenza o timore all’inclusione. Comunque sia, l’idea che i bianchi occidentali godano, per motivi storici di cui perlopiù non sono responsabili in prima persona, di una posizione privilegiata nella società multietnica si è progressivamente diffusa. E anche se la realtà è sempre più complessa di schemi e slogan, è difficile negare che la storia sia stata dominata (e raccontata) fino a poco tempo fa da maschi bianchi adulti eterosessuali e che anche oggi in numerosi contesti le cose non siano cambiate molto. Il concetto alla base dell’intersezionalità è che tutti i sistemi di oppressione, inclusi quelli soft spesso più difficili da vedere, sono collegati e non è possibile dunque risolverne uno senza affrontarli tutti insieme. Da qui la solidarietà estesa ai gruppi umani più diversi, a partire dalle minoranze, e le sfilate colorate in cui tutti possano trovare posto. Ma proprio tutti?

No, non tutti. Gli ebrei no. Questo almeno il pensiero di Gideon Querido van Frank, giornalista e curatore insieme a Lievnath Faber e Anousha Nzume di una recente mostra presso il Museo ebraico di Amsterdam dal titolo Are Jews White?. “Gli ebrei e l’odio per gli ebrei sono raramente menzionati in questo periodo, in cui l’antirazzismo e altri movimenti di emancipazione stanno diventando sempre più solidali tra loro. Che cosa sta succedendo?”, si chiede Querido van Frank, discendente di antica famiglia sefardita olandese che da molti anni si occupa di intersezionalità e inclusione. Gli ebrei sono una minoranza che dovrebbe trovare posto tra le minoranze, dunque, oppure sono bianchi, nel senso che vanno collocati dalla parte dei privilegiati dalla storia? Il problema, di stretta attualità, riguarda la rappresentazione politica dell’identità. Nel contesto intersezionale gli ebrei sono visti come carnefici o vittime? Privilegiati o svantaggiati? Come rappresentano se stessi? E come li rappresentano gli altri? Quelli che abbiamo elencato all’inizio non sono incidenti isolati, con l’intersezionalità che sembra riguardare ogni gruppo di minoranza con la sola eccezione degli ebrei. Vediamo sempre più spesso manifestazioni contro razzismo, sessismo, omofobia e transfobia, islamofobia, discriminazione contro anziani e persone con disabilità in cui manca ogni riferimento all’antisemitismo. Che cosa succede? Perfino durante le commemorazioni delle vittime della Shoah l’antisemitismo viene sempre più spesso taciuto. Non sarà forse che agli ebrei, messi nel gruppo dei privilegiati, non si adatta il vestito delle vittime? Allo stesso tempo gli ebrei vengono accusati di approfittare del senso di colpa dell’Europa per la Shoah e di strumentalizzare la memoria per i propri fini, sminuendo di conseguenza le sofferenze degli altri. Ma questa, come ha chiarito la stessa ong Human Rights Watch, “è una retorica che si rifa al vecchio cospirazionismo antisemita in cui gli ebrei sono ritratti come vittime autoproclamate che monopolizzano e sfruttano la sofferenza. Secondo queste teorie gli ebrei controllano tutto, a partire dall’economia e dai media, e di conseguenza le loro storie ottengono costantemente tutta l’attenzione”. Non solo dunque, in quanto bianchi, un privilegio storico, ma anche manipolazione e sfruttamento. Gli ebrei sono forse addirittura i più bianchi tra i bianchi?

Il problema del complottismo antisemita non è nuovo, si dirà, e non appartiene solo ai contesti di intersezionalità e inclusione. Questo è certamente vero, ma la domanda che si pone è allora perché in questi contesti, così attenti alle discriminazioni e al peso della storia nel decretare il privilegio degli uni e lo svantaggio degli altri, l’antisemitismo non sia ai primi posti tra gli obiettivi da contrastare. La solidarietà tra marginalizzati non comprende i bersagli dell’odio antisemita, un odio tanto concreto da aver portato solo settanta anni fa all’assassinio di due terzi della popolazione ebraica europea? Eppure, forse, c’è perfino di peggio, perché in un numero crescente di casi l’antisemitismo stesso viene attenuato in nome degli svantaggi di cui soffrirebbero i suoi fautori. Nel 2018 Solomon Michalski è stato picchiato dai compagni di classe della Friedenauer Gemeinschaftsschule di Berlino dopo aver confessato loro di essere ebreo. La cosa più interessante è che la scuola, multietnica e dichiaratamente antirazzista, all’inizio ha minimizzato, cercando di ridurre il fatto a un episodio spiacevole ma generico di bullismo. Solo in un secondo momento e grazie all’insistenza della famiglia è emerso in tutta evidenza il movente antisemita. Allora la direzione ha chiarito di non tollerare episodi del genere, aggiungendo però anche che potrebbero essere spiegati dagli svantaggi che gli immigrati devono affrontare in Germania. Che in Europa i nuovi immigrati dall’Africa e dal Medio Oriente partano spesso da una posizione di svantaggio è un dato di fatto che non può essere ignorato. Altrettanto, non va ignorata la rappresentazione che gli immigrati fanno di sé, a cui non sono estranei lo sradicamento dal paese di origine e la frustrazione per il diffuso razzismo nei loro confronti. Però fare come la scuola di Berlino, cioè minimizzare il bullismo antisemita per non offendere i genitori dei bulli, sembra francamente troppo. O forse no, se gli ebrei vengono identificati con lo stato di Israele?

Per Querido van Frank la Palestina viene posta sempre più spesso al centro dell’intersezionalità nelle manifestazioni antirazziste e nelle marce femministe, nei convegni sulla sessualità e nei festival marxisti. Sul modello di quanto scrive l’icona dell’attivismo afroamericano Angela Davis in La libertà è una lotta costante. Ferguson, la Palestina e le basi per un movimento (Ponte alle Grazie), “invece di considerare la Palestina come un ‘problema separato’ o un ‘problema ai margini’, la Palestina dovrebbe essere il problema centrale per tutte le organizzazioni e movimenti che lottano per l’emancipazione ovunque nel mondo”. Anche senza voler entrare nella discussione su Israele e Palestina, questo approccio sembra discutibile sia perché riduce l’ampiezza di interessi dei movimenti per l’inclusione, sia perché colloca completamente fuori contesto il problema delle rivendicazioni palestinesi. Secondo Querido van Frank riposa su un doppio standard di giudizio insopportabile: priorità assoluta alla questione palestinese, indifferenza per i diritti dei tibetani e degli uiguri in Cina, dei curdi in Turchia e Iran, dei rohingya in Myanmar e così via. “Forse la sofferenza palestinese è sentita così acutamente perché, in questa storia di Davide contro Golia, al cattivo viene assegnato il ruolo dell’Europa bianca e colonialista mentre il più debole è l’indigeno oppresso, l’Altro”. Secondo Querido van Frank le critiche al governo israeliano sono non solo legittime, ma anche “moralmente desiderabili, però qualcosa non funziona quando l’attenzione è costantemente ed esclusivamente sull’unico stato ebraico del mondo, raffigurato come fonte di ogni male, e il suo diritto di esistere viene completamente negato. Non è critica, ma odio cieco. E qualcosa non va quando Israele e gli ebrei sono costantemente sovrapposti e i critici di Israele utilizzano una retorica antisemita”.

A complicare ulteriormente le cose intervengono i partiti populisti di destra come Alternative für Deutschland in Germania, Rassemblement National in Francia, Partij voor de Vrijheid e Forum voor Democratie nei Paesi Bassi, Fratelli d’Italia e Lega in Italia. Questi partiti, continua Querido van Frank, “condannano l’antisemitismo, non però sulla base di una vera preoccupazione per una minoranza vulnerabile, ma perché è strumento con cui colpire l’islam e quindi anche la sinistra”. Chi da destra difende gli ebrei lo fa dunque perché condivide l’idea che siano bianchi privilegiati e si differenzia dai contesti intersezionali soltanto per attribuire a questo carattere un valore positivo? Questa posizione è riassunta perfettamente dalle parole rivolte nel 2014 da Marine Le Pen agli ebrei francesi: “Non solo il Front National non è tuo nemico, ma sarà senza dubbio il migliore scudo che ti proteggerà dall’unico vero nemico, il fondamentalismo islamico”. “Oggi per la prima volta nella storia”, è ancora Querido van Frank a parlare, “la destra politica presenta l’ebreo come bianco, cioè come uno di loro”. Lo stesso recente utilizzo a destra di una espressione come “tradizione giudeocristiana” non è forse strumentale a questa rappresentazione politica dell’identità? In altre parole, quanto è funzionale alla guerra ideologica contro i supposti pericoli dello “scontro di civiltà” e del “declino dell’occidente” la lotta all’antisemitismo? E ammesso che sia così, è una buona o una cattiva notizia per gli ebrei?

Gli ebrei non sono mai stati bianchi, mai la norma, mai la maggioranza responsabile, con armi e frontiere, di povertà, violenza e sfruttamento. Per gran parte della storia siamo stati esclusi, perseguitati e sterminati come minoranza etnica, e in questo c’è davvero poco di bianco”, spiega il nostro interlocutore. È difficile negare che fino a pochi decenni fa gli ebrei in Europa rappresentassero non solo una minoranza tutt’altro che privilegiata, ma letteralmente la minoranza e l’alterità per definizione. L’ebreo era quasi sempre l’unico diverso in una società per il resto omogenea, così lontana da quella multietnica di oggi. Forse non a caso erano ebrei molti di coloro che hanno riflettuto filosoficamente sull’alterità (da Scheler a Husserl a Levinas) e in seguito molti tra i pionieri dell’inclusione. “Mi sono sempre considerato di sinistra”, conclude Querido van Frank, “esattamente perché sono ebreo. Perché la nostra storia è anche la nostra forza. Dal tempo delle rivendicazioni per i diritti civili e contro l’apartheid a quello per i diritti Lgbtqi+, molti tra i leader dei movimenti per l’emancipazione sono stati ebrei. Questo in anni in cui la solidarietà non era cosa ovvia e parole come intersezionalità e inclusione non erano ancora state inventate”. La rivoluzione, come Saturno, divora i propri figli?

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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