Cultura
Ebrei nel Novecento italiano. Una mostra al Meis

Un affondo nel secolo scorso, il più drammatico, atroce, buio ma anche vitale della storia plurimillenaria dell’ebraismo italiano

Si è appena inaugurata la mostra al MEIS – Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – la motra Ebrei nel Novecento italiano a cura di Vittorio Bo e Mario Toscano con l’allestimento di Antonio Ravelli. Una storia che comincia alla fine dell’Ottocento, dopo l’unità d’Italia e lo smantellamento dei ghetti, quando gli ebrei diventano cittadini a tutti gli effetti. Il periodo è carico di ottimismo e di fervente attività in tutti gli ambiti, da quello politico, con figure come il Presidente del Consiglio Luigi Luzzatti e il Ministro della Guerra Giuseppe Ottolenghi, alla vita culturale, al lavoro e alle storie più intime e famigliari.

Da qui si percorre poi un secolo di storia denso, problematico, fatto di inclusioni ma anche di esclusioni, di leggi razziali – e il 1938 viene documentato con precisione come l’anno di una frattura drammatica – e di Shoah, per dedicare poi particolare attenzione al dopoguerra e all’elaborazione, ancora in corso, dell’Olocausto. Si parla dell’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, dellavisita del pontefice al Tempio maggiore della capitale e delle nuove relazioni con lo Stato e con la società civile. Un viaggio appassionato tra mille sfaccettature che raccontano, nel percorso espositivo quasi tutte le tematiche che hanno caratterizzato il secolo definito “breve”: appartenenza religiosa ed educazione, rapporti con la Chiesa cattolica, vita artistica e letteraria, fascismo e antifascismo, persecuzione e Shoah, nascita dello stato d’Israele, sionismo e antisionismo, i musei ebraici, la Giornata della Memoria, la Giornata della Cultra ebraica e la memoria come istituzione. Che diventa oggetto di riflessione: cosa significa non dimenticare?

Corrado Cagli (1910-1976), Passaggio del Mar Rosso, Roma, 1935, tempera encaustica su tavola, Collezione privata

La politica della memoria mostra i suoi  limiti, da tempo ci si domanda se e in che modo l’istitutzione della Giornata della Memoria sia efficace, abbia una sua valenza educativa e pedagogica o se non abbia perso, invece, interesse. Alberto Cavaglion nel catalogo della mostra scrive: «Quanto sta accadendo in Italia, dopo il 7 ottobre 2023, smaschera la fragilità e diciamo pure l’inautenticità di un avvicinamento al mondo ebraico tutto proiettato sui temi della memoria; di un uso però strumentale del passato (e dunque anche degli ebrei come personaggi della letteratura e del cinema) che poco ha aiutato a comprendere la reale portata dell’odio antiebraico e a maturare una coscienza civile. Il diffondersi in questi mesi, anche e direi soprattutto nel mondo universitario, svela le incongruenze di un avvicinamento che, essendo strumentale, ci appare adesso in tutta la sua infondatezza».

Cita questo stralcio del testo di Cavaglion Giulio Busi sullo scorso inserto domenicale del Il sole 24 ore per parlare di questa mostra come necessaria, al di là degli scoramenti che sono comunque il motore della storia, insieme alle delusioni. Per Busi, «Tutto quello che si è fatto, per avvicinare all’ebraismo e per denunciare le persecuzioni, non è stato invano. Nessuna generazione può illudersi di aver “completato” il lavoro. È su questa coscienza di incompletezza, della necessità di un incessante, a volte avvilente “daccapo”, che si basa la fragile, e pure così tenace, durata ebraica».

Ritratto di Primo Levi con il figlio Renzo, 1963-1964 (Archivio Fondazione CDEC, Fondo Levi Anna Maria)

Ecco perché dunque questa mostra, che non è semplicemente una raccolta di avvenimenti disposti ordinatamente sulla linea del tempo, ma un affondo nella storia e nella società italiana lungo 100 anni, si rivela necessaria. Quella “durata” ebraica, come la definisce Busi, è in effetti il filo rosso dell’esposizione, che mette in scena quasi un’istantanea (solo 100 anni!) della storia plurimillenaria del giudaismo italiano, scegliendo un frammento però emblematico, perché è il ‘900 il secolo più contradditorio, atroce, buio e al contempo vitale della storia ebraica. Il percorso espositivo mostra quanto sia stato fondamentale l’apporto dell’ebraismo nel Novecento italiano. Come spiaga Busi nel suo articolo, sono piccoli numeri, ma che causano un impatto ampio su società cultura, politica e vita civile: «Le proporzioni, assolute e relative,», scrive, «non sono solo un momento statistico. Sovra-proporzionale non è un’espressione elegante, è appunto sbilanciata. Troppo lunga, difficile da pronunciare, indica però una costante ebraica. Un gruppo che incide più degli altri in alcuni ambiti – professioni liberali, attività economiche, vita artistica – a dispetto delle proprie dimensioni demografiche». Si tratta di una convinzione falsata o di un dato reale, si chiede poi Busi?

Ebbene, la risposta è la mostra. Perché fotografa un fatto: non è possibile fare la storia del Novecento italiano senza parlare dell’Italia ebraica.

Ebrei nel Novecento italiano, MEIS, Ferrara, fino al 6 ottobre 2024

Ebrei nel Novecento italiano ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica. L’esposizione è realizzata con il sostegno e patrocinio del Ministero della Cultura, della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e il patrocinio della Comunità Ebraica di Ferrara. Ente sostenitore: Intesa Sanpaolo. Sponsor: Fondazione Guglielmo De Lévy, Avis Provinciale e Comunale Ferrara, TPER, Gruppo Hera, Coop Alleanza 3.0 e Fondazione Bottari Lattes

 

 

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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