Cultura
Elias Canetti e il sogno di sconfiggere la morte

Una proposta di lettura

Quando nel 1981 riceve il premio Nobel per la letteratura, Elias Canetti diviene per tutti l’ultimo testimone della civiltà danubiana al tramonto. Per la precisione la civiltà di Hugo von Hofmannsthal e Karl Kraus, Robert Musil e Stefan Zweig è già tramontata da decenni, crivellata di colpi a Sarajevo e falciata a mitragliate alla Somme e a Verdun, poi definitivamente soffocata dalla marea nera nazifascista. In un certo senso però quella civiltà giovane non è mai stata, non ha visto la luce dell’alba ma solo un lungo crepuscolo; al pari della luna è sorta al tramonto e non ha smesso di tramontare, pallida come le giovani delle novelle di Schnitzler, vecchia senza età come l’imperatore Francesco Giuseppe di cui Josef Roth nella Marcia di Radetzky dà il ritratto più alto. Nel 1981, in anni di scoperta di questo mondo di ieri accentuata in Italia più che altrove dall’iniziativa editoriale di Adelphi, Canetti diventa allora suo malgrado un sopravvissuto e, come capita spesso ai sopravvissuti, un simbolo.

Canetti ottantenne è innanzitutto un sopravvissuto a se stesso che resiste alle lusinghe della fama e tuttavia non può fare a meno di commentarsi, cioè di commentare un’opera che affonda le radici nei lontani anni venti e trenta raccontati nell’affascinante autobiografia. Dopo decenni trascorsi nell’ombra, quando tutte le luci del mondo delle lettere erano rivolte altrove, ecco i riflettori spostarsi sull’ultimo esponente dell’antica civiltà mitteleuropea. E’ come se un impossibile Kafka anziano assistesse al proprio trionfo cinquant’anni dopo il Processo e la Metamorfosi.

Canetti ha scritto un solo romanzo, Auto da fé, frutto infuocato di lunghi anni di formazione nella Vienna del primo dopoguerra, una grande opera saggistica composta in oltre venti anni, Massa e potere, altri saggi più brevi e interventi d’occasione, pagine di diario, numerose raccolte di aforismi e l’autobiografia intellettuale in diversi volumi. Se il successo tardivo va addebitato in particolare all’autobiografia (La lingua salvata, Il frutto del fuoco, Il gioco degli occhi, a cui va aggiunto il volume sugli anni inglesi Party sotto le bombe) e agli interventi pubblici degli ultimi anni, la radice di tutta l’opera di Canetti deve essere cercata nel bruciante esordio narrativo del 1935, Auto da fé. Seguendo la celebre distinzione tra ricci e volpi di Isaiah Berlin, possiamo tranquillamente includere Canetti tra i ricci, tra coloro cioè la cui opera ruota tutta intorno a un singolo problema centrale. Come ha scritto Claudio Magris nell’Anello di Clarisse (Einaudi), i libri successivi di Canetti sono un immenso commento all’opera prima nello stesso modo in cui i midrashim sono un’esegesi del testo della Torà.

Tra i romanzi più importanti e difficili del Novecento, Auto da fé, come indica il titolo originale tedesco Die Blendung, è il racconto dell’abbagliamento e della distanza zero tra l’io e gli oggetti, la testa e il mondo. In questo senso è anche parabola della ragione occidentale, la cui tragedia si innesca nello scontro tra intelligenza e vita, cioè tra il principio ordinatore e gerarchico dell’io e la molteplicità del mondo circostante che sfugge a ogni possibile controllo. L’io, nel romanzo rappresentato dal protagonista, il sinologo Kien, per difendersi dalla brutalità e ricchezza della vita, impersonata dalla domestica Therese, intraprende una battaglia difensiva analoga a quella dei costruttori della muraglia cinese di Karl Kraus che, secondo l’immagine di un saggio di Canetti, viene estesa fino a soffocare tra i suoi blocchi di pietra l’impero che si vuole difendere dal nemico senza volto delle steppe, coprendolo interamente e riducendolo a un’unica, gigantesca e mostruosa distesa di materia inerte. Kien indossa guanti perché terrorizzato dal contatto, quando esce di casa stringe a sé i volumi come una corazza che lo protegga dai pericoli del mondo esterno, non riconosce le poesie attraverso il profumo delle rose ma il profumo delle rose attraverso le liriche d’amore persiane, rifugge il colore blu – colore del mare, tra i simboli della massa – e reputa la donna il più grande pericolo, “il secondo essere, l’altro da sé, il male, la sventura”. Kien è l’io attaccato dalla modernità disgregante che reagisce contraendosi su di sé, rifiutando l’esperienza del mondo, isolandosi. La sua casa, cioè la sua biblioteca, è tutto il suo mondo e al tempo stesso la negazione del mondo vivo, rifugio nel passato, paralisi, cecità, ecpirosi finale. Kien tenta di sottrarsi al potere esercitandolo sul proprio mondo, ma la sua difesa è autolesiva perché la mania di controllo si traduce immediatamente in irrigidimento della vita, aspirazione alla morte, delirio solipsista, sprofondamento nel sottosuolo.

Auto da fé è anche una parodia del Bildungsroman, il romanzo di formazione ottocentesco, non racconta infatti l’evoluzione della personalità del protagonista ma l’impossibilità di qualsiasi evoluzione, perfino quando le circostanze si rovesciano. Con le parole del libro, quando la testa senza mondo viene aggredita dal mondo senza testa, l’io paralizzato come un animale notturno di fronte a fanali abbaglianti eleva la cecità a ordine cosmico e include il mondo mostruoso e brulicante nella testa. Kien fugge le trasformazioni e le metamorfosi, cioè la vita, come il protagonista del racconto di Kafka La tana, braccato da un misterioso e implacabile nemico, fugge disperato lungo cunicoli e gallerie con il solo risultato di avvicinarsi al suo persecutore. Il tentativo di ricondurre la molteplicità a unità, l’ignoto al noto avvalendosi di una rigida nomenclatura scientifica che elimina il pericolo del mutamento non abbraccia la vita ma sposa la morte, che protegge nel suo freddo rigore opposto al proliferare babelico degli esseri. Qui sta l’abbagliamento.

Il tentativo da parte di Kien di classificare, reificare, bloccare in idolo statico la vita è votato allo scacco, ma permette a Canetti di esemplificare il rapporto tra massa e potere che costituisce l’obiettivo di indagine della sua vita. Kien vuole controllare una massa che però esce dagli argini, deborda e sommerge la realtà come la pappa dolce sommerge il paese in una fiaba dei fratelli Grimm. La massa, di cui il mare, la foresta e il fuoco sono simboli, oblitera le classificazioni, cancella i confini che il potere non si stanca di edificare. Durante il rogo finale Kien – come Jorge da Burgos nell’analoga scena del Nome della rosa e Jack Torrance interpretato da Jack Nicholson in Shining – ride in segno di trionfo perché ha trovato il modo di catturare definitivamente la preda, portandosela via nella morte. E’ la vittoria tragica della testa senza mondo, che ottiene la salvezza annientando la vita.

La parabola di Kien, come tutta l’opera successiva di Canetti, inclusa quella saggistica, non riassume un culto della morte che è del tutto estraneo all’autore, ma al contrario esplica attraverso immagini l’amore per la vita. Canetti rifiuta il lugubre trionfo della morte nella storia e smaschera il suo seducente ma falso splendore impegnandosi in una lotta contro ogni sofferenza e violenza, schierandosi manifestamente dalla parte dei vinti anche quando hanno il volto di un vecchio ebreo della mellah di Marrakesh o di un cammello rabbioso condotto al mattatoio. La stessa parola scritta, come il passato in cui Kien cerca di costringere tutto il presente, è una forma di violenza che immobilizza; per questo Canetti predilige la parola viva delle voci, come quelle di Marrakesh che danno il titolo al suo diario di viaggio in Marocco.

Difficilmente il lettore di Auto da fé ha un giudizio intermedio su un libro che si ama o si detesta, e non solo perché spigoloso, ma anche perché del tutto eccentrico rispetto ai grandi filoni della letteratura contemporanea. Nella magistrale e scorrevole autobiografia Canetti suggerisce come leggere il suo primo libro, che però come la massa eccede ogni tentativo di descrizione e classificazione. In tutti gli scritti, quelli degli anni dell’anonimato e quelli della fama, rimane al centro il sogno di sconfiggere la morte, preservando ogni dettaglio e ogni possibilità di ciascuna forma di vita. L’agghiacciante alternativa è una muraglia cinese che stritola quello che vorrebbe proteggere.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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