Cultura
“Feeling Jewish”, quel sentirsi ebrei che…

Travalica il tempo e le spazio, ma caratterizza da sempre la relazione tra ebrei e non ebrei. Un sentimento di appartenenza oppure di antisemitismo, di amore oppure di odio per il popolo ebraico

L’appartenenza alla cultura e alla fede ebraica rappresenta un elemento formalmente normato nell’ambito dell’Halakhah: si considera ebreo chi ha una madre ebrea. Concetto chiaro, che non offre margini di dubbio e che non apre spiragli se non a chi avvia un percorso di giur, la conversione religiosa.
Ma questo elemento privo di ambiguità si scontra con una società sempre più dinamica dall’identità confusa, le cui pulsioni al cambiamento entrano in contatto con la tradizione. Se da un lato attraverso i secoli il criterio di appartenenza all’ebraismo è rimasto invariato, dall’altro è cambiato l’approccio sociale ed emotivo della società stessa.

La componente relazionale, alla base della dinamica sociale, si riferisce principalmente all’effetto broadcasting delle città metropolitane moderne che, come indica l’economista della Harvard University Edward Glaeser, si comportano sempre più da social network e permettono così di ridurre il paradosso di prossimità. Paradosso stesso che a sua volta è stato, e lo è ancora oggi, una delle cause che attraverso i secoli ha generato un forte contributo all’antisemitismo: la vicinanza stretta con la diversità minoritaria enfatizza il disagio. Amos Oz, nella sua ultima conferenza del 3 giugno 2018 all’Università di Tel Aviv, ha affermato che “non è auspicabile essere una minoranza qui. Non lo è da nessuna parte”. Parole che trovano molteplici conferme nella storia: non solo le difficoltà di relazione tra gli shtetl e le amministrazioni locali polacche e ucraine, ma anche le controverse e conflittuali dinamiche delle prime fasi di migrazione statunitense, senza contare il rapporto attuale con il mondo arabo. Ma proprio dalle radici storiche dell’antisemitismo le metropoli dell’era globalizzata hanno sviluppato progressivamente qualcosa di originale e diverso: conoscenza, viaggi, scambi, esperienze in passato non proponibili, oggi a basso costo.

Il comico Leonard Alfred Schneider, sul palco noto come Lenny Bruce (13 ottobre 1925 – 3 agosto 1966) sintetizzò questo effetto città sull’ebraismo: “Se vivi a New York o in un’altra grande città sei Jewish. Se vivi in Butte, Montana, sarai un Goyish, anche se sei Jewish”. La parola stessa Jew-ish, per Bruce era una parola che sembrava definire un’indistinta categoria, in cui chiunque potrebbe essere Jewish e lo si è se si vive in un determinato posto, in un mix sociale di un certo tipo, ascoltando un certo tipo di musica e mangiando un certo tipo di cibo, non necessariamente definito da dettami di fede.
La componente emotiva parallelamente richiama di per sé qualcosa di più latente nella struttura psicologica delle persone attratte dall’ebraismo e con cui l’ebraismo stesso si era confrontato già in passato. Sempre Oz sottolinea il peculiare destino del popolo ebraico del vivere tra i due estremi di chi lo odia e chi lo ama in modo cieco.

La Torah affronta invece questo aspetto marginalmente, a partire dalla prospettiva storica: “Quando gli israeliti lasciarono l’Egitto, una moltitudine variegata (ערב רב) salì con loro” (Esodo 12:38). Sorge quindi la domanda: chi costituiva questa moltitudine eterogenea? Schiavi, forse? Altri ex schiavi egizi? proseliti? O era il risultato di matrimoni misti? In effetti è possibile trovare supporto per quest’ultimo aspetto nelle riforme di Nehemiah contro i matrimoni misti: “Quando udirono l’insegnamento separarono tutta la mescolanza aliena (ערב) da Israele” (Neh 13:3). Questa anomala moltitudine coinvolgeva comunque non ebrei che desideravano vivere in mezzo agli ebrei. Una prima forma di “feeling Jewish”?.
Ma le separazioni non sono mai viste bene dalla Torah che prende poi in considerazione più dal punto di vista normativo che filosofico il concetto di gentile che decide di attenersi su base volontaria ai principi base della legge ebraica mediante l’enunciazione dei Sette principi noachidi. Sebbene nella Torà scritta ci siano solo tre versi espliciti che contengono dei precetti indirizzati a Noah e ai suoi discendenti (Genesi 9:4-6), è propriamente la tradizione orale a sancire un codice universale per i precetti relativi ai gentili. (Kuzary III:73). Nel Talmud Babilonese, (Trattato Sanhedrin Capitolo 7) è spiegato che tutti i Sette Comandamenti divini sono addirittura compresi in un singolo verso del Libro della Genesi (2:16). Altre fonti riportano che i primi 6 comandamenti noachidi furono dati dal Creatore ad Adam, il primo uomo, e l’ultimo aggiunto a Noah, per poi infine riepilogarli a Moshe sul Sinai insieme al codice orale. Si tratta di principi che rispondono prevalentemente al buon senso e a regole di equilibrio sociale: non uccidere, non rubare, non pronunciare il nome divino invano, non nuocere agli animali, non avere un comportamento sessuale dissoluto, istituire corti di giustizia eque a cui aggiungere il divieto all’idolatria. Ma, essendo parte del codice normativo della Torah, si aggiungono diversi dettagli che ne amplificano la portata, arrivando a circa sessantasei precetti formalmente obbligatori ed altri volontari. In un rapporto rispetto alle leggi ebraiche di circa 4:1, considerando che delle 613 mitzvot, 271 rimangono in vigore sia prima che dopo l’esilio.

I maestri del Talmud, che per lo più dovevano limitarsi a tracciare le linee giurisprudenziali di contatto con i gentili, non avevano tempo da dedicare con tanta attenzione a chi non era ebreo, quindi molti dettagli rimasero indefiniti.
Interessante la posizione del Rabbino livornese Elia Benamozegh che, nella sua lettera ad un proselite in aria di conversione, dichiara: “La nostra tradizione, lungi dal consentire di scivolare nel puro razionalismo impone al proselita noachide, più tardi definito proselita della porta, una condizione puramente formale, l’accettazione di queste leggi, giammai come semplice ragionare, bensì come insegnamento della rivelazione divina. Cosa si può desiderare di meglio?” e in un ulteriore passaggio: “Lei sarà in comunione con Israele, che non può non riconoscere in lei un membro assolutamente legittimo del Noachismo, un rappresentante dei veri credenti del tempo a venire”.

Ma il “feeling Jewish” non è solo questo. Attinge direttamente dal sentirsi in qualche modo affini alla storia che ha strutturato e manutenuto vivo l’ebraismo. Alcuni stati emotivi tracciati dalla Professoressa Devorah Baum, psicologa alla Yale University sono: odio di sé, senso di colpa, risentimento, paranoia, isteria, prepotente amore materno. Sentimenti notoriamente associati agli ebrei moderni, frutto di una società che tende a descrivere gli ebrei come inclini a sentimenti “negativi”.
C’è ben altro. Nell’era dell’alienazione è facile vivere il senso di esilio e al contempo nell’era dell’expertise è facile trovare nella matrice ebraica la forma di competente professionalità. La cultura ebraica diventa così il modello ideale di modernità proprio nell’essere esempio di tradizione antica. Gli ebrei stessi sono stati portati dalla storia e dalla loro stessa identità ad essere “Stranieri interni” ad una società, i perfetti consulenti degli affari esteri, che lo storico statunitense Yuri Slezkine descrisse come “mercuriani universali”, in riferimento al mito greco Mercurio che viveva, con i suo followers, di “arguzia, artigianato ed arti”.
Ed è così il Feeling Jewish diventa più diffuso, laddove il ritmo della globalizzazione fa sentire innumerevoli persone più emarginate, sradicate e minacciate esistenzialmente, creando le basi per replicare sentimenti tipicamente “ebraici” .

Bibliografia.
Oz A. Resta ancora tanto da dire. L’ultima lezione, Felitrinelli, 2023.
Bar S. “WHO WERE THE ‘MIXED MULTITUDE’?” Hebrew Studies 49 (2008): 27–39. .
Lichtenstein A. Le sette leggi di Noè. Edizoni Lamed,
Baum D. Feeling Jewish (A Book for Just About Anyone), Yale University Press, 2017.
Le Sette leggi universali


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