Cultura
“Freaks out” di Gabriele Mainetti, un estroso guazzabuglio di stereotipi

Perché occorre rendere giustizia alla memoria

L’altro giorno mi è capitato di vedere un film dell’anno scorso che adesso viene trasmesso da Sky. Si tratta di Freaks out di Gabriele Mainetti. Non mi è piaciuto, ma questo non è interessante, rientra una questione soggettiva di gusti. Però mi ha anche disturbato e da questo fastidio nasce la voglia, l’esigenza di fare una riflessione. Che il passato debba essere comunicato attraverso nuovi linguaggi per essere riletto e per arrivare a un pubblico composto da giovani è un fatto appurato. E’ ora di cedere il testimone, visto che di quelli sopravvissuti alla tragedia e agli anni bui del Novecento ce ne sono sempre meno. E per farlo occorre sviluppare immaginazione, fantasia, provare a ritrovare un rapporto diretto e personale con gli eventi ormai lontani del tempo, che rischiano di esserci estranei come le guerre puniche.

Per questo motivo da qualche anno assistiamo a esperimenti soprattutto cinematografici e televisivi che si propongono di giocare con la memoria per riaccendere un interesse negli spettatori. Ha iniziato Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria nel quale ci ha proposto un finale alternativo allo sterminio: incenerire Hitler e il Terzo Reich in un cinema – scelta simbolica, almeno con la fantasia – mostrando ebrei combattivi , tutt’altro che disposti a farsi massacrare come agnelli designati all macello (in fondo non lo dice anche Shylock: se ci pungete non sanguiniamo? Se ci colpite non dovremmo vendicarci?). Prende ispirazione dal regista di Pulp Fiction anche la serie Hunters dove ci si immagina – citando un altro grande della cultura americana , Michael Chabon, con il suo Escapista – che quattro supereroi che sembrano uscire da un fumetto postmoderno si improvvisino cacciatori dei nazisti nascosti negli US, guidati da un vecchio sopravvissuto e da un giovane che ha appena perso la nonna, unico suo legame con la Shoah. Operazione complessa, nata per riavvicinare il pubblico dei teen agers alla storia, parzialmente riuscita, con il rischio di trasformare la tragedia in un cartoon. Ci sono poi i tentativi fiabeschi, quelli che provano a far poesia nonostante l’orrore. La Vita è bella di Roberto Benigni sulla quale ormai si è detto di tutto – non sto quindi a dilungarmi sul fatto che la seconda parte, quella che ha infastidito i più, è totalmente priva di fondamento reale – che ha comunque il pregio di mettere al centro  della vicenda un ebreo italiano ricordandoci che gli ebrei sono stati perseguitati e deportati anche nel nostro paese non solo in Germania e soprattutto descrivendolo come un uomo normale, pure simpatico e strafottente, un padre e un marito pieno di vita, non un santino idealizzato. Oppure il più recente Jojo Rabbit, sceneggiatura e regia di Taika Waititi pseudonimo di Cohen, che gioca sulla delicata percezione dell’occupazione nazista vista attraverso gli occhi di un bambino: una fiaba finché l’infanzia lo protegge (e allora Hitler può diventare perfino un simpatico alter ego pasticcione), un dramma quando la madre che aiuta i perseguitati viene impiccata e lui si ritrova solo davanti ad un’atroce realtà che lo spinge a far precipitare l’Hitler delle sue fantasie dalla finestra.
Sono tutte operazioni che, più o meno, si appoggiano su una base di credibilità storica, stravolgendola o rivisitandola, in modo più o meno riuscito. Ma davanti a Freaks out cadono le braccia, tanto più che l’opera viene raccomandata dalla Commissione nazionale valutazione film che ne incoraggia la visione, particolarmente adatta a suo dire ad un pubblico di giovani “a scopo educativo e per stimolare al rispetto della diversità”. La trama narra di un circo di freaks capitanati da un ebreo che si chiama Israel e che cerca di sopravvivere a Roma dopo l’8 settembre 1943 quando i Nazisti arrivano in Italia. La tragedia infatti non sta tanto nell’occupazione, nelle deportazioni, nella fame, nelle bombe quanto nel fatto che un perfido nazista, un freak con sei dita, ha organizzato un altro circo concorrenziale dove fa esibire gli scherzi o i prodigi di natura per cercare una creatura capace di portare alla vittoria la Germania ormai agli sgoccioli  (è anche capace di leggere il futuro). Ripeto, non voglio soffermarmi sull’esilità della sceneggiatura, sui personaggi tagliati con l’accetta (il nano superdotato che si masturba continuamente è la punta dell’iceberg), sui dialoghi improbabili o sui manierismi (l’ebreo Israel è buono, umano, è un mago, è poetico, fa apparire i pasticcini nella mano del ragazzino con i grandi occhi marroni nel vagone diretto a Auschwitz). Il film è stato salutato come estroso guazzabuglio, tentativo coraggioso di emulare i film americani (deve essere quindi costato parecchio), spregiudicato puzzle di citazioni che vanno da Schindler’s List fino alla modernità della colonna sonora. Nessuno però ha notato il totale caos che viene proposto allo spettatore, che, soprattutto se è giovane, resta quantomeno spiazzato. Gli stereotipi sono imbarazzanti e restano tali fino alla fine. I partigiani sono degli storpi, dei mutilati guerrafondai che si divertono a uccidere come dimostra l’improbabile seconda parte (una specie di continua battaglia dove non si capisce più niente). La donna partigiano beve dal fiasco per farci vedere quanto è tosta ma sotto i vestiti porta la guepière per distrarre il nemico (si sa le donne partigiano erano tutte un po’ mignotte, riecco lo stereotipo). Cosa cantano i partigiani? Ma Bella ciao naturalmente. D’altro canto gli ebrei hanno tutti lo sguardo languido e sottomesso delle vittime designate e i nazisti non sono davvero dei criminali, sono degli psicopatici, dei freaks, intrattengono, fanno pure ridere. 
Magari c’è anche il rischio che qualche insegnante, visto il suggerimento autorevole, faccia vedere il film alla scolaresca per il Giorno della memoria “a scopo educativo”, come viene specificato nel depliant. Mi chiedo: che messaggio arriva a un ragazzo di tredici quattordici anni in su? A cosa servono operazioni come questa se non ad aumentare la confusione, la mancanza di basi storiche, la distorsione degli eventi narrati? Oltre al fatto che, a differenza delle opere già citate, manca una componente fondamentale per giustificare un’opera fantastica: non scatta nessuna empatia, non c’è un attimo di emozione. Tutto è strillato, convulso, buttato lì. Ci lamentiamo che il Giorno della memoria sia diventato un carrozzone dove ogni cosa è buona, dove tutto cade in una grande pentola per dare un generico sapore di coscienza lavata. Forse bisognerebbe cominciare a pensare agli strumenti didattici, ai materiali che vengono propinati ai ragazzi. Poi non lamentiamoci che una svastica non significhi più Nazismo ma una generica ribellione apolitica, un vaffanculo stilizzato. L’educazione è faticosa, sicuramente richiede più preparazione che accendere un computer e passare due ore a vedere un film. 
Forse dobbiamo ripartire dalla fatica per rendere giustizia alla memoria.
Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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