Cultura
La piccola porta del messia. Walter Benjamin e la storia

Passato, presente e futuro: attualità della rammemorazione

Che cos’è la storia? Come è possibile descrivere il caos, dare un senso alla massa confusa degli eventi? E gli avvenimenti della storia, propriamente, quando accadono? Nel passato o forse nel presente in cui vengono narrati? Nella poesia La Storia Eugenio Montale allude ironicamente a coloro che della storia hanno una concezione lineare e continua, quelli insomma che fanno della storia la storia del progresso dell’umanità. Eppure la storia, nelle parole del poeta,

non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.

Il tempo, in altre parole, non è una linea come volevano Hegel e gli hegeliani e poi i positivisti e gli storicisti, marxisti inclusi. La storia è frammentaria, procede a salti,

si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario

il suo tempo non è costituito dalla diacronia ma da cesure, sincronie, arresti.

Il 15 luglio 1892 nasceva a Berlino Walter Benjamin. Considerato a lungo voce eclettica e originale della filosofia del Novecento, in particolare per il suo marxismo lontano dall’ortodossia, negli ultimi decenni Benjamin è oggetto di una crescita vertiginosa degli studi nei dipartimenti di filosofia delle università di tutto il mondo. Oggi ogni parola di Benjamin è girata e rigirata, analizzata a fondo, e i suoi scritti, inclusi quelli non strettamente filosofici, sono sempre più influenti. La componente ebraica nella proposta filosofica di Benjamin – componente talvolta esplicita, più spesso implicita – è peraltro essenziale e innerva, tra le altre cose, l’idea di storia fatta propria dall’intellettuale berlinese. Memoria e rammemorazione, messianismo, utopia costituiscono un gomitolo di temi ebraici esplorati per decenni e in particolare nelle Tesi di filosofia della storia, ultima opera prima del suicidio nel settembre 1940 a Portbou, al confine tra la Francia occupata e la Spagna. Un gomitolo ben presente dietro i versi di Montale.

Le granitiche certezze degli storici tedeschi dell’Ottocento – per Leopold von Ranke lo storico ha il compito di descrivere esattamente quello che è successo nel passato – vengono messe in crisi da Benjamin già molto tempo prima delle Tesi di filosofia della storia. Ma allora, se non si occupa di ricostruire come le cose sono andate, che cos’è storia? Nell’Origine del dramma barocco tedesco Benjamin ritiene che a fondamento della modernità vadano poste categorie come la malinconia, l’allegoria e la frattura tra segno e oggetto designato dopo la caduta, frattura da cui sgorgano significati mai conchiusi, sempre aperti. Le forme barocche sono infatti segni che non rinviano ad alcun oggetto, “come un gioco di geroglifici dietro al quale non si nasconde alcun significato” (l’espressione è di Stéphane Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Anabasi). Anziché mettere in relazione i segni e la realtà, con il barocco avviene la separazione degli uni dall’altra; si spalanca allora un abisso, si apre una faglia che fa sì che le parole risultino isolate, impotenti.

La medesima rottura di fronte a cui arretra spaventato un protagonista del teatro viennese fin-de-siècle come Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos. Dopo la caduta dell’uomo, cioè dopo il peccato originale, è perso una volta per tutte il senso originario del mondo. Ma proprio perché il senso originario è ormai irraggiungibile, la cultura barocca della crisi apre a sempre nuovi, transeunti significati. Il teatro, quintessenza del barocco, proietta la storia nello spazio scenico, cioè in uno spazio di finzione che viene continuamente reinventata. La modernità secondo Benjamin rifiuta la logica di Hegel perché non esiste alcun movimento dialettico in grado di comprendere tutti i momenti ciascuno dei quali a propria volta comprende e supera il precedente. Esiste, al contrario, una originaria discontinuità. Il modello della storia non è logico bensì estetico. “Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi”, scrive negli stessi anni Marcel Proust nell’ultima parte della Ricerca del tempo perduto. Come l’opera d’arte emerge nella propria irriducibile diversità, così il presente storico emerge riassumendo in sé tutto il tempo, irriducibile com’è al passato e al futuro. Le stesse scienze della natura non progrediscono secondo una linea continua ma soltanto attraverso rotture e salti, come mostra Thomas Kuhn nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, caposaldo della filosofia della scienza del Novecento. E allora questo varrà tanto più per la storia.

Dalla seconda metà degli anni venti l’istanza politica penetra nel cuore della riflessione di Benjamin. L’idea che solo l’istante storico presente sia attuale e la distanza dal tempo lineare e oggettivo della storiografia ottocentesca vengono ad approfondirsi in questa nuova luce. L’oggetto della storia non è dato e quindi non può essere recuperato andando a scavare nel passato, ma è costruito nella scrittura della storia, cioè nella storiografia. Lo storico diventa così artefice. Demiurgo, non inventore. Suo obiettivo non è recuperare un passato irrecuperabile, visto che non è dato come oggetto, ma salvarne frammenti. Come Proust, anche lo storico va alla ricerca del tempo perduto. La concezione tradizionale viene così rovesciata, con il punto di partenza che viene trovato nel presente in cui lo storico è calato.

È a questo punto che il modello politico diventa decisivo. Perché se lo storico attualizza il passato e plasma la storia raccontandola, allora è responsabile nei confronti del passato. Ma la storia – Benjamin lo sa bene – è perlopiù diretta dalle istanze, le priorità, le passioni e gli interessi dei forti. Lo storico, allora, deve farsi carico degli ultimi e dei dimenticati, salvare la memoria di vinti e sommersi. L’idea del tempo storico come lineare, continuo, omogeneo e scandito da nessi causa-effetto è una illusione strumentale al potere. A questo modello va contrapposta la storia sotterranea e notturna degli esclusi. La stessa storiografia marxista viene investita dalla critica quando, come ha fatto non di rado, trasforma la storia degli umili in una epopea vittoriosa di progressiva, necessaria liberazione. Quando suo scopo è il monumento che commemora. Ma commemorazione e monumentalizzazione sono anch’esse funzionali alla logica della storia strumento del potere. L’alternativa reale a una storia-progresso che giustifica il dominio è l’attualizzazione, e deriva dalla tradizione ebraica del ricordo e della speranza. Come ha chiarito Yosef Haim Yerushalmi (Zakhor, ma anche Verso una storia della speranza ebraica, Giuntina), il ricordo non è conservazione della memoria del passato ma attualizzazione del passato nel presente. Per limitarsi a un solo esempio, l’uscita dall’Egitto a Pesach non viene evocata ma rivissuta, come prescrive la Haggadà. Il principio speranza è questa idea che il passato non sia chiuso una volta per tutte.

Due principi si fronteggiano. Ripetizione e rivoluzione, cioè continuità e rottura. La rottura, ovvero rottura della ripetizione che perpetua le ingiustizie, avviene per l’insorgere di ciò che è inatteso e imprevedibile: la redenzione. Ma per Benjamin la redenzione non è l’evento degli ultimi giorni, bensì qualcosa che in ogni istante può irrompere nel presente. Il messia della tradizione ebraica disintegra la storia come continuum e costituisce un’utopia che affonda le radici nel momento presente. Benjamin si rifa non tanto all’esegesi moderna che reinterpreta la figura del messia come un punto di fuga, una linea di orizzonte verso cui abbiamo il dovere di dirigere i nostri passi ma che è per definizione irraggiungibile. Questa interpretazione, infatti, rende il messia un futuro il cui valore sta precisamente nel fatto di essere da sempre e continuare a essere ininterrottamente un futuro, senza una vera possibilità di attualizzazione presente. La battuta secondo cui ogni messia che viene è un falso messia spiega questa posizione. Benjamin, al contrario, come ha suggerito l’amico Gershom Scholem, riprende la tradizione mistica ebraica che sa per certo che il messia è prossimo, cioè che proietta l’utopia nel presente. Il messianismo, in altre parole, non è attesa passiva di qualcosa che si verificherà alla fine dei tempi, bensì la possibilità che in ogni momento irrompa l’inaspettato, il nuovo. Dal fatto che la redenzione messianica sia una possibilità reale e attuale consegue il coinvolgimento in prima persona dell’uomo, declinato da alcune correnti mistiche in pratiche teurgiche e di tikkun .

Nella Tesi 9 Benjamin interpreta un quadro di Klee descrivendo il soggetto rappresentato, un angelo, come l’angelo della storia. “Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”. L’angelo vorrebbe trattenersi, ma “una tempesta spira dal paradiso” e gli impedisce di chiudere le ali. “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Nel tempo storico dell’esperienza, scrive Benjamin nella Tesi 6, “anche i morti non saranno al sicuro”. La cacciata dal paradiso non è un evento compiuto una volta per tutte ma qualcosa che continua a prodursi, nell’ininterrotta ripetizione della medesima tragedia. Il messianismo mette in discussione questo scenario spettrale descritto poco prima della messa a punto del genocidio su base industriale nelle camere a gas. L’onnipotente incedere del potere nella storia viene messo in questione dall’insorgere dell’etica. È l’infinito cioè l’etica, scriverà Emmanuel Lévinas, a bucare la totalità.

Il rapporto utopico con il passato avviene con la rammemorazione, il ricordo che attualizza. Confrontando le tecniche divinatorie degli indovini e la pratica ebraica della rammemorazione, Benjamin nella Tesi 18 ritiene che entrambe attualizzino tempi lontani dal presente nel presente. Ma tra le due c’è anche una differenza enorme, perché per gli indovini esiste un legame necessario tra passato e futuro che viene chiamato fato o destino. La rammemorazione ebraica al contrario non nasce da necessità ma da libera scelta. In questo senso è etica. Le filosofie della storia tradizionali sostituiscono al legame interno del fato quello esterno della causalità, ma esattamente come gli antichi oracoli definiscono un tempo lineare in cui ciò che viene prima determina ciò che viene dopo e lo rende perciò prevedibile, spiegabile. Ma il tempo della storia, come nella poesia di Montale, non è una catena fatta di anelli connessi gli uni agli altri. Il passato può essere modificato nel presente. Perciò nulla è del tutto irreparabile nel passato o inevitabile nel futuro. Sorge in ogni istante un numero incalcolabile di nuove possibilità. Perché nella tradizione ebraica, nelle parole di Benjamin, “ogni secondo era la piccola porta da cui poteva entrare il messia”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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