Cultura Cibo
L’anguria, il frutto plurimillenario che ha accompagnato la nascita di Israele

Storie intorno al cocomero, con una ricettra fresca per gustarlo tra il dolce e il salato

Difficile che uno pensi alla storia, mentre addenta una succosa fetta di anguria. Semmai, sta attento a non sporcarsi e ringrazia chi di dovere per avergli fornito tanta bontà. Eppure questo frutto avrebbe un sacco di cose da raccontare. Ricordarle tutte è impossibile e forse non a tutti interessa a farlo, ma un veloce giretto indietro nel tempo può essere utile. Chi lo ha fatto prima di noi ha scovato alcune curiosità. Per esempio, la rappresentazione di un cocomero servito su un piatto in un dipinto funerario egizio di almeno 4.000 anni fa e la presenza di semi di anguria niente meno che nella tomba di Tutankhamon.
Da qui la conclusione che fosse l’Egitto la patria dell’imponente frutto. In realtà, è probabile che i suoi antenati arrivassero dall’Africa, ma gli storici devono ancora mettersi d’accordo sulla precisa zona di origine. Di sicuro è nella terra dei faraoni che sono state trovate le prime testimonianze di un consumo, diciamo così, voluttuario, segno che il grosso frutto era già piuttosto apprezzato sulle tavole. Del resto, non è un caso se rientra tra i rimpianti degli ebrei in fuga dalla schiavitù. Insieme all’abbondanza di pesci, di cetrioli, di porri, di cipolle e di aglio, pare che, nonostante la manna, anche l’anguria mancasse ai figli di Israele. Quella di Numeri 11:5-6 è l’unica citazione nella Bibbia riconducibile con buona approssimazione agli avatichim, ma ricompaiono in altre fonti ebraiche. Per la precisione, le angurie sono citate nella Mishnah, nella Tosefta e nel Talmud di Gerusalemme. Uno studioso qualche anno fa si è occupato di farne un elenco piuttosto dettagliato. Si chiama Harry S. Paris e per il Volcani Institute-Agricultural Research Organization, ente finanziato dal governo israeliano, ha scritto nel 2015 un accurato saggio dedicato al dolce frutto del deserto. Obiettivo dello scienziato era capire quando, come e dove fosse avvenuto il passaggio dal frutto selvatico a quello coltivato. Da quello indigesto a quello dolce. L’anguria delle origini non doveva infatti essere particolarmente appetibile. Dalla polpa chiara, acquosa ma dura e il gusto dall’insipido all’amaro, l’antenato di uno dei simboli più dolci dell’estate non ci faceva una gran figura. Aveva però dalla sua la capacità di crescere anche nelle zone secche, di immagazzinare un sacco di acqua e di conservarla per tempi relativamente lunghi se tenuta al fresco. Ce n’era abbastanza per imparare a coltivarla e, magari, approfittarne per renderla un po’ più buona.
Gli studi di Paris non si sono limitati alla botanica, ma hanno toccato anche la filologia, l’archeologia, la letteratura e la cultura. Ciascuno di questi campi gli ha consentito di comprendere meglio il successo di un frutto che oggi rappresenta una delle colture orticole più diffuse nelle zone più calde del mondo, Israele compreso.

Mettendo insieme i dati lo scienziato è giunto alla conclusione che i primi cocomeri fossero stati addomesticati per fornire acqua e cibo almeno 4.000 anni fa nell’Africa nord orientale. Inizialmente duri e insipidi, capaci di fornire acqua ma per il resto utilizzati in cucina solo per i semi e le scorze, hanno impiegato alcuni secoli per diventare un frutto da dessert. La polpa, in origine chiara e verdognola come quella dei cetrioli, sarebbe diventata prima gialla e infine rossa. Via via che il colore si faceva più caldo, anche il tasso di zuccheri cresceva. Senza per questo perdere le sue funzioni rinfrescanti. Questi passaggi, avvenuti tra 400 a.C. e il 500 d.C., sono testimoniati da diverse fonti. Si va da quelle scritte risalenti all’epoca classica, con le indicazioni tra gli altri di Ippocrate e di Plinio il Vecchio, a quelle iconografiche, che abbracciano Medio Evo e Risorgimento. Concentrate nell’area europea, queste non consentono però di sapere con precisione quando l’anguria fosse arrivata sul continente e tanto meno grazie a chi.

Lo storico del cibo Gil Marks ritiene che siano stati i Mori a portarla in Spagna nel XIII secolo, azzardando pure che gli ebrei ne abbiano introdotto la coltivazione in Francia. Di certo, si trattava di un frutto già piuttosto buono, che gli ebrei avevano da tempo imparato a coltivare. Tanto da regolamentarne la produzione e il consumo almeno dal II secolo d.C.. I testi sulla decima, ossia sulla parte del raccolto da destinare ai sacerdoti e ai poveri, in particolare, si sono rivelati particolarmente istruttivi. Ad esempio, ai contadini veniva chiesto di non accatastare gli avattihim, ma di disporli uno per uno in modo da non rovinarli. Secondo Paris, questo significherebbe che si trattava già di frutti dalla scorza fragile, ben diversi da quelli duri e coriacei dello stato selvatico. La deduzione più interessante fatta dallo scienziato israeliano riguarda però il gusto: se le angurie venivano poste nella stessa categoria di fichi, uva e melagrane, significa che avevano già raggiunto lo status di frutto dolce.

Facendo un salto temporale di un paio di millenni, scopriamo che le angurie sono rimaste tra i frutti preferiti degli ebrei. Di sicuro di quelli che vivono in Israele. È di nuovo Gil Marks a ricordare quanto il cocomero sia un simbolo non solo della bella stagione, del caldo e delle merende sulla spiaggia, ma anche dell’agricoltura e della cultura popolare del paese. L’anguria avrebbe accompagnato la nascita stessa dello Stato, tanto da comparire in diverse canzoni dei suoi pionieri. Lo storico statunitense cita Avatiach, composta nel 1938 da Shmuel Bass e Menashe Rabinowitz e arrangiata da Ernst Toch, vero inno del frutto che “cresce, anche al sole, anche all’ombra”, ma facendo una rapida ricerca troviamo con facilità anche altri esempi. Avatichim! ad esempio evocava i suoni degli shuk, i grandi mercati all’aperto, ed era stata composta nel 1935 da M. Weiner. Compare in una raccolta intitolata Palestinian Folk Songs, che comprende dieci canzoni popolari israeliane e mediorientali arrangiate da Abraham W. Binder. A sua volta Marks ricorda il disco d’oro del 1971 della cantante israeliana Chava Alberstein intitolato Isha ba’Avatiach, ossia Una donna in una anguria.

Passando dal folk alle tecniche agricole, pare che anche qui gli israeliani si siano impegnati nell’esaltare le angurie. Tra le varietà coltivate troviamo frutti più piccoli e tondi rispetto a quelli diffusi in altre parti del mondo, quasi privi di semi, o al contrario tipologie coltivate proprio per questi. Nel primo caso si tratta di una selezione elaborata da uno scienziato giapponese nel 1939 e quindi perfezionata dagli agronomi israeliani, nel secondo di una varietà che va a ripescare in qualche modo l’uso che si faceva degli antichi frutti. Parliamo dell’anguria Malali, il cui nome deriva dal villaggio di Kfar Malal, nel centro di Israele, dove è stata coltivata per la prima volta. Qui, a un certo punto della coltivazione, si smette di irrigare le piante, lasciandole per un paio di settimane senz’acqua. Il risultato è un notevole stress per i frutti, che accelerano il processo di maturazione dei semi, si suppone proprio per assicurare un futuro almeno alle generazioni successive. E sono proprio i semi a essere raccolti, essiccati e mangiati. Il resto del frutto non viene consumato, ma lasciato a marcire nei campi, producendo ingenti quantità di biossido di carbonio.

Per ridurre gli sprechi e soprattutto per limitare la creazione di gas serra, qualche anno fa si era pensato di sfruttare gli scarti per produrre integratori alimentari di licopene, prezioso antiossidante concentrato nella polpa. Sfruttando invece l’alto livello di zuccheri presenti in queste angurie si era anche pensato di estrarvi etanolo, utilizzabile come carburante. Considerato che l’industria dell’anguria israeliana è piccola, si sarebbe trattato di una goccia nel mare dei bisogni di energia e di fonti rinnovabili, ma l’idea era stata comunque accolta con entusiasmo, se non altro per le buone intenzioni. Con la speranza che le ricerche su questo frutto dalla storia millenaria potessero aprire la strada ad altre a più ampia applicazione e a beneficio dell’intero pianeta.

Insalata di anguria allo yogurt

Ingredienti

1 grossa fetta di anguria senza semi
1 pompelmo
200 g di yogurt greco
1 ciuffo di rosmarino
2 cucchiai di miele
1 ciuffo di menta
semi di papavero
peperoncino in scaglie
olio extravergine d’oliva
sale

Procedimento

Spremere il pompelmo per ricavarne il succo. Privare l’anguria della scorza e tagliarla a cubetti, quindi trasferirla in una ciotola e spruzzarla con il succo.
Staccare gli aghetti del rosmarino e rosolarli in una padella con qualche cucchiaio di olio caldo, poi prelevarli, asciugarli su carta da cucina e conservare l’olio.
Mescolare lo yogurt con una presa di sale e il miele fino a ottenere una salsina liscia, poi versarlo sul fondo di un ampio piatto da portata. Disporvi sopra l’anguria e condirla con l’olio tenuto da parte.
Spolverizzare l’anguria con il rosmarino sminuzzato, il peperoncino e i semi di papavero, completare con le foglioline di menta e servire.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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