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Rav Sharon Shalom, una storia al tempo presente tra religione e immigrazione

Ritratto del rabbino e docente universitario in occasione del convegno dell’International Network for Interreligious Research and Education a Bar Ilan

Ci sono un rabbino, un frate e un imam…
No, non è l’inizio di una barzelletta: è un convegno che si è svolto presso l’Università di Bar Ilan, organizzato dal 7 al 9 giugno scorsi dall’International Network for Interreligious Research and Education e supportato dall’Israel Science Foundation. Il tema di quest’anno è stato “Religione ed immigrazione” ed era volto ad esplorare il ruolo della religione nell’integrazione socio-culturale degli immigrati, il senso di continuità nella tradizione, ma anche i collegamenti con la nuova società ospitante costruiti dai leaders religiosi. In una parola, il ruolo multiforme che la religione gioca nell’immigrazione e la funzione che l’immigrazione ricopre nel ridisegnare il panorama religioso mondiale.

Tra i partecipanti al convegno anche rav Sharon Shalom, che di immigrazione e religione non è solo uno studioso, ma ha fatto anche ampia esperienza personale. Nato nel 1973 e cresciuto, con il nome di Zaude Tesfay, in un villaggio di pastori del nord dell’Etiopia che ospitava non più di una ventina di famiglie ebree, per lui da bambino Gerusalemme era fatta d’oro e si ergeva in una terra di latte e miele, dove tutti sono ebrei e non esiste l’antisemitismo. Quando Zaude aveva otto anni, nel suo villaggio arrivò un rappresentante della Jewish Agency per aiutare gli ebrei etiopi a raggiungere Eretz Israel: vendendo rapidamente tutto ciò che potevano e lasciando dietro di loro tutto ciò che non potevano vendere, gli ebrei del villaggio si prepararono a tornare a Gerusalemme dopo 2500 anni. Ma il viaggio fu tutt’altro che semplice e molto più lungo del previsto. Qualcuno a dorso di mulo, la maggioranza a piedi, Zaude, la sua famiglia e tutti gli altri camminarono per due mesi dall’Etiopia al Sudan, convinti che sarebbero arrivati presto a Gerusalemme. Ma una volta giunti al campo profughi di Twawa capirono che l’attesa poteva durare anche anni. In un campo sovraffollato, in cui le condizioni sanitarie erano penose, le malattie e le infezioni all’ordine del giorno, migliaia di persone morirono. I più a rischio erano ovviamente i bambini e per questo alcune famiglie facevano partire i loro figli da soli, prima dei genitori e degli altri parenti, per cercare di salvare loro la vita. Anche i genitori di Zaude fecero questa scelta. Quando lui aveva otto anni, lo caricarono su un camion insieme agli zii (e a centinaia di altre persone) e lo salutarono. Secondo i calcoli, loro non sarebbero riusciti a fare aliyah prima di due o tre anni.

Dopo il viaggio in un camion puzzolente e sovraffollato, la traversata in barca del Mar Rosso, il trasferimento aereo da Sharm el-Sheikh, nel gennaio 1982 Zaude si trova finalmente di fronte all’impiegato dell’ufficio immigrazione dell’aeroporto Ben Gurion. Ma i problemi non erano certo finiti. Gli dissero che i suoi genitori erano morti (notizia che si rivelò falsa due anni dopo, quando la sua famiglia al completo riuscì ad arrivare in Israele) e lo mandarono in un orfanatrofio ad Afula. L’arrivo in Israele coincise anche con il cambio di nome: Zaude divenne Sharon e la doppia identità accompagnò ed interrogò il bambino per anni. «Quando arrivai in Israele c’erano pochissimi ebrei etiopi nel Paese ed io mi sentivo straniero. Avevo la costante sensazione che la gente mi guardasse come se fossi il personaggio di una storia per bambini. Ricordavo quel sentimento di estraneità, dall’altro lato della medaglia, da quando ero ancora in Etiopia. Chi ero io? In Etiopia ero considerato un ebreo di Beta Israel (La casa di Israele, nome della comunità ebraica etiope): mi chiamavano “Israele”. Ma ironicamente qui in Israele mi chiamavano “Etiope”. Per me fu un’esperienza sconcertante scoprire che ero etiope» ricorda Zaude-Sharon.

Ed è allora che inizia ad interrogarsi sul valore della differenza, benedizione o handicap? O sull’essere o non essere razzista della società israeliana e sulla necessità di riformulare la propria identità, preservando o abbandonando le tradizioni etiopi. Con il tempo Sharon Zaude comprende che «ci sono molti modi di rendere culto a Dio e sono tutti ugualmente legittimi» e anche «che ogni individuo al mondo incontra difficoltà e sfide lungo la strada». Così si rende conto che «la società non avanza rivendicazioni personali contro determinati individui o gruppi. Ciascun individuo determina come interpretare la società, in chiave positiva o negativa».

Oggi Sharon Zaude Shalom ha ottenuto un MA in Talmud e un PhD in Filosofia Ebraica presso l’Università di Bar Ilan, poi confluiti nel volume From Sinai to Ethiopia: The Halakhic and Cenceptual World of Ethiopian Jewry (2016). Ha servito come ufficiale nell’esercito israeliano; ha studiato presso la Yeshivat Har Etzion e fa parte della rabbanut israeliana. E oltre a servire come rabbino in una comunità di Kiryat Gat fondata da sopravvissuti della Shoah, insegna all’Università di Tel Aviv (Ebraismo etiope: dal ghetto alla segregazione) e a quella di Bar Ilan (Cultura, halakhah e tradizioni delle comunità etiopi e Tolleranza e pluralismo nelle fonti ebraiche). L’analisi della relazione tra identità personale e società ed il tentativo sempre riproposto di rispondere alla domanda «chi è ebreo?» hanno intessuto la sua vita, i suoi studi e la sua attività rabbinica. Nello sforzo di riconciliare le differenze tra la Gerusalemme sognata e quella realmente incontrata dopo l’aliyah, rav Shalom è diventato anche senior lecturer presso l’Ono Academic College, una particolare istituzione accademica che si prefigge lo scopo di realizzare un’educazione egalitaria e inclusiva. Così tra i suoi 18.000 studenti sono numericamente preponderanti quelli che provengono da settori marginali e sottorappresentati culturalmente nella società israeliana: beduini, drusi, ebrei etiopi, palestinesi, arabi israeliani, ma anche ebrei ultraortodossi, per i quali è stato realizzato un campus in cui uomini e donne possano studiare separatamente, ma seguendo gli stessi programmi e ottenendo in tal modo un titolo legalmente riconosciuto.

 


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