Cultura Cinema
“Shiva baby”, racconto di formazione nel mondo ebraico contemporaneo

Il film di Emma Seligman, disponibile in streaming dall’11 giugno

Una giovane ebrea bisessuale, studentessa e sugar baby a tempo perso. Ci sono un sacco di elementi in gioco nei 77 minuti di Shiva Baby, il film diretto dall’esordiente ventiseienne Emma Seligman e in streaming da venerdì 11 giugno sulla piattaforma Mubi.
La ragazza in questione è Danielle (interpretata da Rachel Sennott), la protagonista del film, letteralmente stritolata dagli eventi nel corso di una giornata in cui non accade nulla di particolare, ma che in qualche modo le cambia la vita. La scena si svolge in una cittadina statunitense, in un ambiente ebraico borghese, con parenti e conoscenti reduci dal funerale di una zia o uno zio, non si capisce. Lei ne sa poco e niente, e raggiunge gli altri già affannata e in ritardo perché impegnata fino a un attimo prima con il proprio amante.
Riuniti per il rituale funebre della shivah, gli ospiti mangiano e parlano chiusi in una casa che via via che passano le ore diventa sempre più una prigione per la protagonista. O, meglio, un percorso a ostacoli. Il primo è l’arrivo di Maya (Molly Gordon), sua ex brillante compagna di scuola, nonché ex fidanzata, l’altro è il ritrovarsi a sorpresa faccia a faccia con Max (Danny Deferrari), l’uomo che ha da poco salutato e che ora dovrebbe avvicinare, spinta dal padre, in cerca di un lavoro. Affascinante e più maturo, Max soddisfa gli sfizi materiali di Danielle in cambio di sesso e di qualche ora di spensieratezza. In gergo, è il suo sugar daddy.
Peccato che l’uomo sia ora in compagnia della bella e ricca moglie non ebrea, Kim, di cui Danielle non conosceva l’esistenza, e del figlioletto piangente, che strilla dall’inizio alla fine del film, contribuendo alla claustrofobia che ne caratterizza il tono generale. Su tutto, le montagne di cibo consumato per passare il tempo, trovare un rifugio o una scusa per non parlare, il chiacchiericcio delle donne che assillano su studi e lavoro e l’amore soffocante di mamma Debbie (Polly Draper), ingombrante e invadente quanto si vuole, ma pronta a tutto pur di aiutare, a modo suo, la figlia.
In questo frastuono di voci e di rumori di piatti e bicchieri, l’identità sessuale della ragazza non sembrerebbe rappresentare il vero problema della sua esistenza, viene data semplicemente per scontata, così come accade nell’intero film con l’ebraicità dei personaggi, rappresentati senza scadere troppo spesso nei cliché più triti. Persino l’impiego di Danielle come amante retribuita di Max, per quanto tenuto segreto, non è mostrato come qualcosa di straordinario, tanto più che la ragazza viene regolarmente mantenuta dai genitori, ed è quindi priva di stringenti bisogni economici. Risulta, insomma, una sua scelta libera e divertita.
La shivah, però, non è vissuta con altrettanta leggerezza. E la contiguità forzata nella stessa casa e per tante ore con sconosciuti e conoscenti inopportuni porta a un vero e proprio tracollo emotivo per Danielle. L’ansia che si avverte fin dalle prime scene del film cresce via via che la storia procede, al punto che la giovane, per citare la stessa regista, intervistata da Marianna Tognini su Rolling Stone , «ha un improvviso e prolungato attacco di panico».

Vero protagonista del film, che pure si presenta come una commedia, il malessere crescente di Danielle, stretta tra la curiosità sulla sua vita dei più anziani e l’impossibilità di sfuggire da ex fidanzata e amante, ha la virtù, per lo spettatore, di essere insieme particolare e generale. Come sottolinea Monica Castillo su RogerEbert.com la trama di Shiva Baby riesce a essere «sia universalmente riconoscibile nella sua rappresentazione di dinamiche familiari imbarazzanti, sia molto specifica per l’esperienza di Danielle nel vedere la sua vita sessuale scontrarsi con la sua comunità religiosa».
Al tempo stesso, la libertà con cui Danielle vive le proprie scelte è comunque appoggiata dagli affetti più cari, in particolare dalla madre, che si limita a dirle di tenere fuori dai giochi la sua vecchia fidanzata. Allargando il campo, questo atteggiamento così liberale parrebbe più diffuso presso gli ebrei americani che tra gli appartenenti di altre religioni. La Seligman, che condivide con il suo personaggio ebraismo e bisessualità e che ammette di aver mutuato il rapporto tra Danielle e Debbie dalla sua esperienza di figlia, ricorda quanto fosse facile parlare con sua madre di sesso. Nell’intervista già citata su Rolling Stone, la regista azzarda una teoria su questa maggiore apertura della comunità ebraica alla modernità e ai suoi costumi: «Dopo l’Olocausto molti ebrei hanno perso contatto con la religione e hanno smesso di credere in Dio, conformandosi a una moderna e tranquilla esistenza americana. Questo, paradossalmente, ha fatto sì che parte della comunità non si chiudesse, ma anzi aprisse la conversazione a temi fino ad allora taciuti e si evolvesse a sua volta, per ritrovare coloro che avevano perso la fede interpretando la religione in modo più inclusivo».

D’altro canto, osservando come oggi cinema e Tv siano in grado di parlare in modo più fluido della realtà ebraica, la regista nota che mentre fino a non troppo tempo fa «gli ebrei dovevano essere dipinti o come ultra osservanti o come atei», oggi non sia più così, visto che «ci sono tanti ebrei per i quali la religione non è una gabbia e che desiderano praticarla in maniera devota pur rimanendo se stessi».
Questo stesso aspetto è messo in luce anche da Mattie Townson su Religion Unplugged, che si concentra tra l’altro sulle due relazioni di Danielle, quella omosessuale con Maya e quella, in definitiva mercenaria, con Max. Se da una parte la stessa comunità religiosa pare aperta verso la storia tra le due ragazze, per quanto vista come un semplice momento di passaggio, dall’altra la relazione con lo sugar daddy non può essere accolta con altrettanta liberalità. Tanto più dopo averlo scoperto sposato con prole.
Secondo la Townson, la regista «esplora la battaglia interna di Danielle sul controllo e il potere e su come la sua educazione affermi o neghi il suo modo di vivere come donna ebrea bisessuale contemporanea che sperimenta il lavoro sessuale transazionale». Da parte sua la Seligman, che ha girato il film adattandolo a un suo precedente cortometraggio, con protagonista la stessa Rachel Sennott, ha in più occasioni rimarcato l’aspetto ansiogeno dell’operazione, tanto da aver proposto di inserire il suo lavoro in un nuovo genere, da lei battezzato “neurotica”.
La turbolenza emotiva che caratterizza la protagonista, però, darebbe a questo film un ulteriore elemento di ebraicità, già evidente nella continua commistione tra comicità e dramma, tra riso e pianto evidenziato su Paste da Isaac Feldberg. Secondo l’autore della recensione, «Seligman identifica una sovrapposizione piuttosto affascinante tra le tendenze comiche ebraiche e la presa in giro della sofferenza esistenziale da cui i millennial traggono così tanto del loro umorismo oscuro».
La ricerca di una identità, a cominciare dal sapere “che cosa fare da grandi” fino al capire quale sia il proprio ruolo nel mondo, viene infine messo in luce in un articolo uscito su Times of Israel. Esaltando il lungometraggio come “un grande film ebraico”, Jordan Hoffman interpreta la conclusione di questa indagine in chiave religiosa: «Quando Danielle si rende conto di non avere il controllo di nulla nella vita che immaginava per sé, sperimenta una gamma di emozioni che culminano nell’abbraccio letterale del conforto rassicurante del suo ebraismo. Le sue scelte su cosa fare dopo le appaiono più chiare, mentre si prepara a iniziare la sua vita da adulta».

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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